venerdì 24 settembre 2010

IL VICOLO CIECO TRIONFO, INVOLUZIONE E TRAGEDIA DEL MOVIMENTO COMUNISTA di Antonio Moscato tratto dal sito http://antoniomoscato.altervista.org/index.php?option=com_docman&Itemid=27



IL vicolo cieco Trionfo, involuzione e tragedia del movimento comunista Significato del corso Il corso dell’anno accademico 1999-2000 affronta una sintesi di quanto trattato nei corsi degli anni precedenti: le cause profonde del crollo del sistema sorto intorno all’Unione Sovietica e della crisi o trasformazione di quegli stessi paesi che avevano visto tentativi di distaccarsi dal modello affermatosi in URSS con Stalin e i suoi epigoni.
Si tratta quindi di un fenomeno di grande complessità, e di notevole importanza nella storia mondiale, che ha chiuso il periodo di conflitti che hanno caratterizzato quasi tutto il ventesimo secolo, aprendone un altro; la sua trattazione è praticamente assente dai programmi delle scuole medie superiori, o è affrontata superficialmente o con forti pregiudiziali ideologiche che impediscono la comprensione delle ragioni prima dell’ascesa e dei grandi successi, poi dell’involuzione e del declino di un sistema che si è esteso su una grande parte del pianeta, condizionando in un modo o nell’altro la vita politica degli stessi paesi che si contrapponevano ad esso. Sarà così possibile avere gli strumenti per comprendere l’origine delle tragedie di questi anni (dissoluzione dell’URSS, esplosione della Jugoslavia con il moltiplicarsi di nazionalismi violenti e fanatici, esasperazione dei conflitti nei paesi sottosviluppati sottoposti a una dominazione unipolare, ecc.).
 Gli studenti hanno quindi la possibilità di affrontare la storia – altrimenti ignorata - di un grande processo che ha segnato il nostro tempo e continua a pesare nel presente con le ripercussioni mondiali della sua crisi (si pensi alla recente Guerra dei Balcani). Pur essendo dedicato al declino e crollo del sistema sorto intorno e sul modello dell’Unione Sovietica, il corso deve dedicare una parte notevole alla sua formazione, ai successi iniziali dell’URSS, alle scelte che si posero al suo gruppo dirigente soprattutto dopo la morte di Lenin. Ciò è tanto più necessario perché da dieci anni una impressionante campagna ideologica (in nome della “fine delle ideologie”…) ha cercato di “demonizzare” non solo la rivoluzione russa del 1917 ma la stessa rivoluzione francese del 1789, presentandole non solo come tragici errori ma soprattutto come frutto delle velleità di piccoli gruppi intellettuali. Così, prima di tutto, è necessario ricostruire la realtà della rivoluzione russa, smontando la tesi del “colpo di Stato di una minoranza” velleitaria, astratta e intollerante. Oltre a tutto, presentandola caricaturalmente in questo modo, non si riesce a spiegare la sua straordinaria forza di attrazione su gran parte del movimento operaio europeo e mondiale nel corso dei suoi primi difficilissimi anni (in molti paesi la maggioranza dei vecchi partiti socialisti si collegarono all’esperienza sovietica sul piano dapprima ideale, poi stabilendo legami strettissimi e condizionanti) se non come effetto di una colossale mistificazione.
E tanto meno si riesce a spiegare le ripercussioni della rivoluzione russa sugli stessi governi capitalistici europei, costretti ad esempio a concedere rapidamente quella giornata lavorativa di 8 ore che da decenni figurava ovunque in testa alle richieste socialiste e sindacali, ma che fu strappata quasi ovunque proprio per l’impatto politico e psicologico del successo degli operai di Pietrogrado, che la imposero nel giro di poche settimane tra l’aprile e il maggio del 1917, e la consolidarono con la rivoluzione d’Ottobre.
Dispensa 1 LE PREMESSE DELLA RIVOLUZIONE RUSSA La rivoluzione russa non può essere ridotta al ruolo di Lenin, come è stato fatto per decenni dal culto ufficiale del “leninismo” imposto da Stalin al movimento comunista, e come viene fatto oggi –per ragioni opposte – dai detrattori: è una storia ben più complessa e originale. La Russia era rimasta al margine dell’Europa fino alla spedizione napoleonica del 1812, con un regime autocratico appoggiato su una Chiesa ortodossa così retrograda da non accettare neppure la riforma gregoriana del calendario, rimanendo legata a quello giuliano, che di secolo in secolo la portava a una sfasatura sempre maggiore rispetto al calendario solare, e rispetto al resto dell’Europa (per questo la “rivoluzione di febbraio” si chiama così, essendo iniziata in occasione della giornata internazionale della donna, l’8 marzo, che in Russia era il 25 febbraio). Il contatto di molti ufficiali russi – tutti di origine nobiliare - con le capitali europee in cui arrivarono da conquistatori dopo la sconfitta di Napoleone, influenzò i più giovani e sensibili, che diedero vita pochi anni dopo, nel 1825, al primo movimento democratico antizarista, quello dei decabristi. Finirono quasi tutti sul patibolo. La lotta contro lo zarismo fu portata avanti poi dai populisti, anch’essi di estrazione nobiliare o borghese, che puntarono senza troppo successo a mobilitare le masse contadine, e combatterono il regime autocratico ricorrendo largamente al terrorismo individuale. Molti di loro, tra cui il fratello maggiore di Lenin, finirono sul patibolo. A rendere necessarie alcune riforme furono soprattutto le difficoltà che la Russia, che pure per conto della Santa Alleanza aveva assunto nella prima metà del XIX secolo il ruolo di gendarme dell’Europa, riscontrò nelle campagne militari di consolidamento delle conquiste in Asia centrale e nelle diverse guerre contro la Turchia, che avevano come obiettivo ultimo la conquista degli Stretti e quindi l’accesso al mare Mediterraneo anche d’inverno (i porti settentrionali rimanevano bloccati dai ghiacci per molti mesi). In particolare nella guerra di Crimea del 1853-1856 (in cui le principali potenze europee si coalizzarono contro la Russia per impedire che si appropriasse di una parte troppo grande dell’impero ottomano in disfacimento) emerse chiaramente che era praticamente impossibile far combattere efficacemente dei soldati analfabeti e assolutamente non motivati, arruolati tra i servi della gleba. Ne morirono 300.000, per armi da fuoco o per malattie, anche per l’incapacità degli ufficiali. Così nel 1861 viene finalmente abolita la servitù personale, ma per il riscatto i contadini dovettero pagare somme molto forti, che li indebitarono per decenni. Pochissimi riuscirono ad ottenere un appezzamento di terra sufficiente, su cui però dovettero pagare tasse enormi, di sei o sette volte superiori a quelle dei vecchi latifondisti.
Grazie a queste prime misure, negli anni ’60 e ’70 comincia a svilupparsi il capitalismo in Russia, con una rapidità sorprendente che farà parlare di una “serra del capitalismo”. Come in una vera serra, la rapidità e l’artificiosità dello sviluppo nascondono squilibri e un’intrinseca debolezza. La borghesia russa è fortemente intrecciata ai capitali stranieri, il cui intervento è incoraggiato dal governo: si sviluppano grandi industrie modernissime, ma subordinate agli investitori stranieri, da cui dipendono per i pezzi di ricambio, per i tecnici, ecc. In cambio, nelle fabbriche si concentra una classe operaia che acquista abbastanza rapidamente una coscienza politica (più che sindacale: il regime zarista vieta ogni aggregazione e nella clandestinità prevale un’organizzazione di tipo partitico). La maggior parte degli operai sono arrivati in città da poco, o sono al massimo di seconda generazione (vuol dire che hanno legami profondi con la campagna, dove hanno il padre o il nonno, il che faciliterà il loro ritorno al villaggio nel 1918-1920, quando la guerra civile distruggerà le comunicazioni e paralizzerà l’economia).
Scheda Il concetto di “rivoluzione” Il concetto di “rivoluzione” non è molto antico: nasce nel corso della rivoluzione inglese del 1688, come sinonimo di un cambiamento radicale, anche se i protagonisti della rivoluzione inglese non avevano una piena consapevolezza di ciò che stavano facendo. Essi pensavano infatti di potere e dovere ritornare indietro: la rivoluzione inglese comincia in difesa di quei diritti che ritenevano fossero stati violati e negati dai re Stuart. In realtà si faceva strada, anche se in parte meno coscientemente formulato, un progetto molto più avanzato: ottenere i diritti dell'uomo. Da questo punto di vista la rivoluzione francese è molto più avanzata, per le sue caratteristiche iniziali di rovesciamento violento dell'assetto sociale e politico, ed ha due molle, libertà e uguaglianza (anche la fraternità, che tuttavia è più vaga e meno concretizzabile), di cui l’uguaglianza è la più importante, anche se viene cautelativamente arginata appena la rivoluzione comincia a rifluire. Quella francese è la prima rivoluzione che punta al futuro; la stessa rivoluzione russa comincia con un riferimento a quelle precedenti, in particolare alla rivoluzione francese. Tutti i processi rivoluzionari hanno guardato al passato. Quando nel 1889 nasce la Seconda Internazionale, fa riferimento alla rivoluzione francese, della quale ricorreva il primo centenario.
I primi partiti socialisti si sviluppano affrontando i problemi più immediati delle classi lavoratrici, ma anche con l'idea di dover completare quello che la rivoluzione francese aveva iniziato e non aveva potuto portare a termine per l’involuzione termidoriana, e poi l’affermarsi del bonapartismo. Lo stesso Marx parte dalla riflessione sulla rivoluzione francese (a cui dedica molte pagine), per arrivare alla conclusione che la rivoluzione non si può fermare a metà, che deve essere sviluppata in permanenza per evitare che dal passato riaffiori la vecchia melma (Marx in realtà usa un altro termine più brutale). E da questa riflessione partirà Lev Trotskij dopo il 1905 per formulare la teoria della rivoluzione permanente. Bolscevichi e menscevichi Il partito operaio socialdemocratico russo (POSDR) nasce nel 1892 con caratteristiche eclettiche, ma ha già una componente marxista di cui Lenin è uno degli esponenti fondamentali, e si propone di conquistare i settori decisivi della classe operaia, ritenuta già prima della verifica del 1905 l’unica forza capace di lottare a fondo contro lo zar. Una premessa importante della rivoluzione russa è lo scontro interno al POSDR, che nel 1903 porta il partito a definirsi ma anche a dividersi.
Contrariamente a uno dei luoghi comuni più diffusi, l’unità non è il bene supremo: può essere paralizzante perché basata su equivoci, su compromessi tra tendenze con orientamenti profondamente divergenti. In alcuni casi, sostiene Lenin, è meglio avere un partito più piccolo ma con maggiore omogeneità e un programma ben definito e radicato nella realtà, che un calderone in cui coesistono forze anche socialmente diverse. Il II congresso si svolge nel 1903 (dato che i delegati erano clandestini e braccati da tutte le polizie, il congresso comincia in Belgio e si sposta poi a Londra) e identifica quelle che saranno le forze trainanti della rivoluzione: in quel congresso si discutono le caratteristiche che deve avere il partito, sulla base di quanto, un anno prima, Lenin aveva formulato nel "Che fare?", in cui abbozzava un progetto profondamente diverso da quelli esistenti, e dalle concezioni espresse da quelli che da allora saranno chiamati “menscevichi” (cioè minoritari). A loro volta i vincitori rimarranno per sempre i “bolscevichi”, cioè maggioritari, anche se ben presto i rapporti di forza muteranno a loro sfavore. Una delle più importanti polemiche di quel II Congresso del 1903 riguarda la questione dei criteri per definire chi è membro del partito.

I menscevichi ritenevano membro del partito chiunque condivide le sue idee generali, legge la sua stampa, e partecipa a qualche riunione. Lenin invece sostiene che solo chi dedica completamente la sua vita alla rivoluzione, e mette al primo posto l’impegno per difendere e affermare il programma del partito può essere considerato militante. Lenin parla di “rivoluzionario di professione”, e nell’uso corrente questa definizione è stata deliberatamente fraintesa, presentando il partito di Lenin come un’organizzazione di funzionari stipendiati. La preoccupazione di Lenin era quella di delimitare bene il partito, per evitare che decisioni fondamentali fossero prese da riunioni casuali, in cui votavano anche curiosi e persone non disposte a portare avanti anche a costo di gravi sacrifici quello che si era deciso. In particolar, quando c'è una dittatura spietata come quella zarista alcune decisioni possono riguardare la vita e la morte di molte persone e vanno prese solo da chi è pronto ad affrontarne tutte le conseguenze. Successivamente, nel 1907, Lenin ha modificato in seguito all’esperienza straordinaria della rivoluzione del 1905 una parte delle sue concezioni organizzative e ha rettificato il tiro, affermando che nel Che fare? aveva “tirato il bastone” un po’ troppo in direzione della rigidità organizzativa per reazione all’eccessivo spontaneismo e lassismo dei menscevichi. Inoltre, molte delle sue affermazioni di quella fase derivano dai problemi dovuti al periodo specifico in cui il partito si trovava, in una clandestinità totale, sottoposto a una spietata repressione. Ovviamente un partito in clandestinità non può avere una grande democrazia interna, non può discutere le cose in grandi assemblee di centinaia o migliaia di persone, ma è costretto a farlo in riunioni ristrettissime, i cui partecipanti si conoscono bene tra loro, per evitare infiltrazioni poliziesche.
Per questo nel 1902-1903 Lenin concepisce un partito piccolo e agile, formato da “quadri” accuratamente selezionati, mentre durante la rivoluzione del 1905 auspica un largo e rapido reclutamento di massa degli operai che hanno partecipato alla rivoluzione. Proprio sulla concezione del partito i dibattiti sono più accesi, e le posizioni di Lenin vengono attaccate duramente, ma anche fraintese, con echi che perdurano ancora oggi.. Ad esempio quando Lenin diceva che la coscienza socialdemocratica (oggi diremmo comunista) non nasce spontaneamente tra gli operai ma deve essere “portata dall’esterno”, intendeva dire che la diretta esperienza di un operaio (lo scontro con il proprio padrone per il salario, l’orario, contro l’autoritarismo, ecc.) non è sufficiente a far comprendere i problemi complessivi della società e dello scontro politico. Si basava, tra l’altro, su un concetto fondamentale di Marx: l’ideologia delle classi oppresse è di norma quella delle classi dominanti, e può mutare solo in base all’esperienza diretta, soprattutto in periodi rivoluzionari e in quelli in cui la rivoluzione sta maturando (i periodi “prerivoluzionari”).
Lenin intendeva dire che deve giungere “dall’esterno” dell’esperienza diretta, nel senso che occorre far capire i complessi rapporti tra tutte le classi della società, i meccanismi dell’economia, le esperienze di altri luoghi e altri periodi, di cui un singolo operaio non può avere esperienza diretta, ecc. Invece si è ridotto il pensiero di Lenin al fatto che dovrebbero essere gli intellettuali a “dare la linea” agli operai, (come si continua a dire caricaturalmente ancora oggi). Egli alludeva al fatto che solo un organismo politico complessivo può consentire di vedere tutta la foresta, mentre un singolo operaio inevitabilmente – in base alla sua sola esperienza - è portato a vedere il singolo albero che ha di fronte. Una seconda questione di cui si discute nel Congresso riguarda la natura e i compiti della rivoluzione: in Russia non c’era stata la rivoluzione borghese. La borghesia non era in grado di portare avanti il suo stesso programma, per le ragioni che Marx aveva colto già nel 1848 in Germania e in altri paesi, dove la rivoluzione borghese non era stata completata: la comparsa del proletariato terrorizzava i borghesi e li spingeva a gettarsi nelle braccia della monarchia e dei conservatori per essere protetti. La borghesia aveva paura dei proletari ben più che dei suo storici nemici feudali. Il dato era inequivocabile. Ma di fronte a questo i menscevichi ricavano la conclusione che, comunque, bisognava allearsi con la borghesia per incalzarla e spingerla a portare avanti la sua rivoluzione democratica (abbattimento del potere zarista, riforma agraria). Un’alleanza organica con la borghesia obbligava tuttavia il partito operaio a rinunciare agli obiettivi sociali della rivoluzione (come l’eliminazione degli ostacoli materiali che impediscono un’uguaglianza reale: ad esempio la libertà di stampa è teorica se i mezzi di informazione sono di proprietà dei grandi capitalisti; da qui nasce l’esigenza di sostituire la proprietà privata dei mezzi di produzione con quella collettiva).
Anche Lenin e i bolscevichi non escludono l’alleanza con la borghesia durante la prima fase o tappa della rivoluzione, quella appunto democratico-borghese, ma ritengono che all’interno dell’alleanza la direzione spetta al proletariato e non alla borghesia. C’era una terza posizione, sostenuta in particolare da Trotskij, e anche da Rosa Luzemburg (che pur militando nella socialdemocrazia tedesca manteneva in quanto dirigente del partito socialdemocratico polacco un legame con quella russa e partecipava ai suoi congressi): questa posizione, che verrà poi meglio definita dopo la clamorosa conferma del 1905, si basava sul fatto che se era il proletariato a doversi assumere il compito di portare a termine la rivoluzione borghese al posto della borghesia che capitolava, non poteva fermarsi ad essa, spargendo ancora una volta il proprio sangue per altri. Ci doveva quindi essere non una prima “tappa democratico-borghese” come sostenevano i bolscevichi, ma una trascrescenza della rivoluzione dai compiti democratici iniziali a quelli socialisti, ovviamente impossibili da portare avanti con qualsiasi tipo di alleanza interclassista con le forze borghesi. Esattamente quello che si verificherà nel 1917. Gli schieramenti quindi sono molto complessi, e su molte questioni i blocchi di voti si scompongono e riaggregano: grosso modo possiamo dire che le posizioni principali sono tre, quella bolscevica, quella menscevica (con molte sfumature al suo interno) e quella di Trotskij, che è contrapposta rigidamente a quella bolscevica sulle questioni organizzative, su cui sembra convergere con i menscevichi, ma che sulle questioni di fondo si colloca alla sinistra degli stessi bolscevichi.
Abbiamo già accennato che Trotskij correggerà poi la sua posizione sul partito, accettando con convinzione quella proposta da Lenin (che nel frattempo si è arricchita e articolata); ma vedremo che anche Lenin farà sua nel 1917 e già negli anni immediatamente precedenti la concezione della “rivoluzione permanente”elaborata da Trotskij, escludendo categoricamente ogni alleanza con la borghesia e superando la concezione della rivoluzione in due tappe. Su queste grandi questioni il partito si divide in due frazioni nel 1903. Le frazioni sono tronconi del partito che portano all’esterno le loro divergenze, anche se esse si considerano sempre parte dello stesso partito, e usano la stessa sigla POSDR, a cui i bolscevichi aggiungono una piccola (b) per caratterizzarsi. Nel 1906 bolscevichi e menscevichi, nel clima di entusiasmo provocato dalla rivoluzione, che ha allargato enormemente la loro area complessiva, si riunificano fissando le condizioni per la tutela delle minoranze (il famoso “centralismo democratico”, che garantisce la piena libertà di discussione, ma impegna poi tutti ad applicare la linea diventata maggioritaria, senza rinunciare neppure successivamente a difendere le proprie idee). La scissione definitiva in due partiti avverrà solo nel 1912, dopo la sconfitta, quando le rispettive posizioni politiche si saranno allontanate ulteriormente (anche se in periferia rimarranno fino al 1917 circoli in cui bolscevichi e menscevichi lavorano insieme, per evitare di disorientare la massa operaia meno matura, che non capisce tutte le questioni su cui è avvenuta la scissione).
Anche questo conferma che l’organizzazione “leninista” del partito era nella pratica ben diversa da come è stata presentata e codificata in epoca staliniana. D’altra parte l’ufficio di segreteria, diretto da Sverdlov nei primi anni dopo la vittoria della rivoluzione, era composto da un piccolo nucleo di militanti, e soprattutto aveva solo il compito di raccogliere e trasmettere informazioni alle organizzazioni periferiche, e non aveva nulla a che fare con l’ipertrofico apparato costruito da Stalin a partire dal 1922, che preoccupò tanto Lenin negli ultimi momenti di lucidità da spingerlo a chiedere nel suo Testamento politico l’allontanamento di Stalin dalla delicata carica di cui si era impossessato trasformandola completamente. Un altro dato, che conferma che il “leninismo” è stato creato da Stalin dopo la morte del grande dirigente bolscevico, viene dal fatto che quando Lenin seppe che si stava preparando un’edizione delle sue opere, protestò sostenendo che non gli sembrava utile, perché tutti i suoi scritti erano legati a fasi concrete e a specifiche battaglie contro quelle che in quel momento dato gli apparivano posizioni da contrastare, e non dovevano quindi essere presentate e tanto meno studiate come verità assolute. Ciò vale non solo per la concezione del partito.

Lenin non voleva che ogni sua parola fosse presa come una verità eterna e indiscutibile, valida per ogni tempo. Abbiamo parlato già dell’evoluzione delle sue concezioni sul partito, ma anche sui soviet aveva un atteggiamento ben diverso nel 1917 rispetto al 1905 (quando era piuttosto diffidente nei loro confronti perché gli sembravano incontrollabili). Nel 1917 e negli anni immediatamente precedenti, nella riflessione sui successi e le sconfitte della prima rivoluzione, Lenin aveva capito perfettamente la funzione oggettiva dei soviet: la sottolinea infatti prima che siano ricomparsi e poi anche quando si sviluppano senza che i bolscevichi abbiano ancora un peso significativo al loro interno. E sostiene la parola d’ordine “Tutto il potere ai soviet” anche quando i bolscevichi sono nettamente minoritari rispetto a menscevichi e socialrivoluzionari. Lenin ha capito già alla vigilia della rivoluzione che i soviet sono un organismo spontaneo della classe operaia, che sorge nei periodi rivoluzionari e consente l’unificazione delle masse ancora poco politicizzate che stentano a capire la dialettica tra i partiti e le tendenze politiche, ma sanno bene chi è il più capace e coerente combattente contro il padrone nella loro fabbrica e lo eleggono. I soviet erano comparsi per la prima volta nel 1905 in una forma che viene definita “spontanea”, ma solo nel senso che non era stato nessun partito operaio a dare l’indicazione di eleggerli: Paradossalmente, era stato un generale della polizia segreta zarista, Zhubatov, che per poter controllare l’imprevisto movimento di scioperi aveva chiesto agli operai di eleggere un delegato per ciascuna fabbrica. Il suo obiettivo era anche quello di identificare e arrestare gli agitatori più pericolosi (e in effetti lo fa, ma gli operai imparano ad essere più prudenti e a non comunicare il nome degli eletti). Quel generale aveva involontariamente suggerito l’unico modo per poter organizzare democraticamente un movimento di molte decine e centinaia di migliaia di operai, combinando il criterio elettivo diretto (senza liste di partito, dato che in ogni fabbrica gli operai si conoscono e scelgono i migliori) con il controllo dal basso, attraverso la sostituzione immediata dei delegati che nell’assemblea di livello superiore (cittadina, regionale o nazionale) hanno sostenuto tesi non condivise dal loro elettorato. Si tratta di uno strumento che ricompare in ogni processo rivoluzionario, quando entrano in scena milioni di persone in precedenza inattive politicamente. Ogni rivoluzione proletaria moderna è esattamente questo: l’entrata in scena di quelle masse sfruttate che in tempi normali sono passive, indifferenti o rassegnate, e che invece cominciano a partecipare a movimenti rivendicativi, a scioperi, assemblee. Una rivoluzione inizia quando quelli che “stanno sotto” non accettano più di rimanervi per sempre e cercano confusamente la strada per soddisfare le loro rivendicazioni o aspirazioni, mentre quelli che “stanno sopra” non riescono più a governare come prima, e si dividono di norma tra chi vuole ricorrere alla repressione più dura e chi pensa invece di dover fare concessioni anche sostanziose, pur di evitare l’esplosione di tutte le tensioni accumulate. A monte c’è naturalmente la maturazione di uno strato operaio che ha accumulato esperienze in passato, e che scopre che trova consensi fino al giorno prima imprevisti. Questa è la premessa indispensabile di un’ascesa rivoluzionaria. Naturalmente, il fatto che entrano in scena anche molti individui fino a poco prima passivi significa che nella massa c’è molta inesperienza, che lascia spazio inizialmente anche a demagoghi e veri e propri ciarlatani, o a provocatori, come vedremo sempre nel 1905. Ma quale che sia l’innesco e la prima direzione embrionale, quello che conta è che sono moltissimi a fare esperienze di lotta, di discussioni politiche, e cominciano quindi a ragionare con la propria testa, anziché con le poche idee inculcate dagli strumenti di trasmissione dell’ideologia delle classi dominanti. La rivoluzione del 1905 La rivoluzione del 1905 ha colto di sorpresa tutti, anche la sinistra russa. Non era previsto dalle forze politiche di quel paese, le quali ritenevano che non ci fosse in quel momento in Russia una condizione rivoluzionaria; i bolscevichi venivano considerati una setta staccata del popolo che non sarebbe stata mai capace di fare una rivoluzione. Partiamo dal rapporto che Lenin fece ai giovani socialisti di Zurigo nel dodicesimo anniversario della domenica di sangue del 1905 (il giorno in cui un corteo pacifico e disarmato, mentre si recava dallo zar per portare una petizione, fu accolto dalle mitragliatrici). Accludiamo una fotocopia di questo testo, di grande interesse non solo per la ricostruzione di quel giorno drammatico, ma per l’analisi che traccia delle forze sociali e della dinamica della rivoluzione russa. È molto significativo che Lenin, mentre prevede le caratteristiche della prossima rivoluzione, di cui il 1905 è stato “la prova generale”, non si azzarda a prevederne i tempi, e afferma che forse la sua generazione non avrebbe visto la rivoluzione trionfare. Ciò smentisce categoricamente tutte le mistificazioni (sia apologetiche, di origine staliniana, sia criminalizzanti, di chi vuole ridurre la rivoluzione al colpo di mano di una setta fanatica) che attribuiscono a Lenin e ai bolscevichi la responsabilità di avere “scatenato la rivoluzione” del 1917. Va detto che i bolscevichi non erano né potevano essere d’accordo con l’iniziativa di andare a chiedere umilmente allo zar di interessarsi alle condizioni del suo popolo. La manifestazione del 22 gennaio del 1905 era stata organizzata dal pope Gapon (nel corso della rivoluzione si è scoperto che era un agente della polizia zarista, che lo aveva incaricato di raccogliere una parte degli operai, sottraendoli all’influenza dei bolscevichi). Naturalmente, per raccogliere consensi e organizzarli doveva fare un po' di denunce della situazione esistente. Lenin e la maggior parte dei bolscevichi e dei militanti più esperti consideravano assurda la petizione (lo zar, che è l’espressione degli strati più reazionari della società russa, non può non stare contro gli operai ed è grottesco chiedergli di fare il contrario). Lenin paragona il testo di quella petizione a quelli dei pacifisti del momento in cui scrive, cioè agli inizi del 1917. Ma egli osserva che i pacifisti europei che chiedono ai governi capitalisti assassini di fare una “pace democratica” sono ipocriti, mentre quelli che seguivano il pope Gapon erano poveri operai ingenui e inesperti. Nonostante la manifestazione fosse stata organizzata e guidata da un loro agente che faceva il doppio gioco, i generali dello lo zar hanno fatto sparare sulla folla perché spaventati dall’ampiezza della manifestazione. Quando infatti si raccolgono decine e decine di migliaia di persone esse acquistano coscienza della loro forza. Inoltre i bolscevichi, pur non approvando il testo della petizione e criticando gli intellettuali come Massimo Gorki che invece lo approvavano, non si staccarono dalla massa degli operai e parteciparono anche loro con striscioni e volantini, per intervenire all’interno della folla per farla riflettere e maturare. Quando i capi della polizia videro arrivare tante persone, tra le quali alcune con le bandiere rosse, decisero che la situazione era troppo pericolosa e spararono uccidendo 2.000 operai. I sopravvissuti presero coscienza del ruolo dello zar, abbandonando ogni illusione di commuoverlo con le loro umili petizioni: in ogni epoca, infatti, tra gli umili è diffusa l’idea che lo zar (o il re, il duce, ecc.) sia buono e che tutto il male dipenda dalle decisioni dei suoi funzionari, delle quali non sarebbe a conoscenza. In quel caso la verifica fu bruciante. Dopo il massacro impararono che chiedere umilmente non è la strada giusta, che bisogna organizzarsi e che lo zar è un nemico (chiedere a uno che governa nell’interesse dei grandi latifondisti e dei capitalisti di occuparsi benevolmente della sorte degli operai è come chiedere a una tigre di diventare vegetariana). Questo è il punto di partenza, che Lenin ricostruisce e commemora, ma osserva anche un altro dato: nei dieci anni precedenti all’esplosione del 1905 c’era stata una media di 43.000 scioperanti l’anno in tutta la Russia, quindi un totale di 430.000 in 10 anni. Nel primo mese del 1905 (in un solo mese!) gli scioperanti erano diventati 440.000. Il numero dei lavoratori che entrano in sciopero ha una funzione di “termometro”, che rivela lo stato d’animo delle masse.

Nel periodo in cui gli scioperanti calano vuol dire che c’è stata una sconfitta che ha generato sfiducia e rassegnazione. Uno degli elementi che ha contribuito all’esplosione della rivoluzione è stata la guerra contro il Giappone, iniziata nel 1904, e che nelle previsioni dello zar doveva essere facile e doveva essere un diversivo che avrebbe aiutato il governo a distrarre le masse dai problemi concreti. Quanto più il governo russo e lo stesso zar si erano vantati della facilità di una vittoria contro i “macachi gialli” (l’espressione razzista è di Nicola II), tanto più violenta è stata la reazione alla sconfitta; la Russia subisce una tremenda sconfitta sia dell’esercito di terra sia della flotta. I giapponesi avevano infatti navi più moderne, e si muovevano in un’area ben conosciuta. Avevano appreso rapidamente le tecniche militari più moderne. Inoltre la Russia, nonostante la transiberiana, aveva difficoltà a mandare tempestivamente rinforzi alle proprie guarnigioni in Estremo Oriente, che furono e si sentirono praticamente abbandonate. Ogni guerra – anche se non catastrofica come quella russo-giapponese – costringe comunque la popolazione a subire maggiori sacrifici, il che implica un grande malcontento. Le prime manifestazioni e scioperi del gennaio 1905 protestavano contro il caro-vita. Poi, dopo la “domenica di sangue”, assunsero un carattere più politico e rivolto contro lo zar che aveva fatto sparare sugli operai che ne imploravano l’aiuto. La lotta degli operai cominciò ad essere più sistematicamente organizzata dai bolscevichi, mentre entravano in scena i contadini. Spesso a innescarla era proprio la repressione nelle città: dopo i primi scioperi qualche padrone aveva licenziato gli operai più attivi e li aveva segnalati come agitatori agli altri capitalisti, per impedire che fossero assunti in un’altra fabbrica. Ma questi operai, che avevano in genere o il padre o almeno il nonno contadino nel villaggio di origine, vi tornavano per sfamarsi, e nel villaggio diventavano gli organizzatori della protesta contadina, col duplice vantaggio della coscienza politica acquisita in fabbrica e dell’essere accettati perché conosciuti. Negli anni del populismo russo erano gli studenti che andavano dai contadini per sensibilizzarli, ma poiché appartenevano alle classi alte, non potevano suscitare simpatia e fiducia piena, mentre l’operaio licenziato viene ascoltato di più, e rispetto ai contadini ha un livello culturale più elevato perché in fabbrica ha dovuto imparare a leggere. Le campagne russe vengono così sconvolte da grandi movimenti contadini che assalgono le dimore dei nobili e le incendiano: i contadini infatti non volevano che uno di loro prendesse il posto del nobile, volevano che non ci fossero più nobili (questo aspetto ha caratterizzato la rivoluzione russa come quella francese). Le idee rivoluzionarie penetrano anche nell’esercito; non tanto in quello di terra – che pure era stato duramente provato, ma era composto in prevalenza di contadini analfabeti, che era più difficile e lento coinvolgere e influenzare – quanto nella flotta, dato che in marina venivano reclutati operai di una certa qualificazione perché le navi moderne erano vere e proprie fabbriche naviganti.

Tra essi penetrano più facilmente i giornali bolscevichi o anarchici, e una parte di essi si uniscono alla rivoluzione, con la famosa rivolta della corazzata Potiomkin immortalata da un film di Eizenstejn. L’insieme di questi fattori porta alla crescita di un movimento che scuote l’impero zarista e costringe lo zar a fare delle concessioni, sia pure contraddittorie e ambigue. Ad esempio, egli annuncia che sarà eletta una Duma (parlamento), ma la legge elettorale è talmente truccata che nessuno si commuove per questa benevola concessione, e lo zar dovrà proporne un’altra un po’ più rappresentativa. Nel 1905 il ruolo delle “forze soggettive”, cioè dei rivoluzionari coscienti che lavoravano per estendere la rivoluzione e portarla a uno sbocco vittorioso, era modesto. Specialmente nei primi mesi, i rivoluzionari erano poche centinaia, che diventarono poi migliaia, e influenzarono centinaia di migliaia di lavoratori, ma non erano ben organizzati. Ad esempio, già tra Mosca e Pietroburgo c’era una sfasatura nei tempi della lotta: a Mosca nel dicembre del 1905 si tenta un’insurrezione con 8.000 operai armati che resistono per 9 giorni alle forze militari, ma alla fine viene sconfitta perché rimane isolata. Anche a Pietroburgo i soviet subiscono una sconfitta e i dirigenti del soviet della città, compreso il suo presidente Lev Trotskij, vengono arrestati e condannati alla deportazione. Nel corso del 1906 e 1907 il movimento arretra quasi ovunque, anche se si susseguono tentativi di “lotta partigiana”, che danno l’illusione che si possa conquistare il potere con le armi. In realtà sono scaramucce di retroguardia. Negli anni dal 1907 al 1912 si verifica un crescendo di sconfitte e cala drasticamente il numero degli scioperi. Solo dal 1912 comincia nuovamente a salire il numero degli scioperi, ma la maggior parte degli intellettuali socialdemocratici, compresi quelli che si erano avvicinati nel corso della lotta ai bolscevichi, non se ne accorgono neppure, perché considerano irreversibile la sconfitta e fanno autocritiche che “gettano il bambino con l’acqua sporca”. Le loro teorizzazioni sono a volte fantasiose, ma partono tutte dall’idea che la rivoluzione è impossibile.

I bolscevichi si riducono a un nucleo molto piccolo: Lenin scrive che in alcuni momenti quelli rimasti in contatto con il centro del partito in esilio erano poche centinaia. Ma la loro riflessione è proficua: se inizialmente erano stati diffidenti nei confronti dei soviet, per la difficoltà a “controllarli”, sotto l’impulso di Lenin si convincono che i soviet erano lo strumento decisivo per la rivoluzione. Anche una parte di quelli che hanno perso il contatto con il partito continuano a lavorare politicamente nelle fabbriche, conquistando ancor più prestigio tra gli operai, che apprezzano soprattutto la tenacia e la lunga durata dell’impegno, specie nelle fasi in cui le sconfitte subite hanno ridotto il numero di chi lotta. 1917: Lenin tra il febbraio e l’ottobre Scheda Perché Lenin viene rimosso dalla sinistra italiana Lenin continua ad essere calunniato dalla borghesia, ma anche non difeso da una sinistra di cui spesso si direbbe che non lo conosca affatto: a volte, ad esempio, gli si contrappone una Rosa Luxemburg banalizzata, sorvolando su quel che la grande rivoluzionaria aveva detto nello stesso famosissimo scritto sulla rivoluzione russa, che come L’estremismo malattia infantile del comunismo è citato per due o tre frasi o il titolo e non per i contenuti.

Altre volte, purtroppo, si arriva ad accettare più o meno consapevolmente la versione più diffusa dai mass media, che gli mette in conto tutti i crimini di Stalin. In occasione dell’ottantesimo anniversario della rivoluzione, sulla grande stampa borghese, della rivoluzione in quanto tale si è parlato pochissimo, mentre sono state rilanciate le più grottesche retrospettive sui “crimini del comunismo”. Il record della stupidità, dell’ignoranza e della malafede è stato raggiunto il 7 novembre da un lungo editoriale della “Stampa” firmato da Barbara Spinelli, in cui si spiegava saccentemente che Lenin aveva istituito “i Konclager, abbreviazione di koncentracionnyi lager, per piegare gli antirivoluzionari, i socialisti, gli anarchici, i religiosi, i combattenti della guerra di Spagna”… e via dicendo analoghe sciocchezze. Sulle ragioni di tanta ostilità degli organi della borghesia non possono esserci dubbi, ma anche la sostanziale indifferenza della stessa sinistra (a parte quei piccoli nuclei di nostalgici che vanno a celebrare l’anniversario sulla Piazza Rossa in compagnia dei residuati dello stalinismo e dei nazionalisti più o meno antisemiti, accomunati dal rimpianto per la perduta potenza russa) ha una spiegazione abbastanza semplice: Lenin è stato associato per anni al regime sovietico, il cui crollo ha lasciato profondamente disorientati tutti quelli che avevano ignorato per decenni le denunce e le previsioni della sua crisi, dall’Opposizione di sinistra e dal Trotskij del 1923 e soprattutto del 1936, fino al Guevara del 1962-1965, (non a caso censurato ancor oggi nella stessa Cuba). Quindi c’è prima di tutto una reticenza su tutta l’esperienza ieri glorificata o comunque accettata, poi rimossa, che si riverbera sul presunto responsabile di tutto. A proposito di rimozione, il fatto che nel PRC in sei anni di esistenza non si sia fatto nulla per aprire un dibattito sulla crisi dell’URSS, non si deve solo al desiderio di non offendere i piccoli nuclei di nostalgici, ma a una sostanziale indifferenza al problema. Alla maggior parte di quelli che “fanno politica” oggi nei DS o nello stesso PRC, i ricordi di eventuali letture giovanili di qualche scritto di Lenin (che probabilmente ci sono state anche in chi, come Bertinotti, rivendica un’altra matrice culturale) non evocano altra sensazione che qualche imbarazzo. Al massimo Lenin viene difeso dalle accuse più volgari, anche se lo si fa tiepidamente, come si fa, d’ufficio, per lo stesso Togliatti, di cui si respinge il linciaggio, ma che non viene rivendicato come padre fondatore e tantomeno fatto leggere (dato che anche per abbellire le scelte impostegli dalla collaborazione con la burocrazia sovietica usava un linguaggio “troppo marxista” che oggi imbarazza); Lenin comunque viene in genere esorcizzato ripetendo le banalità sulla “presa del Palazzo d’Inverno”, che facevano parte del patrimonio di DP non meno che dell’ultimo PCI. È la stessa sorte toccata al Gramsci politico rivoluzionario, di cui praticamente nessuno parla, perché il culto di Gramsci è affidato nel PRC (come nell’ultimo PCI) a una casta accademica di esteti, letterati e filosofi, che sono sinceramente innamorati dei Quaderni dal carcere, ma hanno letto ben poco altro o se hanno tentato di farlo, ne sono stati annoiati. Parlano tanto di egemonia, ma di fatto subiscono essi stessi l’egemonia dell’interpretazione di Giuseppe Vacca, l’ideologo dei DS di cui parecchi di loro in politica sono stati discepoli. Gramsci viene così stravolto assolutizzando le note inevitabilmente cifrate del carcere e ignorando o sottovalutando il rapporto con l’Ottobre e con Lenin. In realtà Lenin, come il Gramsci politico dell’Ordine Nuovo e delle Tesi di Lione, viene ignorato per fondate ragioni dalla “sinistra” di oggi, che ha ben poco a che vedere con l’uno e l’altro. Ma se il filtro ideologico e letterario impoverisce Gramsci, bene o male ne fa comunque un oggetto di venerazione, che quindi a qualcuno può venire in mente di conoscere direttamente, mentre Lenin è proprio escluso dall’orizzonte del militante comunista degli anni Novanta. La straordinaria grandezza di Lenin nel 1917 Quello che imbarazza quasi tutta la sinistra di oggi è la straordinaria capacità di Lenin di non fermarsi alla registrazione dei dati immediati, e di guardare lontano, capovolgendo in pochi mesi rapporti di forza assolutamente negativi per i bolscevichi. Tra il febbraio e l’ottobre i bolscevichi accrescono straordinariamente la loro forza numerica, e il loro radicamento, fino a conquistare la maggioranza nei soviet delle grandi città industriali e quindi nel Congresso panrusso dei soviet. Attribuirne il merito fondamentale a Lenin non è “culto della personalità”, ma il riconoscimento di un ruolo insostituibile, che è venuto in primo luogo da Trotskij, che pure avrebbe potuto attribuirsi a ragione di aver intuito fin dal 1905 la dinamica di trascrescenza della rivoluzione e la funzione dei soviet. Trotskij ha sottolineato più volte che l’elemento determinante per il successo della rivoluzione è stato il partito bolscevico forgiato negli anni del riflusso non solo con i veterani, ma anche con i quadri migliori emersi durante la rivoluzione del 1905. È vero che quel partito aveva continuato fino all’aprile del 1917 a ripetere i vecchi schemi sulla rivoluzione a tappe, che avrebbero implicato una più o meno lunga fase di collaborazione con la borghesia, ma al tempo stesso si era costruito uno straordinario radicamento nelle fabbriche più importanti, che sarebbe stato decisivo nella lotta per l’egemonia nei soviet. Proprio per questo Lenin appariva insostituibile a Trotskij: solo Lenin, per tutta la sua storia di presenza ininterrotta nel dibattito e nella costruzione del partito, anche negli anni in cui la repressione e il riflusso avevano spezzato quasi tutti i legami tra il centro esterno e la maggior parte del territorio russo, in cui sembravano essere rimasti organizzati e collegati solo pochissimi quadri. È questo lavoro che dà a Lenin l’autorità per battere gli orientamenti che si erano delineati in sua assenza nei primi mesi della rivoluzione e che avevano portato a un appoggio sostanziale al governo provvisorio interclassista di Kerenskij, che impediva al partito di diventare il catalizzatore delle inquietudini e del malcontento delle masse. Lenin si batte, prima con le Lettere da lontano, poi con le Tesi d’aprile per conquistare la maggioranza contro il conciliazionismo di Muranov, Kamenev e Stalin, che di fatto dirigevano il partito attraverso la redazione della Pravda. Trotskij era arrivato alle stesse conclusioni di Lenin, ma era facile per i “vecchi bolscevichi” respingerne le analisi, e perfino la domanda di entrare nel partito con il consistente gruppo che si era raccolto intorno alle sue posizioni: niente da fare, era un estraneo. Lenin arrivava a Pietrogrado con alle spalle venticinque anni di lavoro politico tenace, ma il suo successo era legato anche alla maturazione del suo pensiero politico. Tuttavia, senza quel lungo e paziente lavoro di costruzione, riconosciuto da tutto il partito (anche da chi in quel primo mese dopo la rivoluzione di febbraio aveva sbandato verso i menscevichi appoggiando il governo di alleanza interclassista), non avrebbe potuto mettere a frutto la riflessione in cui negli anni precedenti aveva accolto le tesi di Trotskij sul carattere socialista della rivoluzione russa. Aveva al tempo stesso affinato e rivisto le sue idee sul partito, già trasformatesi nel fuoco della rivoluzione del 1905 (ma doveva fare i conti con chi era rimasto attaccato alla lettera del Che fare?), mentre aveva superato completamente le diffidenze che i bolscevichi avevano avuto nel 1905 sui soviet, perché imprevedibili e incontrollabili dall’apparato di partito, pieni com’erano di nuove avanguardie espresse dalle fabbriche e non legate a nessuna organizzazione. Egli ne aveva colto invece ben presto la complessità e la ricchezza come strumento di organizzazione di tutta la classe. La sua riflessione sulla dinamica socialista della rivoluzione russa e sulle sue forze motrici era stata espressa lucidamente nel gennaio 1917 in una conferenza ai giovani operai nella casa del popolo di Zurigo, nell’anniversario della “domenica di sangue” del 1905. In quel Rapporto sulla rivoluzione del 1905, dopo aver ricordato limiti ed errori che avevano facilitato la controffensiva del potere, affermava:
Ma la rivoluzione russa rimane tuttavia, e proprio per il suo carattere proletario, il prologo dell’imminente rivoluzione europea. È indubbio che questa rivoluzione potrà essere soltanto proletaria, nel senso più profondo della parola, cioè proletaria, socialista anche per il suo contenuto. Questa rivoluzione dimostrerà in una misura ancora più grande, da un lato, che soltanto delle lotte accanite, cioè le guerre civili, potranno liberare l’umanità dal giogo del capitale e, dall’altro, che soltanto i proletari con una coscienza di classe evoluta potranno agire e agiranno come capi della stragrande maggioranza degli sfruttati. Il silenzio di tomba che regna oggi in Europa non deve trarci in inganno. L’Europa è gravida di rivoluzione. E poche righe dopo concludeva: Noi vecchi non vedremo forse la battaglie decisive dell’imminente rivoluzione. Penso però di poter esprimere la fondata speranza che i giovani, i quali militano così egregiamente nel movimento operaio della Svizzera e di tutto il mondo, avranno la fortuna non soltanto di realizzare la futura rivoluzione proletaria, ma anche di condurla alla vittoria. Una testimonianza straordinaria della lucidità strategica di Lenin, ma anche del fatto che a due mesi dall’esplodere della rivoluzione non poteva formulare previsioni precise sui tempi. Una clamorosa smentita di chi da destra riduce le rivoluzioni a complotto e colpo di Stato, ma anche di chi da sinistra per anni ha accettato la ricostruzione a posteriori fatta da Stalin (e immortalata cinematograficamente da Bondarciuk), che ha cancellato la dinamica oggettiva della rivoluzione e le caratteristiche di autorganizzazione espresse nei soviet, riconducendo tutto alle direttive di un partito demiurgo e monolitico (che in quella forma nel 1917 non c’era). Ma quella riflessione era troppo lontana da quel che continuava a pensare quel pezzo di partito che si stava ricostruendo, sotto la guida della redazione della Pravda, ricomparsa legalmente dopo il febbraio. Per questo Lenin non esitò a chiedere la mediazione dei socialisti svizzeri per ottenere la possibilità di rientrare subito in Russia col famoso “vagone piombato”. La mediazione di Grimm aveva definito un vago accordo di scambio tra i bolscevichi e i civili tedeschi internati in Russia, tutto da definire dopo il loro arrivo in Russia; non c’era dubbio comunque che l’assenso del governo imperiale era fondato sulla speranza che i bolscevichi avrebbero facilitato il compito alla Germania indebolendone l’avversario sul fronte orientale. Una speranza che risulterà illusoria, perché i bolscevichi avrebbero continuato a lavorare per la rivoluzione in tutta l’Europa, e comunque la loro vittoria avrebbe finito per avere ripercussioni sulle stesse sorti dell’impero germanico. Eppure allora fece gridare al tradimento, e tutti i partiti russi condannarono Lenin per quell’accordo (di cui comunque si avvalsero anche militanti di altre tendenze). Prima ancora di partire, e prima di scrivere le famose Lettere da lontano, straordinariamente lucide, ma non pubblicate allora (tranne la prima, con tagli pesanti e significativi) dalla redazione della Pravda, Lenin aveva inviato il 19 marzo (appena undici giorni dopo la “rivoluzione di febbraio”, la cui data di inizio nel calendario giuliano corrispondeva in quello gregoriano in vigore nel resto dell’Europa all’8 marzo) un secco telegramma ai bolscevichi esiliati in Svezia che stavano partendo per la Russia, con indicazioni inequivocabili: Nostra tattica: completa sfiducia, nessun appoggio nuovo governo, sospettiamo soprattutto Kerenski, armamento proletario unica garanzia, elezioni immediate Duma pietrogradese, nessun avvicinamento altri partiti. Telegrafate questo Pietrogrado. Ulianov. La decisione di partire ad ogni costo non poteva non essere alimentata dalla scoperta che non erano state pubblicate la seconda lettera (Il nuovo governo e il proletariato, che indicava come prospettiva un controllo esterno dei soviet sul governo provvisorio e la creazione di una milizia del popolo), la terza (Sulla milizia proletaria) e la quarta (Come ottenere la pace?). La quinta lettera, che doveva affrontare I compiti dell’organizzazione proletaria rivoluzionaria dello Stato, vista la sorte delle precedenti, rimase allo stadio di una bozza non terminata. D’altra parte anche i tagli apportati alla prima lettera parlavano chiaro: erano state censurate tutte le frasi polemiche contro Kerenski e soci, e soprattutto le indicazioni troppo nette contro la collaborazione interclassista. Lenin polemizzava apparentemente contro certi “menscevichi ondeggianti” che “impantanandosi troppo spesso nel pacifismo piccolo-borghese, sono pronti a esaltare l’accordo del partito operaio con i cadetti”, e che “in ossequio alla loro vecchia dottrina imparata a memoria (e tutt’altro che marxista)” sorvolavano sui legami organici del nuovo governo con gli imperialisti anglo-francesi. Parlava di “menscevichi” tra virgolette, ma era chiaro che sferzava la redazione della Pravda, che appunto …censurò questa frase e una buona dozzina di altre dello stesso genere. Una buona ragione dunque per sfidare il prevedibile coro di calunnie per l’attraversamento del territorio tedesco (“Lenin complice dell’imperatore”), e andare a gettare il proprio peso sul piatto della bilancia, per far riassumere al partito bolscevico un ruolo di alternativa radicale al sistema, anziché di ruota di scorta del governo interclassista. La “svolta di aprile” La “svolta di aprile” iniziò nel momento stesso in cui Lenin mise piede a Pietrogrado, il 3 aprile. Trascinato in una sala di rappresentanza della stazione di Finlandia, fu accolto da un importante leader menscevico, Nikolaj Cheidze, che a nome del Soviet gli tenne un discorsetto retorico, auspicando un impegno “per difendere la nostra rivoluzione da tutti gli attentati, sia dall’interno che dall’esterno”, il che voleva dire in parole povere proseguire la guerra. Subito dopo un giovane ufficiale di marina, animato dalle migliori intenzioni, ma che esprimeva tutta la confusione del momento, in un messaggio di saluto auspicò addirittura che Lenin entrasse subito nel governo provvisorio! Lenin ignorò i suoi interlocutori, e si rivolse direttamente alla folla: Cari compagni, soldati, marinai e operai, sono felice di salutare in voi la rivoluzione russa vittoriosa, di salutarvi come avanguardia dell’esercito rivoluzionario mondiale… Non è lontana l’ora in cui, all’appello del compagno Karl Liebknecht, i popoli rivolgeranno le armi contro i capitalisti sfruttatori. La rivoluzione russa da voi compiuta ha inaugurato una nuova epoca. Viva la rivoluzione socialista mondiale! Subito dopo Lenin dovette salire su un’autoblinda guidata da soldati bolscevichi, che lo accompagnarono a una riunione in corso dei quadri bolscevichi di Pietrogrado, obbligandolo però a fermarsi più volte lungo la strada per ripetere il suo breve discorso alle folle che lo attendevano lungo il percorso. Nei primi colloqui con i compagni che lo avevano accolto aveva già espresso aspramente la sua disapprovazione per gli articoli della Pravda. Ma quando arrivò nella sala dove era in corso la riunione, sconvolse l’uditorio esprimendo in due ore quel che aveva anticipato sommariamente nei primi messaggi. Nel clima del mese precedente, in cui Stalin e Kamenev avevano fatto votare alla conferenza bolscevica l’appoggio più o meno critico al governo provvisorio, ma anche una mozione per la riunificazione con i menscevichi, poteva accadere che a una riunione del genere fosse presente “per caso” un socialdemocratico senza partito, Sukhanov, a cui dobbiamo una descrizione vivissima del primo incontro di Lenin col suo partito: Non dimenticherò mai quel discorso tonante che scosse e sorprese non soltanto me, eretico sopraggiunto per caso, ma anche tutti gli ortodossi. Affermo che nessuno si aspettava niente di simile. Sembrava che tutti gli elementi fossero usciti dai loro rifugi e che lo spirito di distruzione universale, che non conosceva né limiti, né dubbi, né difficoltà umane, né calcoli umani, si librasse nella sala della Ksesinskaja sopra le teste dei discepoli stregati. Evidente tanto l’ostilità preconcetta, quanto l’ammirazione per una simile forza della natura. Sukhanov rimase stupito anche da una battuta di Lenin rivelatrice della sua sfiducia nel governo provvisorio: “all’arrivo pensavo che ci avrebbero subito portato in carcere alla fortezza Pietro e Paolo…”. Poteva sembrare uno scherzo, e comunque scandalizzò i sostenitori del governo provvisorio, ma in realtà era la comprensione dell’inevitabile comportamento di un governo imperialista nei confronti dei rivoluzionari. E difatti, in luglio, tutti i principali dirigenti bolscevichi finirono in carcere, tranne Lenin, che fu però costretto a rifugiarsi nella vicina Finlandia. Subito dopo avere scosso l’assemblea bolscevica, che si sciolse per quel giorno senza un dibattito (ma ci sarebbe stato poi per molti giorni), Lenin scrisse quel breve riassunto delle sue idee, passato alla storia col nome di Tesi d’aprile, che fu pubblicato il giorno successivo, 4 aprile, a suo nome, e solo a suo nome. Nessuna organizzazione, nessun singolo dirigente vi appose la sua firma. Quel giorno stesso Lenin interveniva nella conferenza di partito, che era in corso da vari giorni e che si stava ormai concludendo, riaprendone il dibattito con un discorso sferzante, che attaccava direttamente la “tendenza unificatrice” con i menscevichi, rappresentata proprio da Stalin e Kamenev: “unirsi con i fautori della difesa nazionale significa tradire il socialismo. Penso che è meglio restar soli come Liebknecht, solo contro centodieci!” Ma la conferenza si era già espressa nei giorni precedenti per la riunificazione, sicché Lenin fu portato a un’assemblea congiunta di bolscevichi e menscevichi, dove espose le sue tesi con decisione, e fu giudicato un pazzo e un anarchico. “Il suo programma – ammise più tardi il socialrivoluzionario Zenzinov – non provocava indignazione ma era piuttosto oggetto di scherzi, tanto sembrava a tutti stupido e chimerico”. Perfino Kerenski dichiarò in seno al governo che voleva far visita a Lenin, per farlo ragionare dato che “vive in un’atmosfera di completo isolamento, vede tutto attraverso le lenti del suo fanatismo, non ha vicino a sé una sola persona che lo aiuti un po’ ad orientarsi su ciò che accade”. Quanto all’isolamento, riferito a quel che oggi chiamiamo “ceto politico”, Kerenski aveva ragione. Perfino la redazione della Pravda l’8 aprile, quattro giorni dopo la pubblicazione delle Tesi, scriveva che “lo schema generale del compagno Lenin ci sembra inaccettabile, nella misura in cui presenta come portata a termine la rivoluzione democratico-borghese e mira a una immediata trasformazione di questa rivoluzione in rivoluzione socialista”. Il gruppo dirigente bolscevico, insomma, scopriva con orrore che Lenin era diventato “trotskista” e se ne dissociava in nome del vecchio e fallimentare schema della rivoluzione a tappe. Ma il corpo del partito, e migliaia di nuovi quadri ancora non organizzati che stavano emergendo nei soviet, si riconobbero rapidamente nelle tesi di Lenin. Nel corso di una discussione appassionata durata una ventina di giorni, e che si concluse in una nuova conferenza bolscevica tenuta a Pietrogrado dal 24 al 29 aprile, Lenin riusciva a convincere anche la maggioranza dei dirigenti su tutto, tranne che sul cambio del nome del partito da socialdemocratico a comunista, e sulla partecipazione a una nuova sessione prevista per la conferenza internazionale di Zimmerwald, che Lenin escludeva, e il partito votò invece quasi all’unanimità. La questione fu risolta dalla crisi dei centristi e dei pacifisti che avevano costituito la maggioranza di Zimmerwald, che non riuscirono ad accordarsi e fecero saltare la riunione. In quella nuova conferenza il partito, entrato nella rivoluzione di febbraio con 24.000 militanti, non sempre collegati e orientati, registrava già una crescita significativa: i 149 delegati rappresentavano 79.000 iscritti. Sotto l’influenza di Lenin i bolscevichi non si limitarono ad aprire le porte ai lavoratori “senza partito”, ma accolsero nelle loro file e nello stesso nucleo dirigente il gruppo dei Mezrayonkij, i cui i principali esponenti erano Trotskij (che arrivò a Pietrogrado solo a metà maggio perché trattenuto dalle autorità britanniche sulla via del ritorno) e Lunaciarskij, ma che raccoglieva molti altri quadri prestigiosi che avevano diffidato della rigidità organizzativa dei bolscevichi e al tempo stesso erano decisamente più a sinistra di essi nella valutazione dei compiti della rivoluzione e nel conseguente rifiuto di appoggiare il governo provvisorio. Senza l’arrivo di Lenin l’inserimento di questi preziosi compagni sarebbe stato impensabile: al contrario, si pensava alla fusione con i menscevichi che partecipavano a un governo borghese e antioperaio! Già in aprile a Pietrogrado si verificano i primi scontri tra le forze della conservazione e i rivoluzionari. Lenin deve richiamare severamente i compagni tentati dal bruciare le tappe, lanciando prematuramente la parola d’ordine insurrezionale “Abbasso il governo provvisorio”, in un contesto in cui le masse non erano in grado di comprenderla. “In mancanza di una solida maggioranza popolare (cioè cosciente e organizzata) in favore del proletariato rivoluzionario, questa parola d’ordine o è un’espressione vuota, o può portare a tentativi avventuristici”. Una parola d’ordine slegata dal contesto politico è per Lenin “una colpa molto grave, un elemento di disorganizzazione”.

Bisogna conquistare gli strati intermedi non ancora politicizzati, “spiegare pazientemente”, per preparare il successivo, più profondo, più consapevole, movimento delle masse verso i bolscevichi. La crisi di luglio Un atteggiamento simile si manifesterà ancor più chiaramente nella crisi di luglio, quando non qualche piccolo gruppo marginale, ma interi settori del proletariato di Pietrogrado “scavalcarono a sinistra” i bolscevichi lanciandosi in un’iniziativa insurrezionale prematura perché circoscritta alla capitale. Uno straordinario libro di uno studioso nordamericano di origine russa, Alexander Rabinowitch, I bolscevichi al potere. La rivoluzione del 1917 a Pietroburgo (Feltrinelli, Milano, 1978) ha ricostruito in oltre 400 pagine il periodo tra il luglio e l’ottobre. Quello che colpisce di più è che i dirigenti bolscevichi, pur avendo tentato di evitare una pericolosa fuga in avanti da parte di settori del loro stesso partito, si sono guardati bene dal dissociarsi, ma sono rimasti all’interno del movimento che pure in parte non condividevano, pagandone il prezzo in termini di arresti e di un momentaneo sbandamento di altre aree del partito, praticamente messo fuori legge per alcuni mesi. Un dato sconvolgente per chi ha visto il comportamento di molti dirigenti del PCI (non solo nell’ultimo periodo) pronti a bollare come provocatori indicandoli alla repressione i compagni “estremisti” o presunti tali. Ma è questo atteggiamento che spiega la pagina de L’estremismo in cui Lenin afferma che in Russia l’estremismo non è mai diventato un fenomeno importante e pericoloso, perché il partito ha saputo coglierne le ragioni profonde, interpretarle, indirizzarle verso azioni più proficue, ovviamente senza rinunciare alla critica, ma senza mai abbandonare il movimento sospingendolo verso un’irrazionale disperazione. Per capire quella crisi, bisogna ricordare che a Pietrogrado nel febbraio non c’erano più di 2.000 bolscevichi, che nella conferenza di fine aprile erano già diventati 6.000, e alla fine di giugno erano 32.000, con diverse altre migliaia di sostenitori organizzati in forma più elastica nell’esercito. Ovviamente, la maggior parte di loro “sapevano poco o nulla di marxismo, e avevano in comune quasi soltanto un’inestinguibile sete di azione rivoluzionaria”. Se il partito a luglio avesse rotto con essi non sarebbe stato più possibile “tentare l’impossibile”, non ci sarebbe stato l’Ottobre. Dopo il ritorno di Lenin la crescita dell’influenza del partito è stata rapida, ma non costante. Soprattutto non si è avuta in modo uguale nei diversi settori della società. I bolscevichi aumentavano incessantemente il loro peso nella fabbriche, anche per l’adesione al loro partito di menscevichi, anarchici, operai non iscritti a nessun partito; nelle guarnigioni le loro idee si facevano strada, anche tra i soldati che cominciavano il loro discorso condannando Lenin come agente della Germania e i bolscevichi nemici dell’unità, ma lo proseguivano affermando che la pace doveva essere immediata e senza annessioni, e che la terra doveva essere distribuita immediatamente (i soldati erano quasi tutti di origine contadina, dato che gli operai servivano in fabbrica o erano casomai arruolati nella marina, che richiedeva elementi con una certa preparazione tecnica), e soprattutto mentre con le parole condannavano i bolscevichi, “votavano per loro con i piedi” abbandonando le trincee per recarsi nei villaggi per partecipare alla divisione delle terre. Le parole d’ordine elementari: pace, terra, controllo operaio, potere ai soviet (quest’ultima avanzata in determinati momenti, e ritirata quando appariva inverosimile, ad esempio dopo la sconfitta del movimento seminsurrezionale di luglio e la conseguente repressione) erano alla base del successo crescente dei bolscevichi. Il controllo operaio non era oggetto di dotte dissertazioni o di ben congegnati progetti di legge, ma veniva messo in pratica nella maggior parte delle fabbriche. La stessa giornata di 8 ore non venne richiesta al padronato e meno che mai al governo provvisorio, ma venne imposta dal basso: gli operai rivoluzionari al termine delle 8 ore suonavano la sirena per dare il segnale di uscire e tutti uscivano. In pochi giorni i padroni che avevano necessità di produrre dovettero fare buon viso a cattivo gioco e assumere operai sufficienti per istituire un terzo turno (si lavorava allora in due turni di dodici ore!). Un’esperienza esaltante, che dava agli operai la misura della loro forza, e fondamentale per la rivoluzione, perché permetteva a una massa di operai fino a quel momento abbrutiti dal lavoro di avere tempo per impegnarsi politicamente, per partecipare ad assemblee, ecc. Singolare contraddizione, i menscevichi si opponevano alla rivendicazione delle 8 ore “in quel momento” perché prematura, o perché, dicevano, “era una parola d’ordine utopistica che era già stata all’origine della sconfitta del 1905…”. Gli industriali invece si piegarono presto, perché speravano con quella concessione di fermare il movimento, ripromettendosi di recuperare quel che avevano dovuto concedere appena ripreso in pieno il potere politico intaccato dal “dualismo di potere”. Non ci riuscirono solo perché, riarmati politicamente da Lenin, i bolscevichi capirono che una situazione di dualismo di potere non può protrarsi indefinitamente, e decisero nell’ottobre di risolverla prendendo loro l’iniziativa prima che ci fosse un altro tentativo reazionario come quello del generale Kornilov in settembre. Tuttavia le elezioni delle Dume municipali in giugno rivelavano una contraddizione profonda tra la crescita del radicamento operaio dei bolscevichi e i risultati elettorali: Mentre i bolscevichi si impadronivano irresistibilmente delle fabbriche e dei reggimenti, le elezioni alle Dume democratiche davano una prevalenza schiacciante e in apparenza crescente ai conciliatori.[…] È vero che la Duma del quartiere di Vyborg, puramente proletario, ebbe una maggioranza bolscevica. Ma si trattava di un’eccezione. In giugno, alle elezioni di Mosca i socialrivoluzionari raccolsero più del 60% dei voti. Furono anch’essi stupefatti di questa cifra: non potevano non avvertire che la loro influenza stava rapidamente declinando. Troskij spiega magistralmente la contraddizione, sia con considerazioni generali (“le masse non sono omogenee e del resto imparano ad attizzare il fuoco della rivoluzione solo bruciandosi le dita e tirandosi indietro”), sia con un’analisi specifica dei movimenti delle masse che si rivelavano nel voto: Gli strati avanzati degli operai e dei soldati si affrettavano già a liberarsi dalle illusioni conciliatrici. Nel frattempo, i più larghi strati di popolino delle città cominciavano appena a muoversi. Per queste masse disperse le elezioni democratiche costituivano forse una prima possibilità e comunque una delle rare occasioni per pronunciarsi politicamente. Mentre l’operaio, ieri ancora menscevico o socialrivoluzionario, votava per il partito dei bolscevichi trascinandosi dietro il soldato, il cocchiere, il facchino, il portiere, la venditrice di mercato, il bottegaio e il suo commesso, il maestro, nascevano alla vita politica con un atto eroico come dare il voto ai socialrivoluzionari. Quel risultato, commentava Trotskij, era “l’ultimo bagliore di una fiaccola che si spegneva”. Anche gli altri organi della democrazia, “appena costituiti, per il loro ritardo, erano già ridotti all’impotenza. Ciò significava che la marcia della rivoluzione dipendeva dagli operai e dai soldati, e non dalla polvere umana sollevata e fatta turbinare dalle raffiche della rivoluzione”. Il “fronte unico” contro Kornilov L’occasione decisiva per il passaggio dei bolscevichi dalla galera al potere fu il tentativo di colpo di Stato militare di Kornilov. Nominato capo di stato maggiore da Kerenski (come 65 anni dopo Pinochet fu nominato da Allende, dato che i riformisti non imparano mai le lezioni della storia) Kornilov era ostile in blocco a tutte le tendenze socialiste, comprese le più moderate, e voleva solo via libera per l’unica cosa che gli sembrava utile: ancellare ogni ruolo dei soviet nell’esercito, ristabilire la pena di morte, cancellare ogni traccia della rivoluzione di febbraio cacciando lo stesso governo provvisorio. I bolscevichi detestavano Kerenskij e più volte avevano lanciato la parola d’ordine “via i ministri borghesi dal governo”, che aveva la funzione di essere comprensibile alla base dei partiti operai spingendoli a rompere la collaborazione di classe. Ma di fronte a Kornilov, Lenin dalla Finlandia, Trotskij e gli altri dalle prigioni “repubblicane”, decisero di concentrare il fuoco sul generale golpista, sostenendo momentaneamente lo stesso governo Kerenski (ma “come una corda sostiene un impiccato”…). Così non solo non fu indebolito il fronte contro Kornilov, ma i bolscevichi conquistarono uno spazio senza precedenti e imposero la scarcerazione dei loro dirigenti, per rafforzare le mobilitazioni. Il treno blindato di Kornilov si avvicinava sempre più lentamente a Pietrgrado, bloccato da folle di operai e contadini che dialogavano con i soldati inducendoli a disertare, sabotato dai ferrovieri che guastavano le macchine e smontavano le rotaie lungo il percorso. Quando il grosso dei soldati e dei sottufficiali aveva disertato, anche molti ufficiali cominciarono a dileguarsi approfittando di ogni sosta.

La cattura di Kornilov fu facile e incruenta. Purtroppo la rivoluzione fu troppo generosa, e il generale fellone poté fare ancora molte vittime durante la guerra civile. La tattica dei bolscevichi durante quella crisi fu frutto di una geniale intuizione di Lenin, che l’avrebbe poi sistematizzata per l’Internazionale comunista nelle Tesi sul fronte unico proletario (peraltro non molto comprese allora dalla maggior parte dei partiti comunisti, compreso quello d’Italia, che continuò in una pratica settaria negli anni decisivi dell’ascesa del fascismo). Fu quella battaglia in ogni caso a modificare radicalmente i rapporti di forza all’interno della classe, scalzando la base dei partiti riformisti che avevano creduto di difendersi dai pericoli di destra nominando un generale di estrema destra alla testa dell’esercito. Nelle settimane successive, grazie alla pratica della revocabilità degli eletti nei soviet, i bolscevichi divennero maggioranza in tutti i settori decisivi del paese, e poterono passare alla concreta preparazione dell’insurrezione che doveva risolvere il dualismo di potere a favore del proletariato. Dispensa 2 Dal successo dell’Ottobre alle prime difficoltà La vittoria della rivoluzione d’Ottobre (che per le ragioni già ricordate avvenne il 7 novembre 1917) fu facile e quasi incruenta, per la sproporzione tra le esigue forze che sostenevano ancora il governo Kerenski e quelle che si erano unite ai bolscevichi sulla base del loro programma semplice e concretissimo: pace subito senza condizioni, la terra a chi la lavora, controllo operaio. Anche nei mesi immediatamente successivi la resistenza al nuovo potere fu insignificante, perché i nostalgici del vecchio regime erano disorientati. Anche lo scioglimento dell’Assemblea costituente non ebbe nessuna ripercussione nel paese. L’Assemblea costituente era stata richiesta anche dai bolscevichi (che avevano più volte denunciato le esitazioni del governo provvisorio, all’interno del quale c’erano forze che non volevano sancire definitivamente la fine della monarchia), ma era stata eletta con un meccanismo elettorale e in un contesto che l’aveva resa un riflesso del passato: ad esempio, al suo interno la componente bolscevica era assai più ridotta del suo peso reale (conquistato negli ultimi mesi nella vita politica tumultuosa e appassionata dei soviet, ma non direttamente percepibile dalle “periferie” geografiche e sociali dell’impero), e quella menscevica era ridotta ai minimi termini. La forza di gran lunga maggioritaria era rappresentata dalla confusa coalizione socialrivoluzionaria, le cui liste erano però state presentate dall’apparato borghese prima della scissione che aveva portato la tendenza di sinistra a unirsi ai bolscevichi, sicché la maggior parte degli eletti erano notabili ex populisti diventati moderati o conservatori, ma che beneficiavano di una rendita politica per il loro passato). Lo scioglimento dell’Assemblea fu realizzato da un plotone di “guardie rosse” composto di marinai anarchici e bolscevichi, che dopo tre giorni di discorsi misero alla porta i deputati annunciando: “la guardia è stanca”. Lenin e Trotskij osservarono che quel gesto era la logica conseguenza della sfasatura tra la rivoluzione e quella rappresentanza, che rifletteva un passato ormai superato; ma Rosa Luxemburg osservò lucidamente che probabilmente era così, e quindi lo scioglimento era logico, ma che il Consiglio dei commissari del popolo che incarnava il nuovo potere sovietico avrebbe dovuto indire nuove elezioni, perché era pur sempre necessario “sentire il polso” dell’intera popolazione, e non solo di quella lavoratrice organizzata e rappresentata nei soviet. Lo scioglimento dell’Assemblea passò comunque allora quasi senza reazioni, perché le forze del passato, largamente rappresentate nell’assemblea, contavano poco nel paese e soprattutto nella capitale. I problemi principali vennero tuttavia da fattori internazionali e dal deteriorarsi del rapporto con i contadini nel corso del primo inverno. La rivoluzione in Europa tardava, anche se se ne scorgevano preannunci potenti – ad esempio negli scioperi tedeschi e austriaci contro la guerra e il carovita del gennaio 1918 – a cui tuttavia mancava un fattore decisivo: l’emergere di nuove direzioni coerentemente rivoluzionarie. Le grandi potenzialità oggettive venivano quindi deviate in un binario morto dalla cinica collaborazione tra il potere imperiale e le vecchie direzioni socialdemocratiche e sindacali che, naturalmente, per fermare gli scioperi, raddoppiavano le proclamazioni verbalmente rivoluzionarie e pacifiste. Quell’ondata rivoluzionaria di scioperi si era sviluppata durante la prima fase delle difficili trattative condotte a Brest Litovsk tra il potere sovietico e i rappresentanti tedeschi e austroungarici a partire dal gennaio 1918. Trotskij, che guidava la delegazione sovietica ed era giunto con un seguito di soldati, operai e contadini rivoluzionari, affiancando alle discussioni con generali e diplomatici una forte azione propagandistica verso i soldati della controparte, aveva sperato che l’eroica lotta in corso a Berlino, Vienna, e in molte altre città dei due imperi, tra cui Trieste, permettesse di concludere una pace dignitosa. Ma i generali e i ministri tedeschi e austroungarici sapevano bene che i dirigenti della socialdemocrazia dei due paesi stava collaborando attivamente per fermare il movimento rivoluzionario. Un grande storico e militante galiziano, Roman Rosdolski, ha trovato cinquant’anni dopo negli ordinatissimi archivi viennesi le tracce del crimine: i telegrammi tra il capo delegazione austriaco, il conte Czernin e la corte; Czernin chiedeva spiegazione degli infuocati editoriali a favore della pace dell’organo socialdemocratico Arbeiter Zeitung, e veniva tranquillizzato assicurando che la situazione era sotto controllo, e che gli articoli erano stati concordati tra il deputato Seitz e il capo del governo. Lo scopo era di “avanzare rivendicazioni che se accolte (anche parzialmente) avrebbero fatto sì che i lavoratori bloccassero lo sciopero”. L’unica parola per definire questo atteggiamento è quella di tradimento. Può sembrare eccessiva, ma è difficile trovarne un’altra per definire un comportamento che ha contribuito a prolungare di dieci terribili mesi la guerra, facendo morire ancora molti milioni di proletari in divisa. In ogni caso, per questo ed altri atteggiamenti analoghi delle direzioni socialiste europee, la Russia rivoluzionaria rimase isolata. Qualche socialdemocratico tedesco osò perfino rimproverare ai bolscevichi l’accettazione delle terribili condizioni imposte dall’esercito tedesco, che durante le trattative aveva continuato ad avanzare, restringendo il territorio della Russia sovietica a quello che qualche secolo prima era il piccolo granducato di Moscovia. Contemporaneamente – nonostante fossero ancora in guerra con la Germania – anche la Gran Bretagna occupava il porto di Arcangelo al nord e quello di Baku nel Caucaso, mentre truppe giapponesi (in quella guerra alleate dell’Intesa) occupavano parte della Siberia orientale, con il consenso e l’appoggio materiale degli Stati Uniti, che a loro volta sbarcavano a Vladivostok. L’Intesa arma e scaglia contro il nuovo potere anche gli ex prigionieri di guerra cecoslovacchi, che appoggiano un governo provvisorio “bianco” formatosi in Siberia. Consiglieri militari di molti altri paesi, tra cui l’Italia, aiutano l’organizzazione delle armate controrivoluzionarie. L’invio di forti contingenti militari era stato tuttavia scoraggiato dall’insurrezione della flotta francese inviata nel Mar Nero, che aveva aderito alla rivoluzione (la rivoluzione è contagiosa…).

Quale era stato il terribile “crimine” della rivoluzione che spingeva questa “Santa Alleanza” di paesi ancora in guerra tra loro a coalizzarsi di fatto pur di sradicarla? Era il “cattivo esempio” rappresentato dalla assoluta coerenza tra i programmi e l’azione, dalla scelta di uscire comunque dalla guerra, di interpretare le ansie di soldati, contadini e operai, indipendentemente da quel che pensavano gli esponenti dei vecchi partiti opportunisti che si erano adattati alle esigenze della borghesia. Scandalizzava l’appello, condiviso da milioni di uomini in tutto il mondo, a concludere una pace senza annessioni, a estendere le ambigue parole dei “Quattordici punti” del presidente statunitense Wilson sull’autodecisione anche a tutti i popoli delle colonie e delle “semicolonie” (in quel momento l’immensa maggioranza del genere umano). Era lo “scandalo” della risposta internazionalista allo sciovinismo che scagliava l’uno contro l’altro i proletari, una risposta che consisteva nel cancellare ogni differenza tra russo e “straniero”: qualsiasi lavoratore, di qualsiasi paese, giunto nel paese dei soviet acquisiva immediatamente tutti i diritti, dal voto all’eleggibilità a qualsiasi incarico (ad esempio Gramsci, quando giunse a Mosca per collaborare con l’Internazionale comunista, fu nominato giudice in un delicato processo). La coerenza della rivoluzione, se le assicurò l’odio implacabile degli sfruttatori e dei militaristi di tutto il mondo, ebbe un’eco straordinaria tra gli oppressi, in particolare nel mondo coloniale. E non erano solo belle parole: il nuovo governo abolì unilateralmente tutti i trattati iniqui con la Cina, compresi quelli sulla Ferrovia orientale cinese (diramazione della transiberiana sottratta alla sovranità di Pechino) e quello sul diritto all’extraterritorialità dei cittadini russi. In quel grande paese i bolscevichi vennero chiamati gli huang-i-tang, cioè il partito del massimo umanesimo, e il massimo leader nazionalista Sun Yat-sen inviò un appassionato messaggio di solidarietà alla rivoluzione assediata. Nell’Iran, costantemente conteso tra l’impero russo e quello britannico, il movimento nazionalista si orientò verso il socialismo dopo che Trotskij ebbe richiamato truppe e istruttori dal paese. Nella Conferenza dei popoli dell’Oriente tenuta a Baku nel 1920 si poté misurare l’ampiezza dell’influenza della rivoluzione russa in India, nell’Indocina, ecc. Ma l’accerchiamento delle potenze imperialiste, una vera “guerra civile internazionale”, incoraggiò la riorganizzazione degli esponenti del vecchio regime, che cercarono di approfittare di una incrinatura dei rapporti tra i soviet cittadini e le campagne. Lo stesso Lenin scrisse di aver sentito dire a un vecchio contadino che “i bolscevichi erano buoni, ma i comunisti erano cattivi”. Il partito bolscevico aveva cambiato il suo nome in quello di partito comunista nel marzo 1918, ma gli iscritti erano più o meno gli stessi. Cos’era successo? Semplicemente che i contadini avevano apprezzato molto dei bolscevichi la tenace battaglia per la pace e soprattutto il decreto sulla terra, ma erano poi entrati in conflitto col potere sovietico, in cui dal marzo 1918 i comunisti erano rimasti soli a governare, non per loro scelta, ma per il ritiro dei socialrivoluzionari di sinistra in polemica col trattato di Brest Litovsk, che appariva loro una vergognosa capitolazione di fronte all’imperialismo tedesco, rafforzando tutti i sospetti alimentati dalle calunnie seguite al famoso viaggio di Lenin dell’aprile 1917 attraverso la Germania. Il rapporto città-campagna Il conflitto tra i contadini e i soviet non era ideologico, ma concretissimo (ed era anzi un conflitto di interessi tra città e campagna). I contadini avevano coltivato la terra conquistata nel corso della rivoluzione prima di tutto per soddisfare i propri bisogni. Gli appezzamenti ottenuti erano quasi sempre troppo piccoli per assicurare un surplus sufficiente a rendere conveniente un viaggio per collocare le eccedenze in zone lontane dove rendevano di più (ad esempio in una zona cerealicola ovviamente il grano vale poco, perché tutti ne hanno), e in ogni caso il caos dei trasporti, dovuto agli effetti prolungati della guerra, e a quelli incipienti della guerra civile, rendeva meno interessante uno sforzo per aumentare la produzione oltre il fabbisogno familiare. La conseguenza fu che le città furono affamate come mai durante la guerra. I soviet di fabbrica organizzarono spedizioni nelle campagne per procurarsi cibo, con le buone o le cattive maniere. I contadini venivano pagati con i nuovi rubli stampati dal potere sovietico, di cui tuttavia diffidavano a causa dell’inflazione galoppante (non era una situazione solo russa ma di tutta l’Europa del primo dopoguerra, con il famoso caso limite della Germana). Per i contadini non erano che pezzi di carta, sicché preferivano i vecchi rubli zaristi (e lo Stato sovietico fu costretto per questo a stamparne un certo quantitativo, che naturalmente si svalutavano non meno degli altri). Il problema vero è che vecchi o nuovi rubli non avevano una quantitativo equivalente di prodotti industriali da acquistare, per il crollo della produzione dovuta al blocco dei porti da parte delle potenze antisovietiche, alla mancanza di carburante, di pezzi di ricambio, alla difficoltà di far giungere sul luogo di produzione le materie prime per il caos dei trasporti. La produzione scese al 13% di quella del 1913, e quelle poche fabbriche che funzionavano erano per giunta destinate a sostenere lo sforzo militare imposto dall’aggressione e dalla guerra civile che divampava. Non era facile distinguere le responsabilità esterne e le cause profonde di questa situazione: per molti contadini è più semplice dire “i comunisti sono cattivi, i bolscevichi erano buoni”. Se non si uniscono stabilmente ai “bianchi” è solo perché il loro programma puntava apertamente a cancellare la riforma agraria; ma molti contadini tenteranno di combattere gli uni e gli altri formando le famose bande “verdi” poi mitizzate dagli anarchici. Scheda Lenin e i contadini Tra le varie calunnie che sono state rimesse in circolazione nella grande operazione anticomunista del cosiddetto Libro nero del comunismo, curato da Sthephane Courtois e rilanciato in Italia da Mondadori (con la grande sponsorizzazione di Berlusconi) c’è il mito di un Lenin spietato e pronto a sterminare i contadini perché refrattari al comunismo. In realtà nelle Opere di Lenin, che raccolgono anche i più piccoli appunti presi durante il convulso periodo della guerra civile, si trovano molti scritti che provano il contrario (e non si dimentichi che non erano destinati alla pubblicazione). La stessa frase sui bolscevichi buoni e i comunisti cattivi era stata detta per stimolare alla riflessione sulle cause di una crisi di relazioni che poteva essere tragica per la rivoluzione. Sono interessanti ad esempio le lettere con cui Lenin sottopone all’attenzione dei collaboratori la figura di un contadino che ha avuto modo di incontrare, Ivan Afanasievic Cekunov, che “simpatizza con i comunisti, ma non entra nel partito perché va in chiesa, è cristiano”. Quello che conta è che “migliora l’azienda” e nel suo distretto “con l’aiuto degli operai, è riuscito a ottenere la sostituzione di un cattivo potere sovietico con uno buono”. Soprattutto dice la verità: “i contadini hanno perso la fiducia nel potere sovietico”.
Lenin ne propone la fucilazione? Niente affatto, ed anzi conclude che “è a gente simile che dobbiamo aggrapparci con tutte le forze per ristabilire la fiducia delle masse contadine”. Lenin fa molte proposte di inserimento di Cekunov in apposite strutture del potere sovietico, e raccomanda che in ciascuna zona sarebbe meglio trovarne tre, con le stesse caratteristiche: “vecchi”, e soprattutto “senza partito e cristiani”. ( Lenin, Opere, v. 45, Editori Riuniti, Roma, 1970, pp.59-60). Al tempo stesso, Lenin si occupava di molte piccole cose concrete, come il ridimensionamento del costosissimo Bolscioi per finanziare le campagne di alfabetizzazione e le sale di lettura (ma le sue proposte vennero respinte!); gli aumenti incontrollati di personale senza copertura; gli sbarramenti eccessivi per i visitatori del Cremlino; la scelta degli accessori per la fabbricazione degli stivali; ecc.. Insomma era un uomo assai lontano dal fanatico settario descritto da chi vuole impedirci di riflettere su quella straordinaria esperienza. Abbiamo già accennato al fatto che i rapporti tra i bolscevichi e i contadini si erano deteriorati anche per la scelta dei socialisti rivoluzionari di sinistra (abbreviati SR) di lasciare il Consiglio dei Commissari del Popolo per protesta contro gli accordi di Brest Litovsk. Molti SR di sinistra erano infatti provenienti dalla parte più radicale del movimento populista, e avevano per questo più legami col movimento contadino. Inoltre, dato che erano convinti che la pace fosse un deliberato tradimento di un Lenin al soldo dell’imperatore di Germania, non esitarono a tornare alle vecchie abitudini, ricorrendo al terrorismo. Un attentato ferì gravemente lo stesso Lenin, altri bolscevichi furono uccisi, ma l’atto più grave fu l’assassinio dell’ambasciatore tedesco, il conte Wilhelm von Mirbach, che voleva provocare un intervento militare germanico, nell’illusione di scatenare come reazione la “guerra rivoluzionaria”, come era avvenuto durante la rivoluzione francese. Inutile dire che dopo gli attentati diversi SR finirono in galera, e alcuni vennero fucilati. I professionisti dell’anticomunismo vi scorgono la realizzazione di un perfido disegno “leninista”; ma quale governo al mondo ha mai tollerato che si spari impunemente ai suoi massimi esponenti? Altri SR di sinistra, viceversa, si unirono ai comunisti e, tra questi,i lo stesso uccisore di von Mirbach, Jakov Bljumkin. Abbiamo accennato al fatto che la guerra civile frantuma il paese e paralizza le fabbriche, per sottolineare la difficoltà di uno scambio tra prodotti industriali (sempre più rari) e prodotti agricoli. Ma le conseguenza più grave di questo blocco è la distruzione della classe operaia che aveva fatto l’esperienza delle due rivoluzioni. Gli elementi più coscienti, quelli che erano stati eletti delegati nei soviet, partono per il fronte dove costituiscono il nucleo forte dell’Armata Rossa. Diventano comandanti o commissari politici, ma sono ormai staccati dalla loro base naturale. Altri, la maggioranza, tornano al villaggio di origine dove sanno di potersi sfamare. A volte collaborano all’organizzazione del potere sovietico nel villaggio, ma una volta staccati dal tessuto organizzativo della fabbrica in cui si erano formati, vengono in genere riassorbiti dall’ambiente circostante, caratterizzato da una cultura più arretrata e da una scarsissima e rudimentale vita politica. Dei primi, molti morranno (le perdite nella guerra civile sono elevatissime: i “bianchi” non fanno prigionieri, specie tra chi appare più politicizzato); altri verranno assorbiti nell’apparato come dirigenti di zone remote e a volte ostili (come era ad esempio gran parte dell’Asia centrale, dove divamparono rivolte integraliste islamiche contro l’istruzione generalizzata a ragazzi e ragazze, e dove non si perdonava al nuovo potere sovietico la battaglia per l’emancipazione della donna). Molti di essi, anche i migliori, diventeranno diversi da quello che erano stati quando erano emersi come avanguardie di una classe operaia maturata dalle lotte, e che controllava “dal basso” i suoi stessi dirigenti. Quando intorno al 1921, finita la guerra civile, le fabbriche riapriranno e se ne costruiranno di nuove, il tessuto sociale è ben diverso: nelle fabbriche non sono tornati , come in un film riavvolto nel videoregistratore, gli stessi operai che c’erano prima della chiusura. La maggior parte degli operai sono senza tradizioni di lotta, vengono direttamente da un ambiente contadino, dove non hanno potuto fare l’esperienza dei loro predecessori. Saranno indottrinati, dopo il 1923-1924, dal “leninismo” in pillole fornito da Stalin, e la loro organizzazione politica sarà fortemente condizionata dal nuovo clima dogmatico. Il fallimento dell’Opposizione di sinistra e di Lev Trotskij, vedremo successivamente, ha le sue premesse anche in questo mutamento profondo della classe operaia. Rivoluzione e controrivoluzione “preventiva” in Germania Ma a pregiudicare gravemente le possibilità di successo della rivoluzione russa viene la controrivoluzione preventiva in Germania. Lenin, Trotskij e tutti i rivoluzionari più esperti, se non avevano esitato a risolvere a favore della classe operaia l’instabile “dualismo di potere”, avevano sempre saputo e ovviamente detto pubblicamente (la menzogna sistematizzata, già usata abitualmente dai dirigenti socialdemocratici, si diffonderà nei partiti comunisti solo in epoca staliniana) che il “socialismo in un solo paese era impossibile” e che i bolscevichi avevano preso il potere perché era a portata di mano (e se non lo avessero fatto, al posto di Kerenski sarebbe apparsa un’altra spietata dittatura militare come quella tentata da Kornilov), e attendevano quindi il trionfo della rivoluzione in uno dei paesi più sviluppati economicamente e culturalmente, come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna. Più volte (ad esempio ancora nel 1921, nel dibattito con il giovane partito comunista d’Italia) avevano ribadito che il centro dell’Internazionale comunista si sarebbe logicamente spostato da Mosca a Berlino, o a Parigi o a Londra, dopo la vittoria del proletariato in uno di quei paesi. Nel novembre 1918 la rivoluzione che i bolscevichi avevano atteso spasmodicamente durante le trattative di Brest Litovsk (ancor oggi c’è chi dice che erano sognatori…) era esplosa in tutta la sua potenza facendo crollare in pochi giorni l’impero germanico e facendo esplodere in mille pezzi quello austroungarico. Erano rivoluzioni analoghe a quella russa del febbraio 1917, e per molti aspetti perfino più profonde, ma la trascrescenza dalla rivoluzione borghese che abbatteva l’assolutismo monarchico a quella socialista non era automaticamente garantita: dipendeva dalle forze soggettive operanti all’interno dei movimenti, e in particolare dall’esistenza di un partito rivoluzionario ben radicato e riconosciuto dalle masse. In Germania Rosa Luxemburg aveva capito prima di altri, compreso lo stesso Lenin, la dinamica involutiva della socialdemocrazia tedesca e della sua stessa tendenza di sinistra legata a Kautski (e che in realtà era “centrista”, cioè usava una fraseologia rivoluzionaria per far accettare una politica non diversa da quella dei riformisti, da cui non si sognava di staccarsi), ma aveva tardato a passare dalle idee all’organizzazione di una frazione rivoluzionaria. Al momento dell’esplosione della Grande guerra (e dell’Internazionale socialista, dilaniata dall’adattamento di ciascun partito alla propria borghesia imperialista) intorno a Rosa si riunirono meno di una decina di dirigenti di quella che era stata la sinistra del partito (ne aveva invitato telegraficamente duecento!). Perfino Karl Liebkhnecht, che sarà poi associato per sempre alla Luxemburg per la coraggiosa battaglia successiva e poi per la morte avvenuta a distanza di poche ore e nelle stesse circostanze, il 4 agosto del 1914 si era opposto alla decisione del gruppo parlamentare di votare i crediti di guerra, ma non aveva avuto il coraggio di votare contro in aula, per quell’ossessione di non rompere l’unità che ha fatto al movimento operaio più danni di qualsiasi scissione. Solo in dicembre aveva avuto il coraggio di rompere la disciplina, salvando la coerenza con le idee socialiste e sottraendosi alla complicità con la guerra. Ma tanto Rosa Luxemburg che Karl Liebkhnecht erano stati arrestati e passarono il tempo di guerra in un duro isolamento. Solo nel 1916 e nel 1917 era cresciuta – per effetto di una guerra che si rivelava durissima e lunga – una più larga opposizione nel partito e nel gruppo parlamentare, ma era stata intercettata e deviata in una posizione ambigua da Kautsky e dallo stesso leader della corrente revisionista Bernstein, contrari alla guerra ma ostilissimi all’idea di combatterla con la rivoluzione come proponeva (e faceva) in quegli stessi anni Lenin. Così, nelle esaltanti giornate del novembre 1918 e ancor più in quelle drammatiche del gennaio 1919, i due grandi rivoluzionari si trovarono al centro di un imponente movimento, che si muoveva tuttavia senza una direzione e in cui il piccolo partito comunista “spartachista”, che avevano fondato in un rapido congresso svoltosi tra il 31 dicembre 1918 e il primo gennaio successivo, non aveva potuto avere un ruolo significativo.

E la borghesia tedesca (con l’aperta complicità della destra socialdemocratica) aveva potuto con più facilità colpire i due dirigenti più prestigiosi e lungimiranti, facendoli assassinare dai “Corpi franchi” reclutati dal ministro della Guerra socialdemocratico Gustav Noske tra gli ex ufficiali di destra frustrati dalla sconfitta e avventurieri di ogni genere, che confluiranno più tardi nelle squadracce naziste. L’assassinio fu premeditato a freddo, e spiace che invece all’interno della sinistra socialdemocratica ed ex comunista continui a circolare la leggenda di una “insurrezione spartachista” del gennaio 1919, mentre in realtà si è trattato di una cinica provocazione del governo socialdemocratico, che aveva destituito bruscamente il prefetto di Berlino Emil Eichorn (era un operaio, deputato dell’USPD, il partito socialdemocratico “indipendente” che pure partecipava al governo, ma era stimatissimo dalle masse operaie anche perché era stato nominato a quella carica nel vivo della rivoluzione di novembre). Le masse berlinesi (tra cui gli spartachisti erano ancora una piccola minoranza) non fecero nessuna “insurrezione”: scesero semplicemente in piazza per protestare contro quella destituzione, che appariva ed era il preludio di una involuzione autoritaria e conservatrice. Nel corso di quelle proteste, amplissime ma senza direzione chiara, i Corpi franchi arrestarono ed assassinarono la Luxemburg e Liebkhnecht. In quell’occasione emerse ancora una volta il ruolo nefasto dei centristi, che avevano al loro interno moltissimi operai di avanguardia e militanti stimati come Eichorn, ma partecipavano intanto al governo con Noske e con ministri borghesi, che stavano preparando la restaurazione del potere sconvolto dalla rivoluzione. In Austria la situazione era ancora più pradossale: la socialdemocrazia appariva da sempre come quella più di sinistra della Seconda Internazionale. L’equivoco era stato perpetuato dal gesto del suo segretario, Fritz Adler (figlio del fondatore del partito Viktor Adler), che non aveva voluto o saputo opporsi all’entrata in guerra, ma nel 1916 aveva compiuto un gesto di clamorosa e disperata protesta uccidendo il primo ministro austriaco, il conte Stürgkh. La condanna a morte gli era stata commutata in ergastolo dall’imperatore, e naturalmente era uscito dal carcere al momento del crollo dell’impero nel novembre 1918, circondato da un aureola di martirio. Sotto questo aspetto, scriverà Trotskij nel 1920 in Terrorismo e comunismo, Adler “si dimostrò doppiamente utile alla socialdemocrazia austriaca. L’alone dorato del terrorista venne trasformato dagli incalliti falsari del partito nella moneta sonante del demagogo. Friedrich Adler divenne, per i vari Austerlitz e Renner [esponenti della destra socialdemocratica], una garanzia di fronte alle masse”. Come i centristi dell’USPD in Germania, i dirigenti “di sinistra” della socialdemocrazia austriaca si impegnarono a fondo per impedire la generalizzazione e il coordinamento dei consigli sorti spontaneamente, teorizzando che dovevano servire ad arricchire e articolare dal basso la democrazia borghese. Di fatto si impegnavano a evitare che diventassero uno strumento che polarizzasse il dualismo di potere, dandogli una proiezione e una direzione nazionale. Ma il maggiore crimine della socialdemocrazia austriaca fu il rifiuto di sostenere la Repubblica dei Consigli sorta in Ungheria nell’aprile 1919 e la contemporanea rivoluzione di Monaco di Baviera. L’Austria, per la sua posizione geografica, avrebbe potuto collegare quelle due esperienze rivoluzionarie, che invece rimasero isolate e furono soffocate dall’intervento esterno. Borghesi e socialdemocratici sono sempre pronti a teorizzare che “la rivoluzione non si esporta” (il che è vero, nel senso che è impossibile crearla dall’esterno), sorvolando sul fatto che la controrivoluzione viene sempre sistematicamente esportata, e non sufficientemente contrastata da una mobilitazione internazionale. La Russia rivoluzionaria, a cui da Budapest era stato chiesto aiuto, non era certo in grado di fornirlo (era in quei mesi assediata in una piccola porzione del territorio intorno a Mosca). I socialdemocratici austriaci, che erano al governo e avevano una forte milizia operaia armata, avrebbero potuto intervenire facilmente e non lo fecero. Ne pagarono il prezzo quindici anni dopo, quando furono spazzati via da un partito clericale ultrareazionario (l’austrofascismo…), che cancellò con un bagno di sangue la grande tradizione della “Vienna rossa”. La capitale, in cui la socialdemocrazia aveva avuto più del 70% dei voti, aveva visto in effetti straordinarie realizzazioni di avanguardia sul terreno urbanistico, sociale e culturale. Quando il nazismo nel 1938 riuscì ad annettere l’Austria non dovette modificare quasi nulla: il terreno era già stato “arato” dall’austrofascismo. Il terribile isolamento della Russia rivoluzionaria si aggravò nel corso di tutto il dopoguerra: in Italia la direzione socialista e quella della CGL e della FIOM lasciarono isolato il grande movimento delle occupazioni delle fabbriche e dei consigli di officina, e il partito comunista nacque troppo tardi, nel gennaio 1921, quando ormai la borghesia aveva deciso di puntare sul fascismo, armandolo e finanziandolo. Il ritardo era dovuto a vari fattori, tra cui, ancora una volta, l’ossessione dell’unità anche di fronte a un’evidente inadeguatezza del partito socialista. Il successo di Mussolini nell’ottobre 1922 fu più facile del previsto non solo per la complicità di Vittorio Emanuele III, ma anche per l’insufficienza della risposta del movimento operaio, dovuta alla viltà del partito socialista e al settarismo del giovane e inesperto partito comunista. Il movimento comunista subì nuove sconfitte in Germania nel marzo 1919, e poi ancora nel 1921 e nel 1923, anche per suoi errori. In molti altri paesi d’Europa, dalla Jugoslavia alla Bulgaria, dalla Polonia alla Romania, dalla Spagna al Portogallo i partiti comunisti furono perseguitati e messi fuori legge nel corso degli anni ’20.

In Gran Bretagna, viceversa, dove i comunisti erano pochi e il grosso degli operai rivoluzionari militavano nelle Trade Unions e nel partito laburista, uno straordinario sciopero dei minatori fu lasciato isolato nel 1926 dalle direzioni sindacali, provocando non solo una terribile sconfitta, ma un senso di frustrazione che avrebbe pesato per molti anni successivi. Nello stesso periodo, una tremenda repressione spezzava per molti anni l’ascesa del partito comunista in Cina. In quel contesto, si aggrava la grande divisione tra socialdemocratici e comunisti, nata nel 1914 e resa permanente sia dall’atteggiamento apertamente controrivoluzionario della destra socialdemocratica, sia dal settarismo che si manifesta spontaneamente nei giovani partiti comunisti che hanno subito gravi torti (si pensi ai risentimenti degli spartachisti verso i mandanti socialdemocratici dell’assassinio di Rosa Luxemburg), ma che verrà alimentato poi dalla direzione che Stalin pone alle testa dell’Internazionale Comunista nella seconda metà degli anni ’20, che lancerà l’assurda definizione dei socialisti come “socialfascisti”, peggiori dei veri e propri fascisti. Un atteggiamento che faciliterà grandemente, come vedremo, il successo di Hitler tra il 1929 e il 1933. Quel terribile isolamento – dopo la morte di Lenin – faciliterà l’ascesa di Stalin. Egli, fino allora marginale e sconosciuto alle masse, si è conquistato un grande potere attraverso il controllo dell’apparato, nominato dall’alto e non elettivo, che si è sostituito gradatamente ai soviet e allo stesso partito. Della burocrazia, che si è accresciuta sempre più rapidamente, egli è diventato il difensore e ne interpreta le aspirazioni, traducendole in formule rozze ma adeguate al livello primitivo degli ultimi arrivati. Mentre Lenin aveva richiesto di ridurre le dimensioni del partito eliminando gli arrivisti comparsi dopo la vittoria nella guerra civile, Stalin organizza una “Leva Lenin” che raddoppia gli iscritti al partito facendovi entrare in massa operai senza alcuna esperienza, che verranno poi adeguatamente “indottrinati” con i “Principi del leninismo”. Viceversa comincerà l’allontanamento dei militanti più formati. A questo partito spoliticizzato Stalin presenterà il “socialismo in un paese solo” in termini completamente mistificati: come se Trotskij non lo volesse costruire, mentre il leggendario organizzatore dell’Armata rossa, in totale sintonia con Lenin, aveva sempre detto che era impossibile realizzarlo in un paese solo e per giunta arretrato. Viceversa la teoria della “rivoluzione permanente” di Trotskij verrà banalizzata, affermando che consisteva nel voler scatenare ovunque e per giunta simultaneamente rivoluzioni, mettendo in pericolo lo stesso Stato sovietico. Su questo riflesso conservatore di una burocrazia che non sapeva e non voleva sapere nulla della Cina o dello sciopero dei minatori britannici si baserà il successo di Stalin, che sarà pagato a carissimo prezzo dall’URSS e da tutto il movimento comunista. Dispensa 3 L'Assemblea Costituente Nelle elezioni svoltesi in settembre, quindi prima della presa del potere dei bolscevichi, i bolscevichi crescono molto, ma restano in minoranza nell'Assemblea Costituente, per le stesse ragioni per cui nel giugno 1917 essi erano forti nei soviet ma deboli a livello municipale a Mosca e Pietrogrado (lo stesso fenomeno si riproponeva d’altra parte in tutta la Russia). La maggioranza dell’Assemblea è costituita da socialrivoluzionari, i quali nel frattempo si sono scissi tra sinistra e destra. La sinistra degli SR si era avvicinata ai bolscevichi, ma senza riuscire ad incidere sull’apparato del partito e quindi a presentare molte candidature, sicché gran parte degli eletti appartengono alla destra e si oppongono al potere dei soviet. Questa Assemblea, la cui elezione era stata voluta originariamente anche dai bolscevichi, riflette dunque il passato e non il presente: rispecchia cioè la situazione prerivoluzionaria, e dunque rischia di contrapporsi alla rivoluzione. I soviet decidono di sciogliere l'Assemblea nel gennaio del 1918. A questo proposito, Rosa Luxemburg scrive che i soviet hanno avuto certo il merito di aver salvato l'onore del proletariato europeo, ma hanno anche commesso degli errori gravi, tra cui quello di sciogliere l'Assemblea Costituente. Rosa dice che se era vero che l'Assemblea si opponeva al potere dei soviet, sarebbe stato giusto scioglierla, ma bisognava anche convocare subito l’elezione di un’altra assemblea più rappresentativa. Infatti, mentre non aveva dubbi che il governo dovesse essere espresso dai soviet, Rosa riteneva che occorresse avere anche uno strumento che rappresentasse le opinioni dell’intera società russa.

Nel marzo del 1918, subito dopo la pace di Brest Litovsk, i socialrivoluzionari di sinistra, che per il loro passato rappresentavano un legame col mondo contadino, escono dal governo (il “Consiglio dei Commissari del popolo”) e una socialrivoluzionaria, Fania (o Dora) Kaplan, compie un attentato contro lo stesso Lenin, ferendolo gravemente. I bolscevichi devono ricorrere inevitabilmente alla repressione nei confronti dei loro ex alleati (quale governo può consentire che si spari sul suo massimo esponente?), ma restano soli al potere. A questo punto divampa la guerra civile: tutti i reazionari, nostalgici dello zar o semplicemente della proprietà privata, attaccano il regime bolscevico, organizzando bande armate finanziate dall’estero. All’aggressione partecipano 14 paesi, Italia compresa. Inizialmente, soprattutto inglesi e francesi inviano truppe (ad esempio i francesi inviano la flotta nel mar Nero, ma questa alza la bandiera rossa e si unisce ai rivoluzionari). Anche tra gli inglesi accadono episodi analoghi, e per questo prevale il criterio di inviare consulenti, armi e denaro, riducendo il numero dei soldati esposti al contagio delle idee rivoluzionarie. Ben più grave è il blocco dei porti con navi e mine, che isolano la Russia rivoluzionaria dal resto del mondo. La guerra civile è durissima e non fa prigionieri: i bianchi uccidono sistematicamente gli appartenenti all’Armata Rossa; questa è stata costruita dapprima con volontari, e in forma abbastanza caotica, poi viene reclutata su larga scala e viene introdotta una relativa disciplina, per bloccare le tendenze anarchiche secondo le quali ognuno poteva dare ordini. Naturalmente ogni sera si discuteva democraticamente sull’operato dei comandanti, ma nei combattimenti era inevitabile imporre un comando unico che evitasse di andare allo scontro in ordine sparso. Questo per quanto riguarda i criteri con cui l’Armata Rossa è stata fondata. Ma emerge presto la necessità di specialisti: per usare un fucile non occorre grande istruzione, ma per un cannone ci vuole una preparazione specifica, la conoscenza delle leggi della balistica, ecc. Nelle tecniche militari ci sono molti aspetti che non possono essere improvvisati. L’organizzatore dell’Armata Rossa è Leone Trotskij, che non ha mai fatto il militare: la sua capacità di persuasione è basata sull’esempio, dato che non manda i subalterni a morire, ma si espone in prima persona (come farà successivamente un altro grande rivoluzionario divenuto capo militare, Ernesto Che Guevara). Tuttavia la guerra non ha bisogno solo di questo, ma appunto anche di “tecnici”. Così dal vecchio esercito zarista vengono selezionati alcuni ufficiali disposti a collaborare, chi per convinzione spontanea, chi per diverse ragioni anche materiali, altri per patriottismo (dietro alle bande bianche ci sono forze straniere). Tutti verranno tenuti sotto controllo da commissari politici e comandanti meno esperti di tecniche militari ma con una forte coscienza politica. Da questa combinazione viene fuori un esercito formidabile, che sconfigge i bianchi, anche perché i capi di questi sono divisi tra loro per gelosie, vanità e divergenze politiche. Li accomuna soprattutto un’insofferenza verso le rivendicazioni delle minoranze nazionali e non nascondono che, in caso di vittoria, cancelleranno anche la riforma agraria. Per questo motivo i contadini, anche se scontenti dei bolscevichi, restano ancora ostili alle guardie bianche. Il rapporto tra contadini e potere sovietico si era deteriorato infatti molto presto (vedi seconda dispensa, pp. 20-21) e nelle campagne, accanto alle bande rosse e bianche, erano apparse quelle “verdi”, che si dichiaravano neutrali. Queste a volte erano influenzate dagli anarchici, che le mitizzeranno successivamente, nascondendone le contraddizioni (ad esempio l’antisemitismo presente nelle loro file). Si esce dalla guerra civile dopo oltre tre anni, con un paese trasformato, ma prima di tutto distrutto. I consiglieri stranieri avevano suggerito alla bande bianche soprattutto di sabotare la rete dei trasporti, che in un paese come la Russia, per ragioni anche climatiche, sono soprattutto ferroviari. D’altra parte le ferrovie erano state costruite con capitali stranieri e attrezzature importate, ed era quindi sufficiente bloccare l’afflusso di ricambi per ridurne il funzionamento a un decimo di quello che erano prima della rivoluzione: non arrivano più pezzi di ricambio, combustibile e materie prime per le fabbriche, che sono costrette quasi tutte a chiudere. Gli operai – a parte quelli che sono andati volontariamente a combattere al fronte nell’Armata rossa – tornano in genere al villaggio di origine, dove hanno tutti qualche parente e dove si sopravvive anche in tempo di carestia. Anche per questo non funzionano più i soviet, che erano basati sul rapporto diretto tra gli eletti e la loro “base” operaia, che li controllava e se occorreva li revocava. Quando nel 1921-1923, dopo la grande crisi della guerra civile, si riapriranno le fabbriche, vi entreranno nuovi operai di origine contadina, senza esperienza di lotte, e soprattutto di organizzazione. Gli operai che si erano formati nella rivoluzione del 1905, e poi avevano avuto un ruolo decisivo in quella del 1917, erano altrove. Quelli stessi che erano entrati nell’Armata Rossa avevano mutato la loro mentalità assumendone una fortemente militare, che li condizionerà anche nei nuovi incarichi di direzione del paese. La guerra civile finisce nel ’20, ma nel marzo del ’21 c’è l’insurrezione dei marinai a Kronštadt e la liberalizzazione del commercio, mentre in vari governatorati (più o meno l’equivalente delle nostre province) si verificano rivolte contadine. Questi episodi rivelano una crisi del potere sovietico, il quale reagisce male: infatti non solo reprime oltre misura la rivolta di Kronštadt, ma introduce all’interno dello stesso partito comunista criteri di funzionamento diversi da quelli che aveva avuto fino a quel momento. Il partito (che nel 1918 ha cambiato nome, da partito operaio socialdemocratico russo a partito comunista) per tutti gli anni più tragici, fino al marzo del ’21, aveva mantenuto infatti il diritto di discussione aperta e anche il diritto di frazione al suo interno. Questa vicenda si è intrecciata con un’altra: l’avvio della N.E.P. (nuova politica economica), che introduce una tassa in natura approssimativa e non in percentuale sulla produzione reale: per ogni ettaro l’imposta in natura viene calcolata su un livello molto basso; il contadino, pagata quell’imposta, dispone liberamente di quello che produce in più e può venderlo al prezzo determinato dal rapporto tra domanda e offerta. Questo incoraggia i contadini a produrre di più, ma al tempo stesso questa libertà di commercio produce un inconveniente per le città: il piccolo contadino, per esempio, che deve portare il suo prodotto nelle zone dove è più richiesto e si può vendere meglio, lo dà agli intermediari, i quali a volte nascondono i prodotti e li vendono solo quando il loro prezzo sale. A volte, quando il prezzo del grano è poco remunerativo, si preferisce non venderlo e trasformare il grano in vodka, se questo permette un guadagno maggiore. La NEP era stata decisa all’unanimità nel partito, quando nessuno ne prevedeva le future conseguenze. Ma è nel corso degli anni Venti che si determinano i primi problemi. L’Opposizione di sinistra denuncia invano fin dal 1923-1924 il pericolo dell’arricchimento ulteriore e incontrollato dei contadini ricchi (i kulaki) e degli intermediari, che Stalin (allora alleato di Bucharin) sottovaluta completamente; quando nel 1929 si renderà conto dei problemi, cercherà di risolverli con la violenza della collettivizzazione forzata, che costerà al paese milioni di morti e un permanente sfacelo dell’agricoltura (le conseguenze arriveranno fino al periodo gorbacioviano e anzi fino ad oggi).

Le ripercussioni mondiali della rivoluzione russa Il motivo iniziale della crescita del prestigio dei bolscevichi in tutta l’Europa, e anzi nel mondo intero, è l’ammirazione per la loro lotta decisa e coerente contro la guerra. Tutte le altre tendenze del movimento socialista o difendono apertamente la guerra, o assumono posizioni ambigue (espresse in Italia con la formula ipocrita Né aderire, né sabotare). I socialisti tedeschi continuano dopo la rivoluzione di febbraio a difendere la guerra contro la Russia sovietica con gli argomenti usati contro quella zarista. Anche quelli che erano contro la guerra avevano paura di manifestarlo pubblicamente per non essere costretti nella clandestinità dalla repressione. Ma la guerra comporta privazioni non solo per chi sta al fronte; quindi l’idea che un paese possa sottrarsi alla guerra con un atto rivoluzionario attrae molti socialisti nel corso del 1917 e 1918, anni in cui aumenta sempre più il numero delle adesioni alla lotta contro la guerra. Tuttavia, anche quelli che sono rimasti fedeli a questa lotta e hanno partecipato alle due conferenze di Zimmerwald e Kienthal, in Svizzera, si sono presto divisi tra chi – come Kautsky – si limita a esprimere la propria protesta e chi si colloca nella prospettiva indicata dai bolscevichi, lavorando per il rovesciamento rivoluzionario dei regimi che la guerra hanno voluto. C’è un altro aspetto dell’estensione dell’influenza della rivoluzione russa: durante la prima fase della guerra, la Russia aveva fatto un gran numero di prigionieri, soprattutto appartenenti all’impero austro-ungarico. Questi prigionieri vengono trattati bene durante la rivoluzione e molti sono attratti da essa, e diventano comunisti. Molti dei primi nuclei non si chiamano comunisti ma sono socialisti di sinistra, che simpatizzano per la Russia sovietica perché questa ha dimostrato che la lotta rivoluzionaria è l’unica strada per uscire dalla guerra. In molti paesi si formano dei nuclei che aderiscono alla rivoluzione russa: In Germania quello “spartachista”, di cui fanno parte Rosa Luxemburg e Karl Liebkhnecht. In Italia si costituiscono due nuclei, uno a Napoli e nel Sud intorno alla rivista Il soviet di Amedeo Bordiga, l’altro a Torino intorno a L’Ordine Nuovo di Antonio Gramsci, ecc. Alcuni di questi nuclei, in diversi paesi, erano semianarchici: per aderire all’Internazionale Comunista quando nasce nel 1919 l’importante è essere contro la collaborazione con la borghesia che aveva voluto la guerra, non l’accettazione delle posizioni teoriche di Lenin o Trotskij. La rivoluzione russa ha come ripercussione in tutta Europa l’aumento delle lotte operaie e anche concessioni “preventive” da parte dei governi borghesi, per disinnescare le tensioni sociali; anche in Italia vengono emanate leggi che introducono le 8 ore lavorative. Mentre prima, nonostante fossero state rivendicate per 40 anni, non si era ottenuto nulla adesso invece, come ripercussione della rivoluzione russa e per la grande paura che la rivoluzione si estenda negli altri paesi, vengono concesse. L’influenza della rivoluzione russa è effettivamente molto grande, ma la risposta delle potenze conservatrici blocca preventivamente il successo della rivoluzione nei paesi più importanti dell’Europa. In ogni paese questo pericolo viene affrontato in vario modo: per esempio in Germania, dove dopo il crollo dell’impero l’esercito è completamente disorganizzato, e la polizia si nasconde per paura, la borghesia tedesca con la complicità dei socialdemocratici si prepara alla controrivoluzione preventiva, e costituisce delle bande armate della controrivoluzione (i “Corpi Franchi” assoldati dal ministro della Guerra socialdemocratico Gustav Noske tra ex ufficiali e avventurieri vari), che nel gennaio del 1919 assassinano a freddo Rosa Luxemburg e Karl Liebkhnecht. Una grande complicità oggettiva con la controrivoluzione ce l’ha l’Austria, che pure è governata da un partito socialdemocratico di sinistra che a Vienna raggiunge il 70% di voti. Infatti l’Austria, se fosse stata veramente socialista, avrebbe potuto e dovuto fornire aiuto alle due rivoluzioni scoppiate nella primavera del 1919 in due paesi confinanti, la Baviera e l’Ungheria. Concludendo, la rivoluzione russa ha avuto inizialmente un effetto unificante sui lavoratori di tutto il mondo e inizialmente ha trascinato gran parte delle socialdemocrazie. Poche di esse si schierano apertamente contro la rivoluzione russa, e anzi molti partiti socialisti decidono di aderire in blocco alla Terza Internazionale finché nel ’21 questa, nel suo III Congresso, non pone condizioni più rigide. Negli anni successivi, la rivoluzione russa non sarà più un elemento unificante, perché in URSS si adottano misure più rigide e restrittive della libertà, si evidenziano incoerenze specie in politica estera, causando divisioni e ostilità, in parte anche fondate su fatti reali. La Terza internazionale cambierà atteggiamento su molte questioni importanti: ad esempio, nei primi anni, si impegna a fondo per la rivoluzione anticoloniale, e sostiene che i partiti comunisti dei paesi imperialisti devono aiutare i paesi che lottano per la liberazione dal dominio coloniale e devono anzi incoraggiare la moltiplicazione delle lotte di liberazione: ogni paese deve essere libero di scegliere il proprio destino. Come vedremo, negli anni Trenta i comunisti (sospinti da Stalin a collaborare con la propria borghesia) non si riveleranno fedeli a questo principio, con conseguenze gravissime sul movimento anticolonialista di molti paesi. Il processo di involuzione: le premesse oggettive Il processo di involuzione della Russia sovietica comincia già all’inizio degli anni Venti con la scomparsa dei soviet come organismi elettivi e revocabili. Questo processo non è provocato da Lenin e neppure da Stalin, anche se, a differenza di Lenin, quest’ultimo non fa nulla per contrastarlo. La crisi del potere sovietico comincia con la guerra civile e si aggrava con l’insurrezione di Kronštadt nel 1921, che si intreccia con le rivolte contadine che esplodono proprio dopo la fine della guerra civile. E in quell’anno, mentre il potere sovietico sembra consolidato, avviene il cambiamento nel regime interno del partito comunista (l’eliminazione del diritto di frazione, a cui abbiamo già accennato). Le premesse di questo processo di involuzione sono state già presentate in diverse lezioni: pesa in primo luogo l’isolamento della rivoluzione russa, in seguito alle sconfitte della rivoluzione in Germania, Francia, Italia, Ungheria, ecc., dovute a immaturità e inesperienza delle giovani forze comuniste, e soprattutto al tradimento delle direzioni socialdemocratiche. Di tutti i fattori, l’isolamento della rivoluzione russa è il più importante. La rivoluzione russa è stata fatta con la certezza di essere solo “un punto avanzato della rivoluzione mondiale”. Lenin e Trotskij nel 1917 si rendono conto che c’è la possibilità di prendere il potere (il che li spinge ad approfittare della crisi del governo provvisorio interclassista sfociata nel dualismo di potere), ma sanno anche che è difficile mantenerlo in un paese molto arretrato com’era la Russia di allora; per mantenerlo è necessario che anche negli altri paesi, e soprattutto in quelli economicamente e culturalmente più sviluppati, trionfi la rivoluzione proletaria. Il fatto che la Russia sia un paese molto grande non implica che vi si possa realizzare il socialismo: infatti la maggioranza della popolazione è formata da contadini analfabeti difficili da raggiungere e mobilitare; inoltre pone ostacoli anche l’arretratezza tecnologica e la conseguente dipendenza dall’estero. La Russia è costretta a chiudersi nell’autarchia o a pagare a carissimo prezzo la tecnologia, cosa che ha fatto fino al momento del crollo del 1989-1991. È stata questa sfasatura tra i paesi che hanno il monopolio tecnologico e i paesi arretrati, aggravatasi nel corso degli anni, il fattore che in ultima analisi ha determinato il crollo. Che un paese sia arretrato o avanzato non dipende solo dal tipo di struttura economica, ma anche da tutta l’eredità, anche culturale, del passato. La Russia sovietica si è sviluppata in un paese arretrato, che già nel 1917 disponeva di alcune zone con un’industria moderna annegate in un contesto rurale primitivo: ha conosciuto poi negli anni Trenta un grande sviluppo quantitativo (produce un’immensa quantità di acciaio, cemento, energia elettrica...), che ha colpito l’immaginazione per la sua rapidità, e ha fatto pensare agli stessi dirigenti sovietici (ad esempio a Chruscev, il primo successore di Stalin) di poter raggiungere e superare presto i principali paesi capitalistici. Anche in quella fase, quando venivano lanciati nello spazio i primi satelliti, la qualità della produzione industriale di massa era tuttavia assai scadente, e tutta la tecnologia di avanguardia era concentrata nel settore militare e missilistico, che disponeva ovviamente di computer, ma in un paese in cui nei negozi e negli stessi supermercati si continuava a fare i conti sul pallottoliere. La Russia sovietica dunque resta sola, non per sua scelta, e paga il prezzo della grande arretratezza, della società e di parte dello stesso proletariato. La rivolta di Kronštadt e il conseguente blocco del diritto di frazione rendono più difficile la correzione degli errori e minore la capacità di affrontare i problemi creati dalla NEP. La rivoluzione tedesca e Rosa Luxemburg La notizia dei grandi scioperi esplosi in Germania e in Austria nel gennaio del 1918 aveva riempito di speranza i dirigenti bolscevichi, ma quella prima ondata della rivoluzione venne bloccata dal tradimento delle socialdemocrazia europea.

Quando, con un ritardo di alcuni mesi rispetto alle previsioni di Lenin e Trotskij, nel novembre del ’18 crollano gli imperi austro-ungarico e tedesco, cambia la carta geografica dell’Europa, ma le classi dominanti riescono a riprendere il controllo dei paesi che si sono separati dagli imperi crollati: l’Ungheria si stacca dall’impero austro-ungarico, Slovenia, Croazia e Bosnia Erzegovina si uniscono a Serbia e Montenegro e formano la Jugoslavia, nasce la repubblica Cecoslovacca, si forma la Polonia riunificando le regioni che nelle spartizioni settecentesche erano state annesse alla Russia, alla Prussia e all’Austria. In questa grande ondata rivoluzionaria la Germania sembra essere la forza decisiva del movimento operaio. Il movimento operaio tedesco viene considerato, non a torto, il più organizzato, ma all’interno del partito socialdemocratico tedesco c’è solo un piccolo gruppo di rivoluzionari, annegati in un mare di conformismo e di fiducia cieca nei “capi”, e a lungo paralizzati dal mito dell’unità del partito. Alcuni di loro, in particolare Rosa Luxemburg, avevano capito molto prima di Lenin che il partito socialdemocratico faceva bei discorsi rivoluzionari nei comizi della domenica, ma nella pratica cercava sempre di chiedere solo quello che la controparte borghese aveva già deciso di concedere, mentre un’ala apertamente filoimperialista giustificava perfino i crimini compiuti dall’esercito tedesco nelle colonie africane. Questo gruppo si stacca tardi, solo nel corso della guerra, dagli altri raggruppamenti socialdemocratici di sinistra per formare un vero partito comunista. Allo scoppio della guerra, nel 1914, gran parte di coloro che si dicevano fino al giorno prima contrari alla guerra si schierano con la borghesia, argomentando che la guerra è sì tremenda ma che bisogna comunque farla. In Germania in quel momento sono veramente pochi a opporsi con decisione e coerenza alla guerra: tra questi giganteggia Rosa Luxemburg. Lo stesso Liebknecht, che protesta contro la guerra nelle riunioni del gruppo parlamentare, alla fine in aula nell’agosto 1914 vota a favore dei crediti di guerra, perché non riesce a staccarsi dal mito dell’unità ad ogni costo. È bello essere uniti se la linea politica del partito è giusta, ma non se è sbagliata e avalla un crimine (e la guerra è un crimine...). All’inizio della guerra Rosa viene arrestata, rendendo esecutiva una condanna di due anni prima per un discorso che offendeva l’imperatore, annullando la condizionale. La borghesia vuole impedirle di agire liberamente e costruire l’opposizione alla guerra. La borghesia tedesca si mostra più abile e capace di altre nel soffocare l’opposizione, soprattutto perché ha un valido collaboratore nella socialdemocrazia ufficiale. Rosa passa tutto il periodo delle guerra in carcere. Riesce a mantenere con alcuni compagni fitti contatti epistolari, e scrive anche articoli che escono su fogli clandestini (col nome di Lettere di Spartaco). A mano a mano che si comincia a pagare di persona, per il carovita, i salari ridotti, l’aumento dell’orario di lavoro, e soprattutto a mano a mano che arrivano le notizie delle terribili perdite sui fronti che colpiscono quasi ogni famiglia, cresce nel paese l’opposizione alla guerra. Nel corso del 1916-1917 aumentano gli scioperi, che diventano appunto fortissimi nel gennaio 1918, in tutta la Germania e anche nell’impero austroungarico. Come abbiamo accennato, i due imperi si sfaldano simultaneamente all’inizio di novembre del 1918. Già nel gennaio del 1919 la borghesia tedesca prende l’iniziativa per bloccare la rivoluzione con una provocazione: la destituzione del prefetto di Berlino, Eichorn, un operaio del partito socialdemocratico indipendente, molto amato dalle masse berlinesi. Le masse scendono in piazza per protestare ma senza una direzione riconosciuta: alcuni dirigenti più lucidi come Rosa Luxemburg e Karl Liebkhnecht vengono arrestati e uccisi immediatamente senza processo, per “decapitare la rivoluzione”. Nel marzo del 1919 si verifica una seconda fase della controrivoluzione preventiva: la rivoluzione russa rimane ancora più assediata perché l’ondata rivoluzionaria che si manifesta in diversi altri paesi come l’Ungheria e la Baviera viene stroncata dalla violenta reazione della borghesia interna appoggiata dalle forze militari dell’Intesa. Con l’uccisione di Rosa Luxemburg e di altri militanti più maturi, d’altra parte, il partito comunista tedesco era restato nelle mani di giovani inesperti e inaspriti, che rifiutano qualsiasi iniziativa comune con la base socialdemocratica, considerata corresponsabile dell’assassinio, e che sprecheranno diverse occasioni importanti. La repubblica dei consigli in Ungheria La rivoluzione in Ungheria nasce dal panico della borghesia, che non sa reggere all’attacco concentrico dei paesi confinanti, che mirano a impossessarsi di zone del paese in cui vivono mescolati gruppi etnici diversi (rumeni, slovacchi, serbi...).

L’Ungheria, dopo il distacco dall’Austria, aveva creato una repubblica borghese assai fragile, il cui capo, il conte Michele Karolyi, chiama socialisti e comunisti ad assumere responsabilità di governo per salvare il paese dallo smembramento. I comunisti passano dal carcere al governo, ma questo presenta molti punti deboli: viene costituita una “repubblica dei consigli”, ma questi sono stati sollecitati dall’alto e non formati spontaneamente. Inoltre, i comunisti appena usciti dal carcere non solo si uniscono ai socialdemocratici per formare il governo, ma si fondono con essi in un partito un po' confuso, in cui permane una burocrazia socialdemocratica che ha aderito alla rivoluzione per opportunismo e si prepara a tradirla. Soprattutto quando prendono il potere, i comunisti, a partire dal loro leader Bela Kun, un giovane diventato comunista da poco durante la prigionia in Russia, non hanno una grande esperienza e commettono molti errori di estremismo (nazionalizzazione delle terre senza partecipazione dei contadini, ecc.). Nonostante le difficoltà interne e gli errori dei suoi dirigenti, la repubblica ungherese viene sconfitta solo dagli attacchi esterni (di serbi, cechi, croati, rumeni, sotto la direzione di generali francesi e con l’appoggio di tutte le potenze dell’Intesa), dopo quattro mesi dalla sua formazione. La Russia non è stata in grado di intervenire in aiuto dell’Ungheria perché in quel periodo era accerchiata in un piccolo territorio poco più grande dell’antico granducato di Moscovia, e non poteva certo raggiungere i confini ungheresi. La sconfitta di quei due primi processi rivoluzionari del 1919, in Baviera e in Ungheria (oltre a quello in Germania, soffocato ancora prima che si manifestasse in tutte le sue potenzialità) è un duro colpo per la rivoluzione russa. L’isolamento – come non ci stanchiamo di sottolineare – contribuisce all’involuzione: in quel contesto riaffiorano tutti gli elementi di arretratezza specifici della situazione russa (contadini analfabeti, classe operaia dispersa per effetto del blocco straniero e della guerra civile, ecc.). Un altro colpo verrà dalla sconfitta della rivoluzione in Italia, che si è concretizzata nella grande ondata di occupazioni di fabbriche del 1920, con l’elezione di consigli di delegati (equivalente italiano dei soviet). Tradita dalla direzione socialista e da quella della CGL di D’Aragona e della FIOM (Federazione italiana operai metallurgici) guidata da Bruno Buozzi, l’occupazione delle fabbriche si conclude con un grave arretramento, che lascia le porte aperte alla controffensiva della borghesia, che comincia ad armare e finanziare i “Fasci di combattimento” di Benito Mussolini. Il trionfo del fascismo crea un pericoloso precedente, che verrà imitato in altri paesi dell’Europa. Ne parleremo tuttavia più dettagliatamente nelle prossime lezioni. D’altra parte, l’involuzione della Russia sovietica non può essere attribuita solo all’aggressione imperialista: ci sono stati già in quei primi anni anche errori soggettivi, come le repressioni degli anarchici, nel 1918 e soprattutto nel 1921: giustificate spesso da atti irresponsabili e da pericolose leggerezze, hanno comunque portato a sopprimere l’agibilità politica per una parte delle forze rivoluzionarie che avevano contribuito al successo della rivoluzione d’Ottobre. Dispensa 4 Dopo Lenin Finora nelle dispense sono state affrontate prevalentemente le radici oggettive – internazionali ed interne – dell’involuzione dell’URSS. Questa dispensa è dedicata essenzialmente alla discussione sviluppatasi nell’ultimo periodo di vita di Lenin e poi, con particolare violenza, subito dopo la sua morte. Prima di tutto va sgomberato il campo da una mistificazione molto diffusa (e ripetuta abitualmente in gran parte dei manuali di storia), che riduce lo scontro a una “lotta per la successione” a Lenin. In realtà non si trattava di “successione” a un capo assoluto: Lenin aveva un immenso prestigio ma, ad esempio, non assunse mai la carica di “segretario generale”, divenuta da Stalin in poi il simbolo di un potere assoluto al di sopra delle parti, di fatto associato a una specie di “infallibilità” analoga a quella dei papi. Si trattava invece di uno scontro politico sui problemi concreti dell’URSS, in particolare sul pericolo di degenerazione burocratica e di restaurazione capitalistica, ma anche di ripresa del vecchio sciovinismo russo. In una lettera del 25 settembre 1922 Lenin aveva detto brutalmente: “il nostro apparato è una tale porcheria che bisogna ripararlo radicalmente”. In un'altra lettera del maggio 1921 aveva parlato di “m... schifezza del nostro apparato di direzione”. In un’altra lettera del febbraio 1922 diceva che in queste “sezioni” (se così si chiamano tali istituzioni presso il CC) vi sono in posti importanti degli stupidi e dei pedanti. […] Noi stessi, (“lottando contro il burocratismo”…) ce ne creiamo uno sotto il naso dei più vergognosi e dei più stupidi. Il potere del Comitato centrale è grandissimo. Le sue possibilità sono immense. Distribuiamo il lavoro a 200-400 mila funzionari di partito e, per mezzo loro, a migliaia e migliaia di senza partito. E questa gigantesca opera viene completamente rovinata dal burocratismo ottuso! La lettera era indirizzata a Vjaceslav Molotov, che fu per tutta la vita il principale collaboratore di Stalin. Si noti che le dimensioni dell’apparato sfuggivano a Lenin, tanto è vero che la cifra presumibile oscillava tra 200 e 400.000. Nei primi anni dopo la rivoluzione, la segreteria del partito affidata a Sverdlov contava invece poche decine di militanti efficienti e soprattutto coscienti. Invece sotto la guida di Stalin, oltre a ingigantirsi, l’apparato aveva cambiato natura: Abbiamo nelle sfere più alte del potere non si sa esattamente quanti, ma almeno qualche migliaio, al massimo qualche decina di migliaia dei nostri. Tuttavia alla base della gerarchia centinaia di migliaia.di ex funzionari che abbiamo ereditato dallo zar e dalla società borghese, lavorano, in parte coscientemente in parte incoscientemente, contro di noi. In un rapporto all’XI congresso del partito tenuto a nome del Comitato centrale del PCR (b) il 27 marzo 1922, Lenin ribadiva che, pur avendo apparentemente nelle proprie mani tutte le leve del potere, il partito si trovava in una situazione drammatica: La lotta con la società capitalistica è diventata cento volte più accanita e pericolosa, perché non vediamo sempre chiaramente chi è nemico e chi è nostro amico. Il pericolo nasce dalla “mancanza di cultura fra i comunisti che hanno funzioni dirigenti. Prendiamo Mosca – in cui vi sono 4.700 comunisti responsabili – e prendiamo questa macchina burocratica, questa massa. Chi guida e chi è guidato? Dubito molto che si possa dire che sono i comunisti a guidare questa massa. A dire il vero, non sono essi che guidano, ma sono guidati. Qui è accaduto qualcosa di simile a quello che ci raccontavano nelle lezioni di storia quando eravamo bambini. Ci insegnavano: talvolta un popolo ne conquista un altro, e il popolo che ha conquistato è il dominatore, mentre quello che è stato conquistato è il vinto. […] Se il popolo conquistatore ha un livello superiore a quello del popolo vinto, impone a quest’ultimo la propria cultura; se è il contrario, avviene che il popolo vinto impone la propria cultura al vincitore. Lenin precisava che “l’impressione che i vinti [cioè i borghesi e i residui della burocrazia zarista] abbiano un livello culturale elevato” era sbagliata: “Niente affatto. La loro cultura è meschina, ma è tuttavia superiore alla nostra”. Parole durissime. Ma non sarebbero più state ripetute dopo la morte di Lenin da Stalin, che tra quei mediocri e incolti funzionari avrebbe trovato la sua base e che, quindi, lusingò e assecondò. Nel suo ultimo scritto, la Lettera al Congresso (più nota come Testamento politico), scritta tra gli ultimi giorni di dicembre del 1922 e i primi di gennaio del 1923, Lenin denunciava i pericoli di scissione nel partito, attribuendone la principale responsabilità ai rapporti tra Stalin (che “divenuto segretario generale, ha concentrato nelle sue mani un immenso potere”) e Trotskij, che “si distingue non solo per le sue eminenti capacità. Personalmente egli è forse il più capace tra i membri dell’attuale CC, ma ha anche una eccessiva sicurezza di sé”.

Passava poi in rassegna gli altri dirigenti di primo piano (Zinov’ev, Kamenev, Bucharin e Piatakov, che furono tutti uccisi da Stalin) segnalandone i limiti, ma raccomandandone l’utilizzazione in una direzione collettiva, resa più forte dall’allargamento del CC a qualche decina e perfino a un centinaio di membri. Su Stalin Lenin riprendeva la penna il 4 gennaio per indurire il giudizio in una Aggiunta alla lettera del 24 dicembre: Stalin è troppo grossolano, e questo difetto, del tutto tollerabile nell’ambiente e nei rapporti tra noi comunisti, diventa intollerabile nella funzione di segretario generale. Perciò propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico e di designare a questo posto un altro uomo che, a parte tutti gli altri aspetti, si distingua dal compagno Stalin solo per una migliore qualità, quella cioè di essere più tollerante, più leale, più cortese e più riguardoso verso i compagni, meno capriccioso, ecc. La maggiore asprezza era dovuta alla notizia che Stalin aveva tentato di sottrarre documenti a Nadezda Krupskaja, moglie e principale collaboratrice di Lenin, e l’aveva trattata con arroganza, al punto di provocare l’interruzione dei rapporti personali tra i due dirigenti. Ma le ultime note (dettate nei pochi minuti che ogni giorno i medici consentivano per l’attività intellettuale a Lenin già gravemente malato) chiariscono un altro punto fondamentale di dissenso: la questione delle nazionalità. Il 30 dicembre inizia la dettatura con una frase impressionante: A quanto pare sono fortemente in colpa verso gli operai della Russia, perché non mi sono occupato con sufficiente energia e decisione della famosa questione dell’autonomizzazione ufficialmente detta, mi pare, questione della unione delle repubbliche socialiste sovietiche.

Lenin si scusava per non aver potuto partecipare a causa della malattia alla discussione sul progetto che stava definendo la struttura di quella che dal 1923 si sarebbe chiamata Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, cioè URSS. Ma aveva scritto delle note di severa critica alle limitazioni dei diritti delle repubbliche federate nel progetto: “Noi ci riconosciamo eguali nei diritti con la RSS di Ucraina e con le altre, ed entriamo su un piede di uguaglianza con esse, in una nuova Unione, in una nuova Federazione” e aveva ottenuto alcune modifiche al testo. Tuttavia non era tranquillo sull’esito finale, preannunciato da vari atteggiamenti intolleranti e sopraffattori che si erano manifestati soprattutto in Georgia, dove Orgionikidze (un fedelissimo di Stalin, che tuttavia perirà ugualmente nel 1937, forse suicida come altri dirigenti, tra cui il leader dei sindacati Tomskij, prima di essere arrestato) aveva “potuto lasciarsi andare alla violenza fisica” contro alcuni dirigenti locali. Così scrive che, se si è arrivati a questo punto, “ci si può immaginare in quale pantano siamo scivolati”. Si dice che ci voleva l’unità dell’apparato. Ma di dove sono venute fuori queste affermazioni? Non sono forse venute fuori da quell’apparato russo che, come ho già rilevato in una delle note precedenti del mio diario, abbiamo ereditato dallo zarismo, e che è stato solo appena ricoperto di uno strato di vernice sovietica?[…] Io penso che qui hanno avuto una funzione nefasta la frettolosità di Stalin e la sua tendenza a usare i metodi amministrativi, nonché il suo odio contro il famigerato “socialnazionalismo”.
IL  rancore in generale, è di solito, in politica, di grandissimo danno. Lenin si preoccupava che lo stesso Dzerdzinki, il capo della CEKA, nonostante fosse di origine polacca, avesse assunto, come molti altri allogeni un “atteggiamento da vero russo” e non potesse indagare sulla situazione georgiana (anche se era stato il primo a informarlo). Ma è su Stalin che si concentrano ancora una volta le critiche più severe: lo si paragona due volte a Giergimorda, un rozzo poliziotto sciovinista descritto da Gogol. Il georgiano che considera con disprezzo questo aspetto della questione, che facilmente si lascia andare all’accusa di “socialnazionalismo” (quando egli stesso è non solo un vero e proprio “socialnazionale”, ma anche un rozzo Giergimorda grande-russo), quel georgiano in sostanza viola gli interessi della solidarietà proletaria di classe, perché niente ostacola tanto lo sviluppo e il consolidamento della solidarietà proletaria di classe quanto l’ingiustizia nazionale, e a niente sono così sensibili gli appartenenti alle nazionalità “offese” come al sentimento di eguaglianza e alla violazione di questa eguaglianza. […] Ecco perché in questo caso è meglio esagerare dal lato della cedevolezza e della comprensione verso le minoranze che non il contrario. Ecco perché in questo caso l’interesse più profondo della solidarietà proletaria, e quindi anche della lotte di classe proletaria, esige che noi non abbiamo mai un atteggiamento formale verso la questione nazionale, ma che teniamo sempre conto della immancabile differenza che non può non esserci nell’atteggiamento del proletariato della nazione oppressa (o piccola) verso la nazione dominante (o grande). Le altre misure proposte da Lenin nella lettera (l’ampliamento del CC, l’attribuzione di funzioni legislative al Gosplan, l’organo responsabile della pianificazione), ecc., non erano probabilmente sufficienti ad arginare i processi involutivi, ma comunque tentavano di farlo. Ma non c’è dubbio che Lenin tentava di opporsi all’involuzione, mentre Stalin la asseconderà, la nasconderà e anzi la nobiliterà verbalmente. Quindi l’inizio delle differenziazioni, e la prima critica radicale della società russa “sovietica”, può essere fatta risalire a Lenin più che a qualsiasi altro. Ancora sulla questione nazionale Nelle opere di Lenin, vera miniera inesauribile di spunti stimolanti ed esempio inimitabile di dialettica, si trovano molti altri scritti che confermano che le indicazioni del Testamento non erano frutto di un tardivo ripensamento o, peggio ancora, di una attenuata lucidità. Pochi mesi prima, il 6 ottobre 1922, Lenin aveva inviato, ad esempio, un Biglietto all'Ufficio politico sulla lotta contro lo sciovinismo di grande potenza che diceva testualmente. Dichiaro guerra mortale allo sciovinismo grande-russo. Non appena mi sarò liberato di questo maledetto dente, lo assalirò con tutti i miei denti sani. Bisogna assolutamente insistere affinché il CEC federale sia presieduto a turno da: un russo un ucraino un georgiano ecc. assolutamente! Vostro Lenin Ma anche prima di quell'ultimo drammatico anno Lenin aveva ribadito la sua convinzione che non si dovesse imporre in nessuna maniera l'unione alle nazionalità non russe, e che ogni nuova repubblica sovie­tica (di cui si auspicava la moltiplicazione, indipendentemente dall'appartenenza originaria all'impero russo o ad altri Stati) dovesse avere il suo esercito e la sua politica autonoma.

Lo aveva scritto molte volte nel 1917, bollando l'ipocrisia dei Kerenski che parlavano dell'Algeria o dell'Irlanda senza parlare dell'Algeria russa o dell'Irlanda russa, come chiamava l'Ucraina, l'Armenia, la Finlandia, il Turkestan (che in decine di scritti, non solo contingenti o polemici, definisce “colonie” dell'impero russo). Sull'Ucraina ritorna più volte: La democrazia rivoluzionaria della Russia, se vuol essere veramente rivoluzionaria, se vuol essere una vera democrazia, deve rompere con questo passato, deve riconqui­stare a se stessa, agli operai e ai contadini della Russia, la fiducia fraterna degli operai e dei contadini dell'Ucraina. E non può farlo senza riconoscere pienamente i diritti dell'Ucraina, compreso il diritto alla libera separazione. Non siamo fautori dei piccoli stati. Siamo per l'unione più stretta degli operai di tutti i paesi contro i capitalisti, i “propri” e quelli di tutti i paesi in generale. Ma proprio perché quest'unione sia volontaria, l'operaio russo, non fidandosi per niente e neppure per un momento né della borghesia russa, né della bor­ghesia ucraina, è ora favorevole al diritto di separazione degli ucraini, non im­pone loro la sua amicizia, ma la conquista trattandoli come eguali, come alleati e fratelli nella lotta per il socialismo. A chi obiettasse che, essendo uno scritto del giugno 1917, potrebbe trattarsi di “tattica”, si può rispondere in primo luogo che per i marxisti rivoluzionari come Lenin non era neppure concepibile quella “tattica” divergente dalla strategia e indipendente o contrapposta ai principi che diverrà invece pratica corrente nel periodo staliniano e che rimane ancor oggi nel senso comune di vecchie e “nuove” sinistre anche nel nostro paese. Ma ancor più significativa è la lettera inviata a Orgionikidze il 2 marzo 1921, dopo la conquista del potere da parte dei comunisti georgiani. La riproduciamo pertanto integralmente. Orgionikidze. Baku 2-III-1921 Trasmettete ai comunisti georgiani e particolarmente a tutti i membri del Comitato rivoluzionario georgiano il mio caloroso saluto alla Georgia sovietica. Vi prego particolarmente di farmi sapere se vi è tra noi e loro un accordo completo su questi tre problemi: Primo: bisogna armare immediatamente gli operai e i contadini poveri, per creare un forte esercito rosso georgiano. Secondo: è necessaria una particolare politica di concessioni verso gli intellettuali e i piccoli commercianti georgiani. Bisogna capire che non soltanto non conviene nazionalizzarli ma bisogna anche sopportare determinati sacrifici pur di migliorare la loro situazione e di lasciar svolgere loro il loro piccolo commercio. Terzo: è infinitamente importante cercare un compromesso accettabile per fare blocco con Giordania o con i menscevichi georgiani come lui, che prima ancora dell'insurrezione non erano del tutto contrari all'idea di un regime sovietico in Georgia a determinate condizioni. Vi prego di ricordare che le condizioni interne e internazionali della Georgia non esigono dai comunisti georgiani l'applicazione degli schemi russi, ma un'elaborazione abile e duttile di una tattica originale, basata su un atteggiamento più conciliante verso gli elementi piccolo-borghesi di ogni tipo. Attendo una risposta Lenin In quell’ultima angosciante battaglia contro l’involuzione dell’Unione sovietica Lenin chiede aiuto a Trotskij con una lettera che ha un tono affettuoso in lui insolito: Caro compagno Trotskij, vi pregherei molto di assumervi la difesa della questione georgiana al CC del partito. La cosa è ora sotto “inquisizione” di Stalin e Dzerginski, e non posso fidarmi della loro imparzialità. Tutt’altro. Se voi accettate di assumervene la difesa, potrei essere tranquillo. Se per qualche motivo non accettate, restituitemi tutto l’incartamento. Considererei ciò un segno del vostro rifiuto. Con i migliori saluti comunisti Lenin Dettato per telefono il 5 marzo 1923 Trotskij accettò l’incarico, che confermava la profonda sintonia creatasi negli ultimi anni, e che si era consolidata nella prima metà del dicembre 1922 sulla questione del monopolio del commercio estero, che Stalin proponeva di abolire. Anche in quell’occasione Lenin aveva confermato la sua totale fiducia in Trotskij, e aveva comunicato a Stalin che in caso di impedimento fisico la sua posizione sarebbe stata difesa da Trotskij, che “sosterrà le mie opinioni non peggio di me”. In quel caso Stalin preferì ritirare la sua proposta, che avrebbe dato via libera ai kulaki e agli imprenditori emersi con la NEP. Sulla questione georgiana Trotskij non condusse a fondo la battaglia. In quel periodo in cui la malattia di Lenin si aggravava (il 7 marzo ebbe un nuovo attacco del male e il 10 marzo era già paralizzato e aveva perso la possibilità di parlare), e ancor più nei mesi successivi, quando si scatenò la campagna di Stalin e dei suoi alleati che attribuivano a Trotskij “ambizioni bonapartiste” e gli rimproveravano il suo passato “non bolscevico” e perfino le sue origini ebraiche, rimase disgustato ma anche disorientato, e si ritirò spesso da Mosca in campagna per curare una misteriosa malattia, probabilmente di natura psicosomatica. Così, pur sostenendo le posizioni di Lenin, non diede battaglia per far pubblicare la Lettera al congresso, ed anzi accettò di smentirne l’esistenza quando una copia di essa fu pubblicata all’estero. Subito dopo la morte di Lenin la composizione del partito fu cambiata con la cosiddetta “Leva Lenin”, che contraddiceva un’altra indicazione di Lenin allargando anziché restringere il partito (ne abbiamo già parlato brevemente nella Dispensa n. 2). Tutto diveniva più difficile. Dunque Trotskij fu sospinto a battersi contro la burocrazia e Stalin, che ne era il portavoce e l’interprete, dapprima dallo stesso Lenin, poi da 46 dirigenti prestigiosi del partito, che il 15 ottobre del 1923 inviarono una lettera al CC del partito in cui esaminavano la situazione economica del paese e quella interna del partito, chiedendo la reintroduzione di una piena democrazia interna e la convocazione di una conferenza straordinaria. La libertà in seno al partito è praticamente scomparsa – affermava la dichiarazione – e l’opinione pubblica nel partito è soffocata. Il partito, le sue larghe masse, rinunciano di giorno in giorno a scegliere e a promuovere i membri dei comitati provinciali e del Comitato centrale del partito comunista russo. Allo stesso tempo, la gerarchia burocratica del partito continua a controllare un numero sempre maggiore di delegati a congressi e a conferenze, che stanno trasformandosi sempre più in vere assemblee esecutive di questa gerarchia. La dichiarazione dei 46 fu accusata di essere un “atto frazionistico”, attribuendone l’ispirazione a Trotskij che era tuttavia, come spesso in quel periodo, malato e non poté difendersi. Ma la risonanza dei nomi dei firmatari (tra essi Pjatakov, Preobraženskij, Antonov-Ovseenko, Smirnov, Muralov, ecc.) impose di accoglierne in parte le sollecitazioni, aprendo un dibattito sulle pagine della “Pravda” e poi annunciando il 5 dicembre 1923 l’apertura di un “Nuovo corso”. Ma il controllo dell’apparato da parte di Stalin permise di cominciare le vendette: Antonov-Ovseenko (che era stato l’organizzatore dell’assalto al Palazzo d’inverno il 7 novembre del 1917) fu rimosso dal suo posto di Commissario Politico dell’Armata Rossa, e il Comitato centrale dell’organizzazione dei giovani comunisti, il Komsomol, fu sciolto per sostituire con elementi nominati dall’alto la maggioranza schierata con gli oppositori. Il 15 dicembre Stalin polemizzava apertamente con Trotskij sulla “Pravda” e lo stesso giorno Zinov’ev lo attaccava ancor più duramente introducendo nel dibattito il termine “trotskismo”.
IL leader attaccato non poteva difendersi perché i medici gli avevano imposto di recarsi in convalescenza nel Caucaso, da cui inviava articoli, mentre il ruolo di coordinatore dell’opposizione era svolto da Preobraženskij. Quella prima opposizione del 1923 era una coalizione abbastanza eterogenea, che aveva dovuto trovare faticosamente una base d’accordo a scapito della chiarezza. Alcuni dei firmatari avevano espresso riserve su un punto o su un altro: la base comune era la lotta per la democrazia nel partito. Non era nata certo su basi ideologiche astratte, o su una contrapposizione personale a Stalin, che tra l’altro continuava ad essere sottovalutato e considerato solo un rozzo esecutore materiale di altri (allora Zinov’ev e Kamenev, poi Bucharin). Non era certo un’opposizione “trotskista”, come si dirà nella “storia ufficiale” che, da allora in poi, si scrive e si riscrive, cancellando nomi o spostandoli dall’elenco dei “leninisti” a quello dei “controrivoluzionari”. Sono le contraddizioni emerse nei primi anni di applicazione della NEP (Nuova politica economica) a provocare le differenziazioni. Il “gruppo dei 46” e poi l’Opposizione di sinistra denunciano la formazione, soprattutto nelle campagne, di uno strato privilegiato (i kulaki e i settori intermediari) che punta alla restaurazione del capitalismo e soffoca i contadini poveri. Di fronte a questo fenomeno, che rischia di annullare le conquiste della rivoluzione, Trotskij propone di aiutare i contadini poveri, potenziali alleati della classe operaia, ma troppo deboli per fornire alla popolazione urbana quel grano che i kulaki tengono nascosto per fare alzare i prezzi, o che trasformano in vodka per realizzare un maggior profitto. La sua proposta, fin dal 1923, è quella di sviluppare un’industria finalizzata ai bisogni dei contadini medi e poveri, in particolare la produzione di trattori e altri strumenti agricoli da concedere alle cooperative, per invogliare con un incentivo materiale i contadini a entrare in esse vincendo il tradizionale individualismo. Cento contadini con appezzamenti di un ettaro coltivati con tecniche arretrate hanno un sovrapprodotto troppo piccolo, mentre associati in una cooperativa dotata di trattori e assistiti dallo Stato possono aumentare notevolmente la produzione complessiva, sfamando le città, colpite da carestie non inferiori a quelle del periodo precedente alla NEP. Grottescamente questa posizione viene presentata dalla frazione staliniana come “sottovalutazione dei contadini”, soprattutto quando Stalin si allea con Bucharin, che lancia la famosa parola d’ordine “arricchitevi!” rivolta ai contadini, sorvolando sul fatto che l’arricchimento è solo dello strato privilegiato dei kulaki ai danni dei contadini poveri e della stessa classe operaia. Negli scritti che Trotskij riesce a pubblicare sulla “Pravda” tra la fine del 1923 e il 1924 (poi diventerà sempre più difficile) e che sono stati raccolti in un volumetto sotto il titolo di Nuovo corso, egli si proponeva di dare maggiore organicità alla battaglia che gli oppositori avevano cominciato nel partito, evitando lo scontro aperto, diretto e personale. La ragione principale era il timore che l’inasprimento delle polemiche potesse portare a quella frattura netta e aperta nel gruppo dirigente che Lenin aveva temuto e che avrebbe indebolito ulteriormente quel partito di cui segnalava con allarme la fragilità. Tutto il contrario di quanto viene ripetuto abitualmente dai “nostalgici” dello stalinismo, dal russo Volkogonov all’italiano Canfora, che non osano difendere apertamente quel regime, ma da un lato ne minimizzano le colpe, dall’altro denigrano chi si era opposto all’involuzione burocratica, sostenendo che l’atteggiamento di Trotskij era “speculare” a quello di Stalin, e insinuando che se avesse vinto lui, avrebbe fatto di peggio. Tra gli scritti più interessanti contenuti nella raccolta, sono esemplari per la metodologia quelli sulla burocratizzazione, che riconducono ai processi oggettivi anziché a un “perfido disegno” di Stalin, e per l’analisi delle differenziazioni nel partito, che non esalta ma interpreta come un logico riflesso delle contraddizioni delle due classi che costituivano la base del potere sovietico, gli operai e i contadini, con il terzo incomodo della rinascente borghesia sviluppatasi con la NEP. Tuttavia Trotskij non è ancora arrivato a riflettere sulla pericolosità del partito unico, prodotto praticamente inevitabile della precarietà del potere sovietico durante la guerra civile, ma generatore di tensioni interne (nel partito unico si manifestano in qualche modo le contraddizioni della società) e soprattutto di un regime interno sempre più autoritario e conformista, anche perché sugli oppositori la minaccia di espulsione significa la morte civile, dato che è esclusa e considerata “controrivoluzionaria” la formazione o ricostituzione di altri partiti della classe operaia. Solo negli anni Trenta, dopo le catastrofi della collettivizzazione forzata, e della oggettiva corresponsabilità dell’Internazionale comunista stalinizzata, Trotskij arriverà a sostenere la necessità di una pluralità di partiti sovietici, in particolare nel suo libro La rivoluzione tradita che, nel 1936, registra i successi, ma anche le profonde contraddizioni del regime, individuando magistralmente le cause che lo porteranno al crollo. Importanti anche gli scritti sull’economia. Rispondendo all’accusa di una presunta “sottovalutazione dei contadini”, Trotskij ricordava di essere stato il primo a proporre, nel 1919 e poi in maniera più organica nel febbraio 1920, cioè più di un anno prima della NEP, le misure che saranno adottate nel X congresso del marzo 1921. “Forse la nostra politica contadina è stata sbagliata su qualche punto particolare: sta di fatto che non ha provocato tra noi nessuna divergenza. È con la mia attiva partecipazione che la nostra politica si è orientata verso il contadino medio. L’esperienza del lavoro del settore militare ha peraltro non poco contribuito alla realizzazione di questa politica: come si sarebbe potuto sottovalutare il ruolo e l’importanza dei contadini nella formazione di un esercito rivoluzionario reclutato tra i contadini e organizzato con l’aiuto degli operai avanzati? Sotto l’influenza delle sue osservazioni sullo stato d’animo dell’esercito e delle constatazioni fatte sulla situazione economica nella zona degli Urali appunto nel febbraio del 1920, Trotskij aveva scritto in un documento per il CC che l’attuale politica di requisizione dei prodotti alimentari, di responsabilità collettiva per la consegna di questi prodotti e di uguale ripartizione dei prodotti industriali provoca la progressiva decadenza dell’agricoltura, la dispersione del proletariato industriale, e minaccia di disorganizzare completamente la vita economica del paese. Come misura fondamentale egli aveva proposto di “sostituire la requisizione dei prodotti eccedenti con un prelevamento proporzionato alla quantità prodotta (una specie di imposta progressiva sul reddito) stabilito in modo che sia sempre vantaggioso aumentare la superficie di semina o coltivarla nel modo migliore” Cioè esattamente quello che farà la NEP. Allora il suo progetto fu respinto dal CC.

Cinque anni dopo, gli veniva rinfacciato il contrario, in base al principio “calunnia, calunnia, qualcosa rimarrà sempre”, tanto più se esiste una sproporzione nell’accesso alla stampa tra i calunniati e i calunniatori. E qualcosa è rimasto, visto che ancora oggi c’è chi continua ad attribuire a Trotskij la “sottovalutazione dei contadini”, o peggio ancora a sostenere che le sue proposte successive (invogliare con stimoli materiali i contadini poveri e medi a entrare in cooperative costituite su base volontaria) sarebbero state riprese da Stalin per la collettivizzazione forzata del 1929-1930, che provocò milioni di vittime. Una comparazione assurda, analoga a quella di chi mettesse sullo stesso piano un libero rapporto sessuale basato sull’amore e l’attrazione reciproca e uno stupro a mano armata. Un altro saggio affrontava il ruolo della pianificazione nell’economia, basandosi su documenti che attestavano la sua reale posizione negli anni precedenti, anche in quel caso per sfatare la leggenda di una sua vocazione autoritaria. Ma senza risultato. Anche questa calunnia ha continuato a circolare, come quella che gli attribuisce particolari efferatezze durante la repressione della rivolta di Kronštadt, continuando a ignorare il piccolo particolare che Trotskij non fu nemmeno presente a Kronštadt. Ma l’accusa, fatta circolare da Stalin, viene ripresa testardamente dagli anarchici e magari anche da chi ha giustificato ben altre repressioni, dal Grande Terrore degli anni Trenta in URSS a piazza Tien Anmen. Me la sono sentita riproporre in centinaia di dibattiti, a volte dalle stesse persone a cui avevo pazientemente spiegato come erano andate le cose. Calunnia, calunnia, qualcosa resterà… Le mutevoli alleanze di Stalin cambiano già nel 1925 il quadro. Kamenev e Zinov’ev, che lo avevano sostenuto e “coperto” nell’ultima fase della malattia di Lenin, e poi nella difficile fase immediatamente successiva, consentendogli di consolidare il suo potere, si accorgono angosciati di essere stati cinicamente usati, passano all’opposizione insieme alla vedova di Lenin (che aveva già protestato per il culto quasi religioso del dirigente scomparso, profondamente estraneo alla tradizione del movimento operaio). Si tratta di una svolta importante, anche se Stalin intimidirà Nadezda Krupskaja dicendole che se necessario avrebbe trovato un'altra “vedova”). Trotskij esiterà a unirsi a questi nuovi oppositori, che riprendevano molte delle sue analisi, ma avevano collaborato strettamente con Stalin: Kamenev subito dopo il febbraio 1917, quando la “Prava” aveva appoggiato il governo provvisorio, e Zinov’ev introducendo nell’Internazionale comunista la cosiddetta “bolscevizzazione”, che proiettava negli altri partiti comunisti i metodi burocratici affermatisi nel partito russo. Ma alla fine si arriverà a una non entusiastica collaborazione, facilitata dall’autocritica di Zinov’ev e Kamenev, che denunciarono pubblicamente l’esistenza della trojka, la “frazione segreta” creata da Stalin con la loro collaborazione per manipolare le decisioni del Politbjuro, il massimo organo di direzione del partito. Si arrivò così a stendere una “piattaforma politica” dell’Opposizione di sinistra unificata, che tentò di presentare le sue tesi al XV Congresso del partito del 1927, senza avere la possibilità di farla conoscere come di consuetudine sugli organi del partito. L’espulsione dei suoi principali esponenti venne anzi motivata con il pretesto di una “tipografia clandestina”, cioè un modesto ciclostile su cui avevano tentato di riprodurre le loro tesi. Pur avendo raccolto oltre 6.000 firme sul loro documento, gli oppositori ottennero ufficialmente solo 4.000 voti. In realtà, nel periodo gorbacioviano si scoprì negli archivi momentaneamente aperti che avevano ottenuto un risultato assai migliore, con decine di migliaia di voti nelle maggiori città. La diffidenza di Trotskij verso questi momentanei compagni di strada risultò fondata: essi capitolarono subito dopo il congresso davanti a Stalin, che li tenne in sospeso a lungo prima di riammetterli, senza incarichi, nel partito. Negli anni Trenta saranno ugualmente processati e condannati a morte con accuse infamanti. Moltissimi firmatari o semplici iscritti al partito colpevoli di avere votato per le tesi dell’Opposizione di sinistra pagheranno con la vita quel gesto. Uno di essi, l’italiano Dante Corneli, rifugiatosi nella Russia sovietica dopo aver ucciso in uno scontro uno squadrista fascista, sopravvisse, ma per quel voto passò ventisei anni della sua vita nel GULag o al confino, mentre in Italia era stato condannato per omicidio a venti anni nel 1923, quando già Mussolini era al potere! La “Piattaforma dell’Opposizione” si apriva con un riferimento all’ultimo discorso tenuto da Lenin in un congresso: Ecco che è passato un altro anno! [finché Lenin fu vivo, i congressi del partito – nonostante gli immensi impegni – si tenevano ogni anno, poi si diradarono: tra il XVIII e il XIX passarono ad esempio tredici anni, nonostante non ci fosse altro da fare che “approvare le decisioni già prese - NdA]. Lo Stato è nelle nostre mani, ma nel settore dell’economia politica nulla quest’anno è proceduto secondo la nostra volontà. […] Ma come mai la macchina ha funzionato così? La macchina gira non nella direzione nella quale noi la dirigiamo, ma nella direzione in cui qualcuno la dirige. Questo qualcuno sono forse gli illegali, gli irresponsabili, la gente venuta dio sa da dove: gli speculatori, i piccoli proprietari capitalisti. […] La macchina gira del tutto diversamente, soprattutto diversamente da come chi è al volante immagina”. Il testo analizzava poi le continue giravolte del gruppo dirigente: “Si deforma Lenin, lo si corregge, lo si interpreta a seconda delle circostanze per coprire gli errori che si susseguono”. In quel momento si sottolineava soprattutto la crescita di un ceto politico capitalistico e si paventava un suo successo politico.

Una “sopravvalutazione” del pericolo, dicono gli sciocchi preoccupati di ridicolizzare le voci di chi ha colto tanto prima di loro la dinamica involutiva. In realtà si trattava di un allarme più che giustificato, e fatto in un tempo in cui si poteva ancora ricorrere a misure politiche ed economiche, che venivano chiaramente indicate. Quando Stalin riuscì a capire la dimensione che stava assumendo l’economia controllata dai kulaki, alla fine del 1928, non seppe fare altro che deportarli e sterminarli in massa, basandosi sulla forza bruta. Se ritenne “necessario” massacrare milioni di contadini (kulaki, ma anche contadini medi e piccoli che recalcitravano di fronte alla collettivizzazione forzata che li privava delle conquiste della rivoluzione e li trasformava di fatto in servi della gleba, obbligandoli a lavorare per poco o niente e vincolandoli al kholkhoz in cui risiedevano con la reintroduzione del “passaporto interno”) evidentemente aveva capito, sia pure con un ritardo imperdonabile, che il pericolo esisteva realmente, ed era corso ai ripari nell’unico modo che concepiva. Chi sosteneva (qualcuno lo sostiene ancora oggi) che l’Opposizione di sinistra disprezzava i contadini prescindeva dalle analisi contenute nella “Piattaforma” e in altri documenti precedenti, che denunciavano la “crisi delle forbici”, cioè il divario tra i prezzi dei prodotti agricoli e quelli dei prodotti industriali: i contadini ricevevano non più del 125% dei prezzi di prima della guerra, mentre per i prodotti industriali l’aumento era stato del 220%, sicché il surplus prelevato dai contadini era aumentato enormemente, provocando non solo contraddizioni tra l’economia industriale e quella agricola, ma anche ulteriori differenziazioni nelle campagne, a beneficio di kulaki e intermediari. Le soluzioni indicate erano complesse, e riguardavano sia la politica dei prezzi, sia l’appoggio alla cooperazione a cui abbiamo già accennato. D’altra parte la gestione burocratica dell’economia provocava un netto peggioramento della stessa condizione operaia, con un restringimento dei salari reali, e l’apparizione di fenomeni di disoccupazione, una restrizione delle garanzie giuridiche a tutela dei lavoratori, l’aumento degli incidenti sul lavoro e della nocività ambientale. Anche le condizioni abitative erano nettamente peggiorate per i lavoratori: le stesse statistiche sovietiche (che tuttavia dalla metà degli anni Venti cominciano già ad essere “aggiustate” e manipolate a scopo propagandistico, fino a non rispecchiare più minimamente la situazione reale, come avverrà negli ultimi decenni prima del “crollo”) descrivevano la seguente situazione nelle città dell’URSS: agli operai spettavano da 5 a 6 metri quadrati, agli impiegati da 6 a 9, mentre gli artigiani ne avevano 7,6, i liberi professionisti 10,9, gli “elementi che non lavorano” 7,1 metri quadrati. La condizione abitativa della burocrazia alta e media, che nelle statistiche non figurava, era assai superiore, perché incominciava l’uso di assegnare, a seconda del posto occupato nella nomenklatura, non solo appartamenti spaziosi ma anche dacie vicine alla città e nei luoghi di villeggiatura marina o montana, a volte di centinaia di metri quadrati. L’ultimo segretario generale del PCUS, Gorbaciov, al momento del golpe dell’agosto 1991 si trovava nella quinta casa di villeggiatura, che si era fatto appena costruire sulle sponde del Mar Nero. Il documento analizzava poi lo stato dei soviet, denunciandone la trasformazione in organismi burocratici lontanissimi dall’indicazione data da Lenin alla vigilia dell’Ottobre in Stato e rivoluzione. Lenin […], basandosi sull’analisi della Comune di Parigi fatta da Marx, sosteneva con forza l’idea che in uno Stato socialista le persone che occupano cariche pubbliche cesseranno di essere dei “burocrati”, dei “funzionari”, nella misura in cui si introdurrà, oltre l’eleggibilità, la possibilità di sostituzione in qualsiasi momento; nella misura in cui il loro salario si abbasserà al livello medio degli operai; nella misura in cui le istituzioni parlamentari saranno sostituite da istituzioni che decretano le leggi e nello stesso tempo le applicano. La questione della revocabilità era strettamente legata al principio della retribuzione pari al salario medio degli operai, dal momento che anche un dirigente di origine proletaria o contadina, una volta ottenuto uno stipendio di 10 o 20 volte superiore a quello della categoria di provenienza, tende a non staccarsi più dalla poltrona occupata e considera una sciagura il ritorno in produzione. Lo vediamo ancor oggi nei partiti operai, compreso il PRC che, pure, trattiene una parte delle laute retribuzioni assegnate ai parlamentari, ai consiglieri regionali e provinciali, e perfino agli assessori comunali: è difficilissimo sostituire chi ha conquistato un posto ben pagato, e quindi ha paura di assumere una posizione “controcorrente” che può mettere in forse il mantenimento di una posizione così ben compensata. Un capitolo importante della “Piattaforma” era dedicato alla questione nazionale. In esso si ribadivano le concezioni di Lenin e si chiedeva, tardivamente e quindi vanamente, la pubblicazione delle lettere di Lenin al XIII Congresso, che tutti i principali firmatari (oltre ai tre già nominati, anche Pjatakov, Preobraženskij, Radek, Smilga, Bakaev, Endokimov, Muralov, Joffe, Sokolnikov, Rakovskij, Krestinskij, Antonov-Ovseenko) avevano a suo tempo accettato di mantenere segrete. Questo capitolo ribadiva comunque le concezioni di Lenin e ammoniva contro il rischio che lo sciovinismo “grande-russo” generasse per reazione una ripresa di nazionalismi virulenti tra le nazioni oppresse. Una parte molto ampia era dedicata alle questioni internazionali, in particolare alla tragica vicenda del partito comunista cinese, sospinto dalle direttive di Stalin e del suo alleato Bucharin a entrare nel Kuomintang, il principale partito borghese della Cina, che aveva approfittato dell’appoggio dell’Internazionale comunista per sferrare un attacco sanguinoso; per oltre due decenni il PCC sarebbe stato costretto ad abbandonare le grandi città industriali in cui era sorto e aveva la sua base principale, per rifugiarsi in zone agricole lontane e inospitali.

Peraltro l’Opposizione di sinistra sottolineava che permanevano le condizioni per una ripresa su nuove basi della rivoluzione cinese: ma sarebbero stati necessari due decenni terribili, e diverse decine di milioni di morti. Altri capitoli affrontavano lucidamente varie questioni, tra cui quella della ripresa dell’alcolismo (e della scandalosa instaurazione di un monopolio statale della vodka, per cui rimandiamo a un’apposita scheda), il funzionamento dell’esercito e della marina, i problemi del partito (che aveva perso in 18 mesi oltre 100.000 operai di fabbrica, sostituiti da membri dell’apparato statale), quelli dei giovani comunisti (che registravano anch’essi una diminuzione della presenza operaia, e un netto aumento dei contadini medi – passati dal 20% del 1925 al 32,5% nel 1927 – a scapito di quelli poveri). Sulla questione del partito, oltre ad analizzare il progressivo abbassamento del livello politico e della partecipazione attiva degli iscritti, il documento faceva un accenno che rivelava l’inizio di una discussione – certo non conclusa – sul “partito unico”: Il fatto che il PC dell’URSS sia l’unico partito, cosa assolutamente necessaria alla rivoluzione, comporta anche un certo numero di pericoli. l’XI congresso, al tempo di Lenin, indicava apertamente che in quel momento c’erano già importanti gruppi (tra i contadini ricchi, tra gli strati più elevati dei funzionari, tra gli intellettuali) che avrebbero aderito ai socialisti-rivoluzionari e ai menscevichi, se questi partiti fossero stati legali. Naturalmente, in quel clima in cui la maggioranza staliniana non esitava a ricorrere alla violenza fisica per impedire all’Opposizione di esporre le sue idee nelle assemblee, presentando quei rivoluzionari come “scissionisti” e “frazionisti”, il documento ribadiva solennemente che essi non avevano nessuna intenzione di costruire un “secondo partito”, ma volevano solo “la rettifica della linea del PC dell’URSS”. Sarà Trotskij, con quelli che non cedettero a Stalin e insieme a lui rimasero fedeli alle concezioni marxiste rivoluzionarie, a riprendere la riflessione, ad arrivare alla conclusione della irriformabilità del partito e dell’Internazionale comunista, e a sostenere quindi la legittimità di diversi partiti sovietici.

E forse questa conclusione ha contribuito all’odio verso di lui dei burocrati di tutto il mondo, che hanno progressivamente rinunciato a tutte le concezioni comuniste, ma non al dogma della inevitabilità del partito unico, in URSS e dovunque i comunisti erano arrivati al potere. Appendice A Con Dario Fo alla riscoperta di Majakovskij ... e dell'URSS degli anni Venti Un contributo alla datazione dell'involuzione dell'URSS È una piacevole sorpresa trovare in libreria, in veste gradevole e a prezzo modesto, un libro stimolante come quello propostoci da Dario Fo che “seleziona e condivide” i “messaggi ai posteri” di Majakovskij. Tra l'altro introduce una piccola speranza in una possibile inversione di rotta degli Editori Riuniti, rispetto alla spoliticizzazione e agli alti prezzi degli ultimi anni. Dario Fo ovviamente ripercorre le tappe del suo incontro con un poeta, pittore, guitto a cui evidentemente deve molto: “non posso dire che Majakovskij sia stato per me un maestro, un vate, ma sicuramente un compagno di viaggio, un sollecitatore di idee che hanno poi attraversato la mia opera”, scrive. È proprio questa affinità che ha consentito una scelta così efficace in meno di duecento pagine. Così, accanto alle liriche “di entusiasmo rivoluzionario, di convinta partecipazione agli eventi” e al tempo stesso cariche di rabbia e aggressività, e soprattutto “mai banalmente trionfalistiche o didascaliche”, Dario Fo ha scelto un forte nucleo di poesie antiburocratiche, all'interno delle quali giustamente colloca il bellissimo poema Vladimir Ilic Lenin. Accanto al piacere della riscoperta (ma sicuramente per moltissimi giovani oggi in realtà si tratta di un primo incontro con questo grande e inquietante poeta), questa selezione offre anche spunti per qualche riflessione sull'URSS, sulla sua storia, e sul delicatissimo problema della datazione della sua involuzione. Ciò è tanto più importante in un momento in cui anche nel nostro partito, il PRC, - nel quadro di una corsa alla celebrazione acritica e all'accaparramento di Berlinguer - viene riproposto e a volte tra le righe condiviso il famoso giudizio sull'"esaurimento della spinta propulsiva dell'Ottobre", che era due volte sbagliato, sia per la straordinaria e permanente attualità della più grande rivoluzione della storia umana, sia per la implicita postdatazione dei fenomeni involutivi, che venivano fatti coincidere banalmente con la tardiva e parziale presa di coscienza iniziata nel PCI appena alla metà degli anni Sessanta, con decenni di ritardo, persino rispetto alle prime clamorose manifestazioni dei sintomi della crisi (dalla rivolta operaia di Berlino Est nel giugno 1953 a quella di Poznan e alla rivoluzione dei consigli operai di Budapest del 1956, assurdamente bollate per lungo tempo come "controrivoluzioni fasciste"). Ma seguiamo dunque Dario Fo e Majakovskij: Una porta. Sulla porta "Non si entra senza essere annunciati". Sotto Marx, impoltronato in una poltrona, siede lungo e liscio, con un alto stipendio, l'investito responsabile. Su di lui sta un regalo di contrabbando, un gilet: in una tasca, una penna di sentinella; nell'altra sporge l'angolino di una tessera con una lunghissima, revisionata anzianità. La giornata tutta è una continua fatica per la mente. Sulla fronte, un pensiero impenetrabile: presso chi dovrà sistemare la comare, presso chi impiegherà il compare?.

Chi ha conosciuto bene l'Unione Sovietica negli ultimi anni non fatica a riconoscere uno dei tanti ipocriti burocrati che si trinceravano dietro un ritratto di Marx o di Lenin, e che hanno recitato giaculatorie "marxiste-leniniste" fino al giorno in cui sono passati fulmineamente a Eltsin e all'apologia di un libero mercato che non esiste ma copre i loro loschi traffici con le joint-ventures. Si tratta tuttavia di una poesia del 1926: questo spiega alcuni particolari che potrebbero oggi apparire secondari o incomprensibili, come il gilet di contrabbando (negli ultimi decenni i contrabbandi della "nomenklatura" riguardavano beni ben più sostanziosi, ma allora, negli anni della fame e delle privazioni, era già uno schiaffo terribile all'etica proletaria), o la tessera “con una lunghissima, revisionata anzianità”, che alludeva alla miriade di funzionari che avevano aderito alla rivoluzione solo dopo la fine della guerra civile e si erano ricostruiti un passato impeccabile (caso emblematico quello del grande accusatore staliniano, Andrej Vyscinskij, che durante la guerra civile era stato menscevico e ostile alla rivoluzione, e che negli anni Trenta mandò al patibolo gran parte del comitato centrale bolscevico). Majakovskij è implacabile nello sferzare questo tipo di burocrate: Da per tutto ha sistemato gentarella, da per tutto ha infilato un battistrada. Sa bene a chi dare lo sgambetto dove avere una maniglia. Ognuno è sistemato: la fidanzata nel trust, il compare al Gum, il fratello al Narkomat. [...] Lui alla parola ha tolto ogni traslato. Ha inteso alla lettera "fratellanza dei popoli" come felicità di fratelli, di zie e di sorelle. Questa poesia non è l'unica né tantomeno la prima a sferzare i costumi dei "comunisti": Lenin, che non amava la poesia di Majakovskij e in genere dei futuristi, fece in tempo ad apprezzare alcune delle sue denunce dei costumi burocratici. Ecco come ne parlava, ad esempio, in un discorso del 6 marzo 1922 ai comunisti presenti nel congresso dei metallurgici russi: Ieri ho letto per caso nelle Izvestia una poesia di Majakovski su un tema politico. Non sono un ammiratore del suo talento poetico, pur riconoscendo la mia totale incompetenza in questo campo. Ma da molto tempo non provavo un piacere così grande dal punto di vista politico ed amministrativo. Nella sua poesia Majakovskj prende in giro le riunioni, e i comunisti che non fanno altro che riunioni e ancora riunioni. Non so quanto valga la poesia, ma per quanto riguarda la politica vi posso assicurare che si tratta della pura verità. Majakovskij descriveva minuziosamente le pratiche abituali già allora negli uffici "sovietici", come le intimidazioni al postulante ("Mancano i dati") finché il malcapitato capiva e depositava sul tavolo un pacchetto "di nuovi dati", cioè di banconote, sbloccando la pratica. Descriveva le macchine, le cene del burocrate con l'amante nei ristoranti di lusso, tracannando buon vino e dispensandole regali (dai profumi alle mutandine), che erano introvabili in quegli anni per una donna sovietica non inserita nel giro della corruzione. A uno così, l'incendio dell'Ottobre gli fa da paravento mentre ruba migliaia di rubli operai. È venuto da noi per dilapidare nelle bettole la miseria sovietica. E Majakovskij dichiara con sdegno che potrà forse un giorno dare la mano perfino a un "bianco", limitandosi a ricordargli “la suonata / che vi hanno dato i nostri”, che non bisogna chiedere castighi per chi ha rubato pane, che si può anche perdonare a un assassino, ma nessuna pietà ci deve essere “per coloro che si sono appiccicati / alle nostre / file, / e quelli / che ai soldi / si sono appiccicati”: Ma se colui che ha rubato questo rublo col palmo toccherà il palmo della mia mano, io, prima la laverò, e poi mi raschierò con la pomice la pelle insozzata. Noi ai bianchi siamo riusciti a malapena a spezzare le corna, ci zoppica per ora una gamba, ma per noi, affamati e rattoppati, più pauroso e abietto di qualsiasi nemico è il concussionario! In un'altra poesia dello stesso anno, Fabbrica di burocrati, Majakovskij descrive un altro personaggio tipico: Lo hanno mandato per realizzare il regime. Di medie capacità. Di media età. Nella mente, i piani. nel cuore, la decisione. Nella tasca, la penna e la tessera del partito. Va su e giù, ordina con gesti energici. Si vede subito: un'era nuova comincia! Accanto a lui una segretaria che “anche se bruciate / più ardenti del sole, / sistemerà / tutto quest'ardore nelle comunicazioni, / in un questionario, / e in una circolare”. Majakovskij protesta: Con disgusto vanno accolte le scartoffie. Ma appena te ne lasci sedurre, passa un giorno e già hai la testa intalmudata in cartacee assurdità. [...] L'ardore se n'è andato in inchiostro senza traccia. Il presidente s'è attaccato alla carta come una zecca... Cos'è l'ambiente! Proprio una cosa infame! Guardavo, la faccia più bianca del gesso, attraverso le burocratiche tenebre. Colava il sudore, strideva la penna, la mano era sfinita e di nuovo s'affaticava, ma senza fine come una mole bianca cresceva la montagna di scartoffie. Il risultato è che “i deboli gemiti / della coscienza / di partito / il carico da evadere / soffoca / di giorno in giorno”. E il burocrate, “inondato tutto il paese / di inutili cartacce, / depone / la pancia / nella macchina, / ed eccolo / che verso la villa /corre tutto tronfio”. Non è solo un'indignazione per uno stile insopportabile, a spingere il poeta a rifiutare “i resoconti” che “crescono nelle cantine”, sollevando “ettolitri di inchiostro”. C'è una percezione di un pericolo ben più grave: Uno stuolo di funzionari da una settimana all'altra annulla il tuono e l'opera dell'Ottobre, e a molti perfino spuntano di dietro i bottoni di prima del febbraio, con tanto d'aquila. La conclusione, dopo questa inquietante osservazione sulla ricomparsa della vecchia mentalità simboleggiata dal metaforico rispuntare dei bottoni delle divise dell'epoca zarista “con tanto d'aquila”, è che “da ciascuno, / con un certo talento, / può venir fuori / un burocrate”, e che quindi il comunista, che “non è un uccello / e non ha bisogno di fornirsi / d'una coda di carta”, deve afferrare il funzionario “per la collottola / dalle scartoffie, / spedite a dritta e a manca, / perché [...] / non gli appannino / alla vista / il comunismo”. Majakovskij presenta un vasto campionario dei meschini tipi umani che si affacciavano trionfanti sulla scena della Russia degli anni Venti.

Ci sono i piccolo borghesi che ostentano il ritratto di Karl Marx accanto alla gabbia dei canarini, i maestri delle raccomandazioni a catena agli "amici degli amici", i professionisti dell'autocritica a scopo tattico che non sopportano le critiche vere dal basso, soprattutto se vengono dal "brontolare del giornale murale", e raccomandano ai sottoposti: Scrivete le vostre osservazioni e inoltratele per via gerarchica [...] purché il critico non sia inferiore al diciassettesimo grado. È un testo del 1928, in cui l'amarezza, lo sdegno e la disperazione si sono raddoppiati, come si intende bene dall'appello finale: E mentre i capi infilzano chiacchiere democratiche, in mezzo a noi vivono i devoti del silenzio: le pecore della classe operaia. Ma intanto che taciamo da schiavi, le orde degli ex bianchi si rafforzano: infuriano, violentano e rapinano, e agli indocili ammaccano il muso. La pelle / dei silenziosi ha una struttura astuta: gli sputi sul naso, e loro si puliscono: "Sul grugno mica ha fatto rumore, perché dovremmo lamentarci? Non vogliamo dire addio al nostro stipendiuccio." Ribolliranno mezz'ora in un cantuccio, poi di nuovo cominceranno a tremare. Ehi, svegliatevi, voi che dormite! Smaschera da cima a piedi. Compagno, non devi tacere! Dario Fo ha scelto dalla vastissima produzione antiburocratica di Majakovskij altri testi significativi: ad esempio, Il vigliacco descrive coloro che “nascondendo gli sguardi, / i loro gusti [...] / strisciano [...] / in un paese / glorioso / per gente ardita”: Ogni capo per essi è un alto papavero. [...] Con le orecchie lunghe un metro - meno no, assolutamente - va dietro al principale, perché, ascoltate le sue opinioni, domani possa ripetergliele. Ma, se il superiore le cambia, lui fa proprio il parere del capo. [...] Il vile si copre di carte come d'una scorza. Il leccapiedi, che “si scalda / al sole / d'una tenera autorità” e la cui vita “fila in ordine”, appare ugualmente non solo un ripugnante tipo umano, ma un segno di un degrado che comincia ad apparire e risulterà irreversibile: Il suo tesoro è il suo talento, la soave capacità di trattare. Lecca il piede, la mano, lecca alla cintola, più in basso, come un cucciolo lecca la cagna, come il micino lecca la gatta.
E la lingua per trenta metri gli striscia fuori quando vuol raggiungere l'autorità, tutta insaponata che può perfino radere senza usare il pennello. [...] Anche a lui sono toccati i gradi, per il suo sapersi allineare. E in qualche posto sono state affidate a quanto pare, le redini del potere. Una volta che la briglia è già in mano, si portano tutti a fare i leccapiedi, si grida, spruzzando saliva, "Rispettate, bisogna rispettare l'autorità". Noi guardiamo, gemendo sconfortati, come cresce dai loro fratelli l'arcigerarchia delle gerarchie a scherno della democrazia. Poesie come queste, o opere teatrali come Il bagno, valsero a Majakovskij l'odio imperituro dei burocrati, che gli assicurò amarezze crescenti nell'ultima fase tristissima della sua vita, e poi il duplice oltraggio postumo: prima il comunicato ufficiale che spiegava che il suo suicidio non aveva “nulla in comune con l'attività sociale letteraria del poeta”, poi, dopo qualche anno di silenzio, il suo recupero come “il migliore e più geniale poeta dell'epoca”. La definizione era di Stalin, che non aveva mai sopportato il poeta vivo, ma pensava che fosse utilizzabile da morto. Il risultato fu che “si incominciò a introdurre Majakovskij in modo forzato, come le patate al tempo di Caterina”, come scrisse Boris Pasternak. Il suo suicidio non fu il solo di quegli anni. Paradossalmente, in una delle sue più belle poesie scelte da Dario Fo, Majakovskij aveva rimproverato affettuosamente Esenin per la sua morte, avvenuta alla fine del 1925, pur raccogliendo e parafrasando l'estremo messaggio del poeta, scritto col sangue sulle pareti dell'hotel Angleterre di Leningrado: “Non è nuovo morire in questa vita / ma più nuovo non è di certo vivere”. Dell'addio a Esenin riportiamo l'inquietante conclusione: La canaglia Finora s'è diradata poco. Molto è il lavoro, e occorre fare in tempo. Per prima cosa Bisogna rifare la vita, una volta rifatta, si potrà esaltarla. È un'epoca questa piuttosto difficile per la penna. [...] Per l'allegria è poco attrezzato il nostro pianeta. Bisogna Strappare la gioia ai giorni venturi. In questa vita non è difficile morire. Vivere è di gran lunga più difficile. La testimonianza di Majakovskij sulla sua epoca è tanto più preziosa in quanto viene dal più appassionato cantore della rivoluzione, ma è confermata da moltissime altre opere letterarie che in modo diverso hanno espresso l'inquietudine per quello che stava accadendo nella Russia postrivoluzionaria. Pensiamo ad esempio all'inquietante prefigurazione di Noi, il quasi dimenticato romanzo distopico di Zamjatin a cui attinsero a piene mani tanto l'Orwell di 1984 che l'Huxley di Un mondo felice. Pensiamo a Cuore di cane e soprattutto a Le uova fatali di Bulgakov, anch'esse opere scritte nei primissimi anni Venti, e che sembrano prefigurare quell'uso distorto della scienza da parte di una grossolana e cieca burocrazia che ha seminato di catastrofi ecologiche l'URSS staliniana e quella degli epigoni (più che a Cernobyl pensiamo alla desertificazione del Mar d'Aral, finalizzata all'introduzione della monocultura a cotone nell'Uzbekistan, che ha provocato a sua volta la distruzione di una delle più floride agricolture dell'Asia). Ci sembra assurdo che tante voci prefiguranti, che tante testimonianze alte e disinteressate siano state ignorate per decenni. Eppure è così. E non è solo frutto di involontaria ignoranza, di una semplice e passiva mancanza di sapere: c'è al contrario in molti casi un non voler sapere, un rifiuto di fare i conti con tutto quello che non è comprensibile con i poveri schemi propagandistici che per decenni sono stati spacciati per "marxismo-leninismo". Mi sono scontrato recentemente con una incredibile volontà censoria di un editore "di sinistra", che ha tentato di espungere da un testo su Guevara regolarmente commissionato la maggior parte dei riferimenti alle intuizioni che il Che aveva avuto su limiti e contraddizioni del sistema sovietico, a partire dalla sua applicazione a Cuba, e che alla fine ha ugualmente mutilato il testo di alcune parti importanti (come le testimonianze dei consiglieri sovietici e cecoslovacchi), tentando di salvaguardare con la censura i suoi pregiudizi (conservo a futura memoria i fax con l'intera inequivocabile serie di proposte di tagli di intere pagine e perfino di frasi all'interno di una citazione). C'è dunque chi rimane sconvolto dalla scoperta che un giovane autodidatta come Guevara, sia pur a partire da un punto di osservazione privilegiato all'interno del sistema, avesse potuto cogliere i sintomi della crisi del "socialismo reale" fin dai primi anni Sessanta. È ovvio che questi atteggiamenti (e pensiamo non solo a quell'editore, ma a non pochi intellettuali che sono assai popolari nella "base" del PRC, probabilmente perché forniscono semplicistiche conferme alle vecchie e infondate certezze che l'esperienza storica avrebbe dovuto spazzare via) si spiegano solo col rifiuto di confrontarsi con l'imponente documentazione sull'involuzione burocratica del sistema staliniano fornite sia da storici rigorosi, sia da una vastissima memorialistica, sia da quelle testimonianze indirette dei più vivaci e sensibili scrittori sovietici. Inutile dire che chi ha voluto accecarsi fino al crollo del 1989- 1991, o che anche dopo ha finito per aggrapparsi a spiegazioni irrazionali sui "complotti" o i "tradimenti" di questo o quel dirigente, o a infondate illusioni riposte nei partiti "socialisti" sorti in Lituania, Polonia, Ungheria, ecc. da spezzoni dei vecchi partiti "comunisti" (a cui si attribuiscono i propri desideri e non le concezioni moderatamente liberiste, ma comunque filocapitalistiche, a cui quegli epigoni realmente si rifanno), ovviamente non si è mai degnato di esaminare laicamente la storia del lungo declino dell'URSS, e meno che mai di confrontarsi con le pagine veramente profetiche de La rivoluzione tradita, preferendo ripetere nei confronti di Trotskij le vecchie calunnie staliniane o le banalità mutuate reciprocamente dall'eurocomuni­smo e dalla "nuova sinistra". Ma di quelle pagine, non meno che della testimonianza di Guevara, e di quelle di Majakovskij e degli altri scrittori sovietici che hanno impegnato la loro vita per la rivoluzione e che sono stati schiantati dalla sua involuzione, hanno bisogno le giovani generazioni, che non potranno ricostruire e rifondare il comunismo, la sinistra, il movimento operaio, senza una comprensione materialistica dei processi involutivi che l'hanno portato alla lunga serie di sconfitte e di fallimenti da cui dobbiamo faticosamente ripartire. 11 giugno 1994 Appendice B Trotskij, e il trotskismo Che vuol dire “trotskista”? Se lo chiedeva anche Guevara, sentendo che i burocrati sovietici (e quelli cubani filosovietici) gli davano del “trotskista” per i suoi ultimi discorsi in cui criticava lo scarso impegno dei “paesi socialisti” in difesa del Vietnam, e anche la sostanziale complicità con l’imperialismo sul terreno dello scambio ineguale tra macchinari sovrapagati e materie prime sottopagate. E negli ultimi anni della sua vita cominciò a leggere e studiare Trotskij, per capire le ragioni delle tante scelte dell’URSS che egli non condivideva. Ne abbiamo finalmente prove più consistenti dei pochi accenni contenuti in qualche lettera e nelle testimonianze dei collaboratori, dato che sono stati trovati e pubblicati i suoi quaderni di studio in Bolivia, pieni di citazioni di Trotskij, appunto.

A quanto pare, è una vecchia abitudine liquidare come “trotskista” chi dice cose scomode. Vedremo perché e quando è cominciato, ma intanto sappiamo che almeno uno di quelli accusati di questa misteriosa “colpa”, Ernesto Che Guevara, è uno dei rivoluzionari al di sopra di ogni sospetto, e anzi un punto di riferimento permanente e sempre più attuale per chi vuole cambiare il mondo e non adattarvisi, ridipingendolo un po’ di rosa. Giustamente Fausto Bertinotti, ha replicato a Cossutta che quando si tira fuori lo spauracchio del trotskismo, vuol dire che c’è ancora nostalgia dello stalinismo. Trotskij non era “trotskista” Il termine “trotskismo” non è mai stato usato da Leone Trotskij, né più né meno come vivo Lenin nessuno (tranne i suoi nemici) parlava di “leninismo”: il termine marxismo-leninismo è stato coniato dopo la sua morte da Stalin, che ha trasformato il pensiero vivo, e quindi a volte contraddittorio, dei due grandi rivoluzionari in un sistema dogmatico rigido, che aveva bisogno poi di un sommo sacerdote per proporre l’interpretazione “corretta”. Anche Marx disse che non era marxista. Il termine tuttavia fu usato da Lenin in polemica con Trotskij negli anni tra il 1903 e il 1917, quando Trotskij fu, come e insieme a Rosa Luxemburg, un critico severo della concezione del partito proposta da Lenin. A sua volta Lenin era stato durissimo, come era consuetudine nelle polemiche interne al movimento operaio, con l’uno e con l’altra, e in particolare con il “trotskismo”. I falsari staliniani hanno usato quelle polemiche, staccandole dal contesto e assolutizzandole. Quello che è assurdo è che anche nella stessa nuova sinistra di derivazione maoista si è ripresa – in perfetta malafede - la stessa forzatura, sorvolando su un piccolo particolare: Trotskij e Rosa Luxemburg polemizzavano allora contro il pericolo di una eccessiva centralizzazione del partito, anzi contro una possibile sostituzione del partito alle masse e del Comitato centrale al partito, ma in forma diversa hanno ammesso entrambi di essersi sbagliati. Rosa non ha potuto farlo in un lavoro organico, perché non ha fatto in tempo, ma ha reso onore dal carcere alla lungimiranza di Lenin e del partito bolscevico nel suo scritto, per altri aspetti critico, sulla Rivoluzione russa. Trotskij lo ha detto più ampiamente e fin dalla primavera del 1917 si ricongiunge ai bolscevichi diventando “il migliore dei bolscevichi”, e difendendo fino all’ultimo giorno della sua vita la concezione del partito di Lenin. La maggior parte della stessa “nuova sinistra” nata dopo il ’68 ha presto buttato alle ortiche Lenin, non solo sul partito, e riprende a volte (forzandole) le critiche di Rosa. Su Trotskij silenzio. Eppure diceva le stesse cose della Luxemburg. Io credo avesse ragione Trotskij quando si è autocriticato e che abbiano torto tutti quelli che buttano via Lenin e soprattutto il famigerato “centralismo democratico” (odiato solo perché con lo stesso nome si chiamava il regime autoritario esistente nei partiti omunisti stalinizzati). Ma Trotskij rimane un tabu. O non se ne parla, o se ne deve parlare male. Perché? Un po’ di storia Visto che viene evocata una vicenda lontana, presente nei miti e negli stereotipi negativi della sinistra, ma non nella sua cultura (non dimentico lo stupore e lo scandalo di alcuni compagni, oggi usciti con i “cossuttiani”, quando Fausto Bertinotti in “Tutti colori del rosso”, parlando delle letture che lo avevano formato, fece riferimento a Rosa Luxemburg e a “La rivoluzione tradita” di Trotskij), dobbiamo ricostruire alcuni dati di fatto. Chi era Trotskij La “colpa” principale che non è stata perdonata a Trotskij da tutti gli apologeti e dai tardivi “nostalgici” del regime staliniano è stata la lucidissima critica che ne fece dall’interno. E non certo perché fosse un “emarginato”. Negli anni tra il 1917 e il 1923 nessuno in Russia e nel mondo dubitava che dopo Lenin la figura più prestigiosa della rivoluzione fosse Trotskij. Era stato già presidente del Soviet di Pietroburgo nel 1905, e fu di nuovo la figura pubblica più eminente nei mesi febbrili che precedettero l’Ottobre. Oratore eccezionale che infiammava le folle, fu anche paziente organizzatore dell’insurrezione (la tanto vituperata “presa del palazzo d’Inverno”, che oggi nel linguaggio della sinistra, compresa la “nuova”, è diventata sinonimo di qualcosa da evitare accuratamente…). Commissario del popolo agli Esteri, poi organizzatore dell’Armata Rossa, con cui visse gli anni più duri della guerra civile in prima linea, sul leggendario treno blindato, era adorato dai giovani ufficiali proletari forgiatisi nella lotta. Forse anche per questo, già nell’anno della lunga agonia di Lenin, cominciò una campagna di denigrazione contro Trotskij, accusato di volere il potere personale, di essere un “bonapartista”, e soprattutto di non essere stato un “bolscevico doc” tra il 1903 e il 1917, per le sue critiche ai pericoli di involuzione autoritaria del partito. L’accusa era del tutto priva di fondamento. Egli rinunciò sdegnato a tutte le cariche, e a chi gli domandava anni dopo perché non avesse usato l'Armata Rossa per fermare Stalin e la burocratizzazione, rispose che se lo avesse fatto avrebbe accelerato e non fermato l’involuzione. Il ricorso all’esercito, anche se è il più democratico del mondo come l’Armata Rossa di allora, non può mai garantire la democrazia. La ragione di tanta ostilità (a parte l’invidia dei mediocri nei confronti di un leader tanto amato) era dovuta al fatto che già nel 1923 Trotskij aveva colto, insieme a molti dirigenti prestigiosi del partito e dello Stato sovietico, i pericoli di involuzione che si delineavano non solo per l’immensa burocratizzazione, ma per le tendenze filocapitalistiche che comparivano come sottoprodotto della NEP. Su questi aspetti, che è ovviamente impossibile sviluppare in questa sede, oltre al libro fondamentale di Edward Carr sull’URSS (Storia della rivoluzione sovietica, Einaudi, Torino, 1964-1984, purtroppo in ben nove grossi tomi), e alla sintesi stesa dallo stesso Carr, La rivoluzione russa. Da Lenin a Stalin (1917-1929), Einaudi, Torino, 1980, rinvio anche al mio libro Intellettuali e potere in URSS (1917-1991), Milella, Lecce, 1995.

Il ruolo di Stalin Stalin era il vero regista della campagna contro il “bonapartismo” di Trotskij. Tuttavia, essendo praticamente sconosciuto e tutt’altro che brillante (non parlava neppure bene il russo), fu sottovalutato da Trotskij e un po’ da tutti, dato che appariva solo il “braccio” di altri dirigenti, come Kamenev e Zinov’ev prima e poi Bucharin, che egli invece utilizzò e poi liquidò brutalmente. Il suo potere cominciò a crescere nell’ombra solo nel 1922, l’ultimo anno in cui Lenin poté occuparsi del partito. Basta leggere “I dieci giorni che sconvolsero il mondo” di John Reed per comprendere che nel 1917 Stalin non era nessuno. E la carica di cui si impossessò e che fu la leva per il potere era originariamente tecnica: “segretario” era chi curava i rapporti del gruppo dirigente con la periferia. Fino alla sua morte nel 1919 tale compito era stato assolto da Jacob Sverdlosk con l’aiuto di un numero esiguo di compagni. Dal VI congresso del 1919 la segreteria diventa un organo collegiale, in cui tuttavia nessuno è membro dell’Ufficio Politico, che ha compiti di direzione tra un comitato centrale e l’altro. Il coordinamento è affidato nel 1919 a Elena Stasova, l’anno successivo a Krestinskij, e nel 1921 a Molotov, e solo nel 1922 a Stalin, che si presenta come segretario generale (cioè coordinatore degli altri segretari, non capo supremo!). Sia chiaro: questa carica, passata poi in tutti i partiti comunisti negli anni successivi, non era mai stata di Lenin! Da quella posizione tuttavia, approfittando delle difficoltà organizzative del periodo successivo alla guerra civile, Stalin comincia a designare i suoi uomini in periferia. Lenin denunciò il pericolo nella sua lettera al congresso, più nota come Testamento politico, ma non fu ascoltato. Nel giro di pochi anni tutte le cariche in URSS cessano di essere elettive, i dirigenti periferici sono nominati dall’alto e quindi rispondono non alla base ma a chi li ha designati. È la base del potere personale di Stalin. L’apparato a disposizione del segretario si gonfia fino a raggiungere decine di migliaia e poi centinaia di migliaia di funzionari fedeli al capo. Successivamente (già per iniziativa di Zinov’ev, che lo definiva bolscevizzazione) il meccanismo comincia ad essere esteso ai partiti comunisti di altri paesi. Per cominciare a creare il culto di Stalin “infallibile” come un papa, bisognerà arrivare al 1929. A quel punto erano state liquidate successivamente l’Opposizione di sinistra (a Trotskij si erano uniti la vedova di Lenin e anche Zinov’ev e Kamenev, ex complici di Stalin, che avevano denunciato a partire dal 1925 i metodi con cui gli organi dirigenti venivano aggirati dalla frazione segreta di Stalin) e la cosidetta “opposizione di destra” di Bucharin, Rykov, capo del governo, e Tomskij, leader dei sindacati. Ma ancora nel 1934, nel congresso detto “dei vincitori” perché erano già state soppresse tutte le opposizioni interne, ci furono critiche e voti contrari alla candidatura di Stalin. L’assassinio del suo principale collaboratore e ora divenuto moderatamente critico, Kirov, fu attribuito falsamente all’opposizione e servì da pretesto allo sterminio di massa iniziato subito dopo, in cui morirono tra l’altro il 70% dei delegati al congresso del 1934 e degli stessi membri del CC eletto in quell’occasione, tutti staliniani (oltre a quelli che erano stati realmente oppositori).

Trotskij al confino e in esilio Appena iniziata la campagna contro di lui, Trotskij aveva rinunciato sdegnosamente a ogni carica, pensando di combattere una battaglia politica nel partito; ma il controllo burocratico fu tale che i congressi furono prima truccati, poi trasformati in plebiscito. Nell’ultimo periodo di vita Lenin aveva insistito perché Trotskij assumesse anche la carica di capo del governo, ma egli aveva rifiutato, preoccupato che i nemici esterni ed interni usassero (come usarono) la sua origine ebraica per bassi attacchi. Espulso nel 1927 per aver tentato di riprodurre al ciclostile un documento, che a norma di statuto avrebbe dovuto essere stampato nell’organo del partito, e per aver portato nelle celebrazioni del decennale del 7 novembre uno striscione contro la burocrazia e per la democrazia sovietica, fu poi deportato nel lontano e isolato Kazachstan, e successivamente imbarcato a forza in una nave diretta in Turchia, dove fu confinato su un’isoletta, vicina al luogo in cui oggi è detenuto Ocalan. Braccato in tutto il mondo, cacciato da ogni paese come rivoluzionario e intanto calunniato come “fascista” e complice dell’imperialismo, Trotskij trovò alla fine un solo paese disposto ad accoglierlo, il Messico rivoluzionario di Lazaro Cardenas, che stava rilanciando la riforma agraria e nazionalizzava il petrolio, ma dopo vari tentativi falliti un sicario di Stalin riuscì ad assassinarlo nell’agosto 1940. A distanza di tanti anni, le calunnie contro di lui sono state riproposte ogni anno, magari ritoccandole, chiamandolo agente del nazismo quando l’URSS si alleava con l’imperialismo franco-britannico, poi agente britannico nel biennio di idillio staliniano con Hitler; gli ideologi stalinisti che oggi svolgono il loro sporco lavoro per Eltsin, non dicono più che era un servo dell’imperialismo, ma che era un estremista pericoloso, un avventuriero irresponsabile che voleva promuovere rivoluzioni dappertutto (più o meno le accuse dei comunisti ufficiali a Guevara negli ultimi suoi anni). L’importante è che non si leggano gli scritti di Trotskij, soprattutto perché continuano a essere attualissimi. Nel più famoso di essi, La rivoluzione tradita, che è del 1936, dopo aver esaltato le conquiste fatte dall’URSS nonostante la direzione burocratica, concludeva con la previsione che in caso di crollo del paese una parte della burocrazia si sarebbe messa a disposizione del nemico imperialista. Accadde già nel 1941-1945, quando Hitler trovò non pochi collaborazionisti anche tra gli alti ufficiali, ma soprattutto dopo il 1989-1991, quando quasi tutti i burocrati “comunisti” sono diventati “democratici” filocapitalisti e complici dell’imperialismo. In tutti gli scritti di Leone Trotskij, ad esempio quelli che riflettono la sua attività di dirigente dell’Internazionale Comunista tra il 1919 e il 1925, si nota una grande ricchezza analitica: fu il primo a cogliere il nuovo ruolo degli USA sulla scena mondiale, e a intuire che il capitalismo negli anni Venti si stava riorganizzando.

La sua analisi del fascismo rimane insuperata, ma fu dimenticata negli anni in cui i partiti comunisti stalinizzati consideravano i socialisti “nemico principale” e non esitavano ad allearsi con Hitler. La sua sconfitta fu il riflesso della distruzione, nella guerra civile e nei convulsi processi successivi, di quella classe operaia russa che era stata protagonista delle rivoluzioni del 1905 e di quella del 1917. Il punto debole della proposta di Trotskij è che faceva appello alla democrazia operaia e alla coscienza di classe di una classe operaia che non c’era più, o comunque non era più la stessa. Perché una lotta così implacabile contro uno “sconfitto”? Tutti i luoghi comuni seminati dallo stalinismo ripetono “Trotskij è morto e sepolto”, “È una cosa del passato che non interessa nessuno” oppure “I trotskisti sono sterili e non hanno mai concluso niente”. Allora perché tanta tenacia nel combatterli? Perché finché c’è stata l’URSS a Mosca uscivano ogni anno opuscoli in tutte le lingue per denunciare le sue colpe e “smascherare i trotskisti”, se non contavano niente e le loro idee erano “sorpassate” e “sconfitte”? Forse proprio per la ragione opposta a quella dichiarata.
A parte che i rivoluzionari (e quindi anche Stalin e i suoi successori, che lo erano stati) hanno sempre saputo che certi sconfitti sono più vivi dei loro vincitori. Chi ha dimenticato Spartaco? E chi ricorda invece il console Crasso, che lo vinse? Guevara è infinitamente più vivo di Mario Monje, che lo tradì, dei vari Arismendi o Corvalán o Giorgio Amendola che lo derisero, e che tutti hanno dimenticato. Il contributo più prezioso e insostituibile di Trotskij è appunto l’analisi delle contraddizioni dell’URSS, del ruolo della burocrazia. Non “demonizzante”, o “speculare a Stalin” come dicono alcuni ignoranti (alcuni di essi perfino da una cattedra universitaria), ma un’analisi ricca e dialettica. Anche quando Stalin gli aveva assassinato i figli, i migliori amici e collaboratori, e lo stava braccando in ogni parte del mondo, Trotskij non ha mai ceduto a una visione criminalizzante; casomai ha analizzato la politica di Stalin come suicida, perché non si rendeva conto che apriva le porte a Hitler. Nonostante questo, anche dopo crimini come il patto Ribbentrop-Molotov con la brutale spartizione della Polonia, le annessioni del Baltico, la deportazione in Siberia e lo sterminio di centinaia di migliaia di polacchi (compresi i soldati e gli ufficiali che sarebbero stati poi necessari per la lotta contro l’aggressione nazista), Trotskij ribadì sempre che il movimento comunista e la Quarta Internazionale dovevano continuare a difendere l’URSS, perché era oggettivamente antagonista a Hitler anche se Stalin brindava alla sua salute e gli consegnava 2.000 comunisti tedeschi e austriaci, tra cui molti ebrei, votandoli a sicura morte. Il contributo di Trotskij al pensiero marxista Ma anche su altre questioni il contributo di Trotskij è stato prezioso. Ha difeso il patrimonio essenziale del marxismo in anni in cui la teoria era ridotta a semplice abbellimento a posteriori delle scelte fatte per ragioni empiriche, e non sempre confessabili. Ad esempio il “socialismo in un paese solo” era assolutamente inconcepibile per Marx, Lenin o qualunque teorico marxista; il concetto fu difeso da Stalin, facendo confusione tra la presa del potere (ovviamente possibile) e la costruzione del socialismo. Per calunniare chi si opponeva si diceva che “non voleva il socialismo”, mentre il problema era un altro: se era possibile costruire il socialismo in un paese isolato, circondato da paesi capitalisti, con una grande massa contadina arretrata e abituata all’ubbidienza cieca (salvo esplodere a volta in rivolte disperate). L’esperienza ha confermato che quel che si è costruito non era socialismo, non foss’altro per le enormi sperequazioni sociali tra i privilegi della burocrazia e le condizioni delle masse, private non solo di molti beni essenziali, ma anche di un minimo di informazioni sulle scelte, per non parlare della possibilità di intervenire su di esse. Sono soprattutto la miseria e l’arretratezza che facilitano la fine dell’egualitarismo e la formazione di privilegi per pochi, che si appropriano di una parte crescente del prodotto del lavoro di tutti. Per questo l’URSS e il suo sistema sono crollati miseramente e così facilmente. Che poi i regimi successivi siano ancora peggiori, non dimostra nulla, dato che in tutti i paesi sorti dal crollo i dirigenti sono gli ex “comunisti”. Bell’allevamento di vipere e di ipocriti avevano fatto Stalin e i suoi degni successori, da Chrusciov a Breznev, fino a Gorbaciov e Eltsin… Va precisato inoltre che la definizione dell’URSS come “Stato operaio degenerato”, tanto rimproverata a Trotskij anche dalla nuova sinistra, era stata formulata inizialmente già nel 1920 dallo stesso Lenin, che aveva parlato, in polemica con Bucharin di uno “Stato operaio con due particolarità: una netta maggioranza contadina e una forte deformazione burocratica”. La formula, come tutte quelle sintetiche, è discutibile, e io personalmente non la uso da molti anni, per non trovarmi a litigare sterilmente con chi si indigna per lo “Stato operaio” e chi per il “degenerato”. Ma era di gran lunga più efficace di quella che la nuova sinistra ha raccattato dalla socialdemocrazia, che parlava fin dagli anni Venti di “capitalismo di Stato”. Se fosse stata già capitalistica l’URSS non avrebbe avuto tutte le difficoltà che ha avuto e che ha nell’instaurare un “normale” sistema capitalistico funzionante più o meno come da noi. Ma questa è un’altra questione. Trotskij ha difeso e sviluppato un’analisi marxista quando il movimento comunista procedeva a sbalzi e zig-zag, passando da un’idea all’altra con la massima disinvoltura. Negli anni 1929-1934 l’Internazionale comunista abbandona le sue precedenti analisi del fascismo, e lo considera uguale a qualsiasi regime borghese (per cui tutti vengono definiti “fascisti”, e diventa perfino possibile allearsi con i nazisti contro i socialdemocratici-“socialfascisti” come avvenne in Germania nel 1932, pochi mesi prima della vittoria di Hitler); Trotskij viene deriso come “allarmista” anche e soprattutto da Togliatti perché tra il 1929 e il 1932 denuncia il pericolo fascista in Germania. Subito dopo si passa all’eccesso opposto, e per fronteggiare Hitler invece del Fronte Unico Proletario rifiutato fino a poco prima, si propone un Fronte Popolare in cui ci sono, in Francia e in Spagna, importanti esponenti della borghesia. Il programma è quindi di fatto il loro, con conseguenze tragiche sulla questione coloniale (le colonie non si toccano e si affidano anzi a generali conservatori che si riveleranno filofascisti).
Il Fronte Popolare non è l’allargamento del Fronte unico di classe, ma la sua negazione. Per fare un esempio esopico, è più o meno come se i topi minacciati da un famelico gatto si coalizzassero... con un altro gatto. Comunque i risultati sono stati catastrofici sia in Spagna che in Francia, ma nessuna riflessione è stata mai fatta. I Fronti Popolari sono evocati nell’immaginario collettivo del popolo comunista come un mito eroico e basta. Si ripete “No pasarán!” e non ci si domanda come e perché i fascisti passarono. Negli anni dei Fronti Popolari, inoltre, i partiti comunisti non parlavano più dell’imperialismo francese o di quello britannico, che Stalin voleva avere come alleati contro la Germania nazista, dimostrando loro che solo lui era in grado di fermare i processi rivoluzionari in Europa. Per questo nel suo linguaggio c’era solo l’imperialismo tedesco.
Ma nel 1939, cambiate le alleanze, l’URSS, e dietro ad essa tutti i partiti comunisti, denunciarono “l’aggressività dell’imperialismo franco-britannico” ed elogiarono le “proposte di pace di Hitler”. Una vergogna indelebile. Anche per essersi opposto a quella politica sciagurata, che ha portato i partiti comunisti a praticare la collaborazione di classe non meno dei socialdemocratici da cui si erano divisi vent’anni prima, Trotskij è stato odiato e calunniato implacabilmente, con la forza di un apparato mondiale di propaganda paragonabile (per omogeneità e diffusione capillare nel mondo) solo a quello del Vaticano. La battaglia per ricostruire un’Internazionale Trotskij scrive negli anni dell’esilio che quel che aveva fatto in passato poteva essere stato fatto anche da altri, e che il suo ruolo alla testa dello Stato sovietico e dell’Armata Rossa non è stato il suo contributo fondamentale al movimento operaio. Egli pensa al contrario che quel che di più importante ha fatto nella sua vita è stata la difesa del marxismo mentre veniva prostituito agli interessi contingenti di una burocrazia ottusa e cinica. Trotskij si dedica soprattutto a costruire una nuova Internazionale, la Quarta, quando vede nel 1933 che la Terza Internazionale, ormai piegata ai voleri di Stalin, rifiuta perfino di prendere atto della tragedia rappresentata dalla vittoria di Hitler (si continua a dire che la situazione è ottima ed eccellente, e che la rivoluzione in Germania è imminente). Non pensa a un’Internazionale dei “trotskisti”, ma a quella di tutti quelli che vogliono ancora combattere il capitalismo e si oppongono allo stalinismo. I primi tentativi sono fatti con raggruppamenti comunisti e socialisti di sinistra di varia provenienza. Se i tentativi non vanno in porto, non è mai per ragioni ideologiche settarie, ma la rottura avviene quando rinunciano a principi fondamentali, ad esempio quando il POUM spagnolo collabora con forze borghesi nel governo di Fronte popolare in Catalogna (salvo essere ugualmente accusato di “trotskismo”, calunniato e perseguitato).

Molti hanno deriso questa difficile battaglia, magari ironizzando sul modesto numero di coloro che, dopo cinque anni di tentativi, parteciparono al congresso di fondazione della Quarta Internazionale. Erano pochi, ma avevano ragione loro e non Stalin, che aveva subordinato il movimento operaio agli imperialisti francesi e britannici, che in quello stesso settembre 1938 stavano dando via libera a Hitler in Cecoslovacchia con gli accordi di Monaco; avevano ragione quei pochi comunisti controcorrente, e non Stalin, che poco tempo dopo si sarebbe illuso di evitare la guerra accordandosi con Hitler per la spartizione dell’Europa orientale. Stalin aveva ridotto la Terza internazionale a un volgare e rozzo strumento di trasmissione degli interessi della burocrazia sovietica nel mondo, poi l’ha sciolta nel 1943 per tranquillizzare gli imperialisti statunitensi e britannici, suoi nuovi alleati. Perché i partiti comunisti non hanno fatto nulla per ricostituirla in questi decenni, mentre era evidente che gli organi di centralizzazione politica, militare ed economica dell’imperialismo si sono rafforzati in un mondo sempre più unificato?
Per questo la Quarta Internazionale, senza pretendere di essere quel che sarebbe necessario nel mondo di oggi, ha finito per essere l’unico nucleo che ha mantenuto vivo in anni difficili non solo il pensiero marxista classico, ma anche un funzionamento internazionale (che impedisce o riduce il pericolo degli adattamenti alle pressioni locali). Perché i PC hanno seguito Stalin Sui crimini di Stalin, tranne pochi residuati “nostalgici”, potrebbero essere oggi d’accordo quasi tutti. Più difficile fare i conti con quello che l’epoca staliniana ha lasciato nell’eredità degli stessi partiti comunisti più “antistaliniani”. Prima di tutto nella concezione del partito, o “forma-partito” come è di moda dire. Ad esempio, ogni volta che si nomina il “centralismo democratico”, tutti inorridiscono. Eppure sarebbe bello se nel PRC vigessero le norme democratiche in vigore nel partito bolscevico. Non solo prima del 1917, ma anche durante tutti gli anni terribili della guerra civile, quando il potere sovietico era appeso a un filo, nel partito bolscevico c’era non solo il diritto di tendenza ma perfino quello di frazione.

Vuol dire che nei congressi si potevano presentare documenti diversi con pari diritto, ed era possibile il raggruppamento pubblico tra un congresso e l’altro dei sostenitori di una posizione rimasta in minoranza (che solo così poteva accettare la disciplina, dato che poteva al tempo stesso lavorare per diventare maggioranza al congresso successivo, e i congressi erano ravvicinati (tra il 1917 e il 1923, uno all’anno). Pari diritti voleva dire anche che se il relatore di maggioranza parlava due ore, anche chi presentava l’altra posizione doveva avere uguale tempo e non un quarto d’ora come oggi. Nella concezione di Lenin, inoltre, l’organo sovrano era il Congresso, e tra un congresso e l’altro il Comitato centrale. L’Ufficio politico doveva solo applicare la linea tra una riunione e l’altra del Cc, non sostituirsi ad esso, come è accaduto, e ancor meno la Segreteria, che era allora solo un organo tecnico di esecuzione delle decisioni. Nei partiti comunisti stalinizzati, invece, si considerava sovrana la Segreteria. Ma come è stato possibile che tutti i partiti comunisti abbiano accettato una direzione autoritaria e a volte insensata che decideva tutto da Mosca? Prima di tutto dobbiamo ricordare come è nata l’Internazionale comunista: sull’onda della delusione e lo sdegno per il tradimento dell’Internazionale socialista, e dei principali partiti operai, nascono piccoli gruppi che combattono la guerra e hanno come punto di riferimento l’atteggiamento coerente del partito bolscevico.

Ma sono in genere giovani e inesperti, e fanno molti errori, anche quando nel 1919 nasce finalmente la nuova Internazionale. La Terza Internazionale nasce molto aperta e non dogmatica: Lenin dice che bisogna costruirla con tutti quelli che combattono il capitalismo e si oppongono al riformismo e alla collaborazione di classe, anche se hanno idee diverse dai bolscevichi. “La stiamo costruendo”, dice nel 1920, “anche con tendenze semianarchiche e persino anarchiche.” Molti partiti, a partire da quello italiano e quello tedesco, fanno errori di estremismo e settarismo. Vengono criticati da Lenin e Trotskij, ma senza la minima misura amministrativa o imposizione di cambi nel gruppo dirigente. Anche Gramsci, ad esempio, condivise in quei primi anni il settarismo di Bordiga, Terracini ed altri nei confronti del partito socialista, e stentava a capire perché dopo essersi separati da esso dovessero riproporre azioni comuni (il “fronte unico” contro il fascismo, appunto). Quando la verifica delle conseguenze degli errori fatti spinse la maggior parte dei partiti comunisti ad accettare – con tre o quattro anni di ritardo – le critiche dell’Internazionale, questa era mutata profondamente, e pretendeva ben altro, anche se si dovrà aspettare fino al 1928 perché si arrivi a sostituire una direzione eletta, come avvenne in Germania, dove fu imposto nuovamente al partito Ernst Thaelmann, che era stato destituito per gravi mancanze.
Intanto, anche per gli errori del movimento comunista (e i crimini socialisti), il fascismo aveva trionfato in Italia e veniva imitato da molti regimi autoritari dai Balcani alla Polonia. I partiti comunisti, fuori legge quasi ovunque, avevano bisogno sia di aiuti materiali, sia di certezze gratificanti e si adattarono dunque alle pressioni dei nuovi dirigenti della Terza Internazionale. Lo fece inizialmente anche Gramsci, ma quando si accorse di cosa stava accadendo in URSS scrisse già nel 1926 (quando si era ancora lontani dalle espulsioni, dalle deportazioni, dagli assassinii degli oppositori) una lettera di severa critica al CC del PC russo, che fu intercettata e bloccata da Togliatti, che rappresentava il partito a Mosca. L’episodio è stato sempre minimizzato da quelli che partono dalla radicata convinzione che tutto quel che è accaduto doveva accadere, e che ogni tentativo di opporvisi era ovviamente vano, come deducono… dal fatto che è fallito. Gramsci la pensava diversamente. Nella sua risposta personale a Togliatti, che aveva sostenuto che i partiti comunisti dovevano limitarsi a “studiare le questioni russe” e a farle conoscere, senza interferire, Gramsci aveva dato un giudizio severissimo sull'episodio: “questo tuo modo di ragionare [...] mi ha fatto un impressione penosissima”, scrive; infatti “tutto il tuo ragionamento è viziato di burocratismo”.
La frase più dura, tuttavia, che lasciava intravedere una rottura di rapporti umani e politici, investe alla radice la mentalità di Togliatti: “Saremmo dei rivoluzionari ben pietosi ed irresponsabili se lasciassimo passivamente compiersi i fatti compiuti, giustificandone a priori la necessità”. Così la pensava Gramsci, che rimase anche per questo isolato in carcere. Non si cercò di ottenere la sua liberazione con uno scambio di prigionieri tra l’URSS e il Vaticano, che era possibile; per anni non si parlò di lui, fino a quando la campagna per la sua liberazione ricominciò … alla vigilia della sua morte e quando ormai era ridotto a una larva umana, che non avrebbe in nessun caso potuto riprendere l’attività politica. Dopo la sua morte, Gramsci divenne per Togliatti quel che Lenin era per Stalin (tra l’altro gli mise in bocca frasi mai pronunciate come “Trotskij è la puttana del fascismo”). Lo stesso avvenne in quasi tutti i partiti comunisti nel corso degli anni Trenta: vennero allontanati quelli che avevano avuto un ruolo nei primi anni, tutti accusati di “trotskismo”. Alcuni raggiunsero effettivamente il movimento per la Quarta Internazionale, da .Pandelis Pouliopoulos segretario del PC greco, a Chen Du-tsiu, primo segretario del Pc cinese. Anche tre su sei membri dell’Ufficio Politico del PCd’I (il settimo era Gramsci, in carcere, nelle condizioni che abbiamo descritto) furono espulsi dagli altri tre, che per avere la maggioranza diedero voto effettivo al rappresentante dei giovani, Pietro Secchia, che in base allo Statuto lo aveva solo consultivo. I tre espulsi erano Pietro Tresso, Alfonso Leonetti, Paolo Ravazzoli, di cui quasi nessuno nel PCI del dopoguerra ha saputo mai nulla, e tanto meno che la loro posizione nel 1929-1930 coincideva – senza che lo sapessero – con quella di Gramsci in carcere. Ancor meno si sa che i tre, quando capirono che le loro critiche alla folle politica estremista del Comintern coincidevano con quelle di Trotskij, si avvicinarono a lui e al movimento per la Quarta Internazionale. Meno ancora si sa che Pietro Tresso, catturato dai nazisti mentre era partigiano in Francia, fu “liberato” da un commando del PCF che assaltò la prigione, e che subito dopo uccise lui ed altri trotskisti. La vicenda dell’espulsione dei “Tre” è stata ricostruita egregiamente da Paolo Spriano, militante e dirigente del PCI, ma prima di tutto storico di grande onestà. Trotskismo e stalinismo: chi deve vergognarsi? La riscoperta della discriminante antitrotskista da parte di Cossutta (che lascia spazio a un recupero del vecchio repertorio stalinista) è la conseguenza di un elemento che avevamo segnalato da tempo. Il PRC non ha mai affrontato una discussione sulle cause del crollo dell’URSS, che pure figurava tra i suoi compiti iniziali. Ciò ha permesso la sopravvivenza di sacche di “nostalgici” che continuano a credere che il sistema sovietico fosse perfetto e sia caduto solo per il papa o le “manovre della CIA”. È una spiegazione penosa, perché le manovre della CIA o dei servizi segreti inglesi, ecc. ci sono state fin dal giorno della vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, e di papi reazionari e anticomunisti ce ne sono stati tanti (basti pensare al filonazista Pio XII), ma tutto ciò non è mai riuscito ad avere successo, perché in URSS, soprattutto nei primi anni, c’era un consenso larghissimo. Anche nelle fasi successive, in cui la debolezza politica del regime staliniano si manifestava nell’uso sempre più massiccio di una repressione indiscriminata, c’erano ancora ragioni profonde di attaccamento a quanto rimaneva delle conquiste dell’Ottobre. Le manovre sono riuscite quando i dirigenti “comunisti” da Breznev a Gorbaciov a Eltsin, da Milosevic a Tudjiman, da Zivkov a Ceausescu, da Ramiz Alia a Sali Berisha, non credevano più a nulla e non venivano più creduti da nessuno, ma pontificavano in nome del “comunismo”. I nemici del comunismo hanno usato i crimini di quei personaggi per screditare il progetto grandioso di Marx e di Lenin; anche gli imbecilli hanno abboccato e… per “difendere il comunismo” hanno difeso i crimini di quei cinici usurpatori. Così, anche dopo la crisi, tanti compagni si sono arroccati nella “nostalgia” e trincerati dietro una spiegazione puerile, che attribuiva tutto alle “manovre” e a singoli traditori. Anche diversi intellettuali hanno continuato a non riflettere su una delle più grandi tragedie del nostro secolo – l’involuzione, declino e crollo del movimento comunista – contìnuando a dare per scontato che chi si diceva comunista lo fosse. Eppure non si tratta di un caso unico nella storia: basti pensare alla Chiesa cattolica, che per secoli e secoli è stata rappresentata da papi spergiuri, assassini, che violavano tutti i comandamenti possibili e commettevano tutti i peccati immaginabili, ma erano gli unici a poter parlare in nome di Cristo (chi tentava di farlo riferendosi ai Vangeli, veniva incarcerato o bruciato vivo). Dal momento che Alessandro VI Borgia, il padre (e amante) della famosa avvelenatrice Lucrezia Borgia e del duca Valentino si diceva cristiano, dobbiamo difendere gli avvelenamenti, gli incesti, ecc. e considerarli la concretizzazione del messaggio evangelico? Alessandro VI e Stalin sono due usurpatori di un pensiero che usavano cinicamente e con cui non avevano nulla in comune. Nel corso degli anni ho incontrato nel PCI e anche nel PRC molti stalinisti (tra cui una macchietta che qui a Lecce continua a difendere sui giornali locali, nei comizi e in ogni occasione, il regime albanese e persino quello rumeno).

Tutto quel che si diceva “comunista” li esaltava. Se fossero stati cristiani sarebbero stati con Alessandro VI, non con i fautori di un ritorno alle origini evangeliche. A questa gente, in mancanza di altri argomenti, ha fatto appello Cossutta. Ovviamente questi sono accaniti nell’aggredire Trotskij e i “trotskisti”, di cui non hanno mai letto una sola pagina. Di fatto si direbbe che la colpa principale dei trotskisti sia quella di aver capito le radici profonde della crisi del sistema sorto intorno all’URSS con molti decenni di anticipo su altri (qualcuno anzi non se ne è ancora accorto...). Quando Cossutta polemizzava con Berlinguer rimproverandogli la sua timida dissociazione dall’URSS di Breznev entrata in una fase di decomposizione, i trotskisti avevano già colto da tempo la dinamica che portava al crollo. E a Trotskij e al movimento trotskista si è ispirato Che Guevara negli ultimi anni della sua vita, come ora è stato documentato dal ritrovamento dei suoi appunti di Bolivia. È rimasto in larga misura inedito, proprio per questo: il regime sovietico sapeva solo imbavagliare e usare una vana censura, illudendosi di superare con la violenza repressiva le proprie contraddizioni, e il governo cubano – per molti anni dipendente dall’URSS per il petrolio, e tutto il commercio estero – ha dovuto adeguarsi. Il movimento trotskista, che negli anni Trenta era più forte di quello filosovietico in Vietnam e in molti paesi dell’America Latina, non ha pagine vergognose da nascondere, ma un lungo martirologio di compagni assassinati, dai nazisti come dagli stalinisti. Lo stalinismo invece rappresenta una vergogna permanente per il movimento operaio: ha allevato tanti dirigenti diventati oggi filocapitalisti, ha cancellato ogni traccia e ogni ricordo della democrazia interna che vigeva nello stesso partito bolscevico e nell’Internazionale comunista ai tempi di Lenin e Trotskij, ha sterminato il 90% dei dirigenti della rivoluzione d’Ottobre e perfino più comunisti tedeschi di quanti ne abbia assassinati Hitler. Solo l’ignoranza può lasciare spazio alla nostalgia dello stalinismo, che ha portato alla rovina tanti gloriosi partiti comunisti, eliminandone i migliori dirigenti e sostituendoli con docili pedine della burocrazia sovietica. (2-11-1998).

Portogallo: a 50 anni dalla rivoluzione dei garofani

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