IL vicolo cieco Trionfo, involuzione e tragedia
del movimento comunista Significato del corso Il corso dell’anno accademico
1999-2000 affronta una sintesi di quanto trattato nei corsi degli anni
precedenti: le cause profonde del crollo del sistema sorto intorno all’Unione
Sovietica e della crisi o trasformazione di quegli stessi paesi che avevano
visto tentativi di distaccarsi dal modello affermatosi in URSS con Stalin e i
suoi epigoni.
Si tratta quindi di un fenomeno di grande
complessità, e di notevole importanza nella storia mondiale, che ha chiuso il
periodo di conflitti che hanno caratterizzato quasi tutto il ventesimo secolo,
aprendone un altro; la sua trattazione è praticamente assente dai programmi
delle scuole medie superiori, o è affrontata superficialmente o con forti
pregiudiziali ideologiche che impediscono la comprensione delle ragioni prima
dell’ascesa e dei grandi successi, poi dell’involuzione e del declino di un
sistema che si è esteso su una grande parte del pianeta, condizionando in un
modo o nell’altro la vita politica degli stessi paesi che si contrapponevano ad
esso. Sarà così possibile avere gli strumenti per comprendere l’origine delle
tragedie di questi anni (dissoluzione dell’URSS, esplosione della Jugoslavia
con il moltiplicarsi di nazionalismi violenti e fanatici, esasperazione dei
conflitti nei paesi sottosviluppati sottoposti a una dominazione unipolare,
ecc.).
Gli
studenti hanno quindi la possibilità di affrontare la storia – altrimenti
ignorata - di un grande processo che ha segnato il nostro tempo e continua a
pesare nel presente con le ripercussioni mondiali della sua crisi (si pensi
alla recente Guerra dei Balcani). Pur essendo dedicato al declino e crollo del
sistema sorto intorno e sul modello dell’Unione Sovietica, il corso deve
dedicare una parte notevole alla sua formazione, ai successi iniziali
dell’URSS, alle scelte che si posero al suo gruppo dirigente soprattutto dopo
la morte di Lenin. Ciò è tanto più necessario perché da dieci anni una
impressionante campagna ideologica (in nome della “fine delle ideologie”…) ha
cercato di “demonizzare” non solo la rivoluzione russa del 1917 ma la stessa
rivoluzione francese del 1789, presentandole non solo come tragici errori ma
soprattutto come frutto delle velleità di piccoli gruppi intellettuali. Così,
prima di tutto, è necessario ricostruire la realtà della rivoluzione russa,
smontando la tesi del “colpo di Stato di una minoranza” velleitaria, astratta e
intollerante. Oltre a tutto, presentandola caricaturalmente in questo modo, non
si riesce a spiegare la sua straordinaria forza di attrazione su gran parte del
movimento operaio europeo e mondiale nel corso dei suoi primi difficilissimi
anni (in molti paesi la maggioranza dei vecchi partiti socialisti si
collegarono all’esperienza sovietica sul piano dapprima ideale, poi stabilendo
legami strettissimi e condizionanti) se non come effetto di una colossale
mistificazione.
E tanto meno si riesce a spiegare le ripercussioni
della rivoluzione russa sugli stessi governi capitalistici europei, costretti
ad esempio a concedere rapidamente quella giornata lavorativa di 8 ore che da
decenni figurava ovunque in testa alle richieste socialiste e sindacali, ma che
fu strappata quasi ovunque proprio per l’impatto politico e psicologico del
successo degli operai di Pietrogrado, che la imposero nel giro di poche
settimane tra l’aprile e il maggio del 1917, e la consolidarono con la
rivoluzione d’Ottobre.
Dispensa 1 LE PREMESSE DELLA RIVOLUZIONE RUSSA La
rivoluzione russa non può essere ridotta al ruolo di Lenin, come è stato fatto
per decenni dal culto ufficiale del “leninismo” imposto da Stalin al movimento
comunista, e come viene fatto oggi –per ragioni opposte – dai detrattori: è una
storia ben più complessa e originale. La Russia era rimasta al margine
dell’Europa fino alla spedizione napoleonica del 1812, con un regime
autocratico appoggiato su una Chiesa ortodossa così retrograda da non accettare
neppure la riforma gregoriana del calendario, rimanendo legata a quello
giuliano, che di secolo in secolo la portava a una sfasatura sempre maggiore
rispetto al calendario solare, e rispetto al resto dell’Europa (per questo la
“rivoluzione di febbraio” si chiama così, essendo iniziata in occasione della
giornata internazionale della donna, l’8 marzo, che in Russia era il 25
febbraio). Il contatto di molti ufficiali russi – tutti di origine nobiliare -
con le capitali europee in cui arrivarono da conquistatori dopo la sconfitta di
Napoleone, influenzò i più giovani e sensibili, che diedero vita pochi anni
dopo, nel 1825, al primo movimento democratico antizarista, quello dei
decabristi. Finirono quasi tutti sul patibolo. La lotta contro lo zarismo fu
portata avanti poi dai populisti, anch’essi di estrazione nobiliare o borghese,
che puntarono senza troppo successo a mobilitare le masse contadine, e
combatterono il regime autocratico ricorrendo largamente al terrorismo
individuale. Molti di loro, tra cui il fratello maggiore di Lenin, finirono sul
patibolo. A rendere necessarie alcune riforme furono soprattutto le difficoltà
che la Russia, che pure per conto della Santa Alleanza aveva assunto nella
prima metà del XIX secolo il ruolo di gendarme dell’Europa, riscontrò nelle
campagne militari di consolidamento delle conquiste in Asia centrale e nelle
diverse guerre contro la Turchia, che avevano come obiettivo ultimo la
conquista degli Stretti e quindi l’accesso al mare Mediterraneo anche d’inverno
(i porti settentrionali rimanevano bloccati dai ghiacci per molti mesi). In
particolare nella guerra di Crimea del 1853-1856 (in cui le principali potenze
europee si coalizzarono contro la Russia per impedire che si appropriasse di
una parte troppo grande dell’impero ottomano in disfacimento) emerse
chiaramente che era praticamente impossibile far combattere efficacemente dei
soldati analfabeti e assolutamente non motivati, arruolati tra i servi della
gleba. Ne morirono 300.000, per armi da fuoco o per malattie, anche per
l’incapacità degli ufficiali. Così nel 1861 viene finalmente abolita la servitù
personale, ma per il riscatto i contadini dovettero pagare somme molto forti,
che li indebitarono per decenni. Pochissimi riuscirono ad ottenere un
appezzamento di terra sufficiente, su cui però dovettero pagare tasse enormi,
di sei o sette volte superiori a quelle dei vecchi latifondisti.
Grazie a queste prime misure, negli anni ’60 e ’70
comincia a svilupparsi il capitalismo in Russia, con una rapidità sorprendente
che farà parlare di una “serra del capitalismo”. Come in una vera serra, la
rapidità e l’artificiosità dello sviluppo nascondono squilibri e un’intrinseca
debolezza. La borghesia russa è fortemente intrecciata ai capitali stranieri,
il cui intervento è incoraggiato dal governo: si sviluppano grandi industrie
modernissime, ma subordinate agli investitori stranieri, da cui dipendono per i
pezzi di ricambio, per i tecnici, ecc. In cambio, nelle fabbriche si concentra
una classe operaia che acquista abbastanza rapidamente una coscienza politica
(più che sindacale: il regime zarista vieta ogni aggregazione e nella
clandestinità prevale un’organizzazione di tipo partitico). La maggior parte
degli operai sono arrivati in città da poco, o sono al massimo di seconda
generazione (vuol dire che hanno legami profondi con la campagna, dove hanno il
padre o il nonno, il che faciliterà il loro ritorno al villaggio nel 1918-1920,
quando la guerra civile distruggerà le comunicazioni e paralizzerà l’economia).
Scheda Il concetto di “rivoluzione” Il concetto di
“rivoluzione” non è molto antico: nasce nel corso della rivoluzione inglese del
1688, come sinonimo di un cambiamento radicale, anche se i protagonisti della
rivoluzione inglese non avevano una piena consapevolezza di ciò che stavano
facendo. Essi pensavano infatti di potere e dovere ritornare indietro: la
rivoluzione inglese comincia in difesa di quei diritti che ritenevano fossero
stati violati e negati dai re Stuart. In realtà si faceva strada, anche se in
parte meno coscientemente formulato, un progetto molto più avanzato: ottenere i
diritti dell'uomo. Da questo punto di vista la rivoluzione francese è molto più
avanzata, per le sue caratteristiche iniziali di rovesciamento violento
dell'assetto sociale e politico, ed ha due molle, libertà e uguaglianza (anche
la fraternità, che tuttavia è più vaga e meno concretizzabile), di cui
l’uguaglianza è la più importante, anche se viene cautelativamente arginata
appena la rivoluzione comincia a rifluire. Quella francese è la prima
rivoluzione che punta al futuro; la stessa rivoluzione russa comincia con un
riferimento a quelle precedenti, in particolare alla rivoluzione francese.
Tutti i processi rivoluzionari hanno guardato al passato. Quando nel 1889 nasce
la Seconda Internazionale, fa riferimento alla rivoluzione francese, della
quale ricorreva il primo centenario.
I primi partiti socialisti si sviluppano
affrontando i problemi più immediati delle classi lavoratrici, ma anche con
l'idea di dover completare quello che la rivoluzione francese aveva iniziato e
non aveva potuto portare a termine per l’involuzione termidoriana, e poi
l’affermarsi del bonapartismo. Lo stesso Marx parte dalla riflessione sulla
rivoluzione francese (a cui dedica molte pagine), per arrivare alla conclusione
che la rivoluzione non si può fermare a metà, che deve essere sviluppata in
permanenza per evitare che dal passato riaffiori la vecchia melma (Marx in
realtà usa un altro termine più brutale). E da questa riflessione partirà Lev
Trotskij dopo il 1905 per formulare la teoria della rivoluzione permanente.
Bolscevichi e menscevichi Il partito operaio socialdemocratico russo (POSDR)
nasce nel 1892 con caratteristiche eclettiche, ma ha già una componente
marxista di cui Lenin è uno degli esponenti fondamentali, e si propone di
conquistare i settori decisivi della classe operaia, ritenuta già prima della
verifica del 1905 l’unica forza capace di lottare a fondo contro lo zar. Una
premessa importante della rivoluzione russa è lo scontro interno al POSDR, che
nel 1903 porta il partito a definirsi ma anche a dividersi.
Contrariamente a uno dei luoghi comuni più
diffusi, l’unità non è il bene supremo: può essere paralizzante perché basata
su equivoci, su compromessi tra tendenze con orientamenti profondamente
divergenti. In alcuni casi, sostiene Lenin, è meglio avere un partito più
piccolo ma con maggiore omogeneità e un programma ben definito e radicato nella
realtà, che un calderone in cui coesistono forze anche socialmente diverse. Il
II congresso si svolge nel 1903 (dato che i delegati erano clandestini e
braccati da tutte le polizie, il congresso comincia in Belgio e si sposta poi a
Londra) e identifica quelle che saranno le forze trainanti della rivoluzione:
in quel congresso si discutono le caratteristiche che deve avere il partito,
sulla base di quanto, un anno prima, Lenin aveva formulato nel "Che
fare?", in cui abbozzava un progetto profondamente diverso da quelli
esistenti, e dalle concezioni espresse da quelli che da allora saranno chiamati
“menscevichi” (cioè minoritari). A loro volta i vincitori rimarranno per sempre
i “bolscevichi”, cioè maggioritari, anche se ben presto i rapporti di forza
muteranno a loro sfavore. Una delle più importanti polemiche di quel II
Congresso del 1903 riguarda la questione dei criteri per definire chi è membro
del partito.
I menscevichi ritenevano membro del partito
chiunque condivide le sue idee generali, legge la sua stampa, e partecipa a
qualche riunione. Lenin invece sostiene che solo chi dedica completamente la
sua vita alla rivoluzione, e mette al primo posto l’impegno per difendere e
affermare il programma del partito può essere considerato militante. Lenin
parla di “rivoluzionario di professione”, e nell’uso corrente questa
definizione è stata deliberatamente fraintesa, presentando il partito di Lenin
come un’organizzazione di funzionari stipendiati. La preoccupazione di Lenin
era quella di delimitare bene il partito, per evitare che decisioni
fondamentali fossero prese da riunioni casuali, in cui votavano anche curiosi e
persone non disposte a portare avanti anche a costo di gravi sacrifici quello
che si era deciso. In particolar, quando c'è una dittatura spietata come quella
zarista alcune decisioni possono riguardare la vita e la morte di molte persone
e vanno prese solo da chi è pronto ad affrontarne tutte le conseguenze.
Successivamente, nel 1907, Lenin ha modificato in seguito all’esperienza
straordinaria della rivoluzione del 1905 una parte delle sue concezioni
organizzative e ha rettificato il tiro, affermando che nel Che fare? aveva
“tirato il bastone” un po’ troppo in direzione della rigidità organizzativa per
reazione all’eccessivo spontaneismo e lassismo dei menscevichi. Inoltre, molte
delle sue affermazioni di quella fase derivano dai problemi dovuti al periodo
specifico in cui il partito si trovava, in una clandestinità totale, sottoposto
a una spietata repressione. Ovviamente un partito in clandestinità non può
avere una grande democrazia interna, non può discutere le cose in grandi
assemblee di centinaia o migliaia di persone, ma è costretto a farlo in
riunioni ristrettissime, i cui partecipanti si conoscono bene tra loro, per
evitare infiltrazioni poliziesche.
Per questo nel 1902-1903 Lenin concepisce un
partito piccolo e agile, formato da “quadri” accuratamente selezionati, mentre
durante la rivoluzione del 1905 auspica un largo e rapido reclutamento di massa
degli operai che hanno partecipato alla rivoluzione. Proprio sulla concezione
del partito i dibattiti sono più accesi, e le posizioni di Lenin vengono
attaccate duramente, ma anche fraintese, con echi che perdurano ancora oggi..
Ad esempio quando Lenin diceva che la coscienza socialdemocratica (oggi diremmo
comunista) non nasce spontaneamente tra gli operai ma deve essere “portata
dall’esterno”, intendeva dire che la diretta esperienza di un operaio (lo
scontro con il proprio padrone per il salario, l’orario, contro
l’autoritarismo, ecc.) non è sufficiente a far comprendere i problemi
complessivi della società e dello scontro politico. Si basava, tra l’altro, su
un concetto fondamentale di Marx: l’ideologia delle classi oppresse è di norma
quella delle classi dominanti, e può mutare solo in base all’esperienza
diretta, soprattutto in periodi rivoluzionari e in quelli in cui la rivoluzione
sta maturando (i periodi “prerivoluzionari”).
Lenin intendeva dire che deve giungere
“dall’esterno” dell’esperienza diretta, nel senso che occorre far capire i
complessi rapporti tra tutte le classi della società, i meccanismi
dell’economia, le esperienze di altri luoghi e altri periodi, di cui un singolo
operaio non può avere esperienza diretta, ecc. Invece si è ridotto il pensiero
di Lenin al fatto che dovrebbero essere gli intellettuali a “dare la linea”
agli operai, (come si continua a dire caricaturalmente ancora oggi). Egli
alludeva al fatto che solo un organismo politico complessivo può consentire di
vedere tutta la foresta, mentre un singolo operaio inevitabilmente – in base
alla sua sola esperienza - è portato a vedere il singolo albero che ha di
fronte. Una seconda questione di cui si discute nel Congresso riguarda la
natura e i compiti della rivoluzione: in Russia non c’era stata la rivoluzione
borghese. La borghesia non era in grado di portare avanti il suo stesso
programma, per le ragioni che Marx aveva colto già nel 1848 in Germania e in
altri paesi, dove la rivoluzione borghese non era stata completata: la comparsa
del proletariato terrorizzava i borghesi e li spingeva a gettarsi nelle braccia
della monarchia e dei conservatori per essere protetti. La borghesia aveva
paura dei proletari ben più che dei suo storici nemici feudali. Il dato era
inequivocabile. Ma di fronte a questo i menscevichi ricavano la conclusione
che, comunque, bisognava allearsi con la borghesia per incalzarla e spingerla a
portare avanti la sua rivoluzione democratica (abbattimento del potere zarista,
riforma agraria). Un’alleanza organica con la borghesia obbligava tuttavia il
partito operaio a rinunciare agli obiettivi sociali della rivoluzione (come
l’eliminazione degli ostacoli materiali che impediscono un’uguaglianza reale:
ad esempio la libertà di stampa è teorica se i mezzi di informazione sono di
proprietà dei grandi capitalisti; da qui nasce l’esigenza di sostituire la
proprietà privata dei mezzi di produzione con quella collettiva).
Anche Lenin e i bolscevichi non escludono
l’alleanza con la borghesia durante la prima fase o tappa della rivoluzione,
quella appunto democratico-borghese, ma ritengono che all’interno dell’alleanza
la direzione spetta al proletariato e non alla borghesia. C’era una terza
posizione, sostenuta in particolare da Trotskij, e anche da Rosa Luzemburg (che
pur militando nella socialdemocrazia tedesca manteneva in quanto dirigente del
partito socialdemocratico polacco un legame con quella russa e partecipava ai
suoi congressi): questa posizione, che verrà poi meglio definita dopo la
clamorosa conferma del 1905, si basava sul fatto che se era il proletariato a doversi
assumere il compito di portare a termine la rivoluzione borghese al posto della
borghesia che capitolava, non poteva fermarsi ad essa, spargendo ancora una
volta il proprio sangue per altri. Ci doveva quindi essere non una prima “tappa
democratico-borghese” come sostenevano i bolscevichi, ma una trascrescenza
della rivoluzione dai compiti democratici iniziali a quelli socialisti,
ovviamente impossibili da portare avanti con qualsiasi tipo di alleanza
interclassista con le forze borghesi. Esattamente quello che si verificherà nel
1917. Gli schieramenti quindi sono molto complessi, e su molte questioni i
blocchi di voti si scompongono e riaggregano: grosso modo possiamo dire che le
posizioni principali sono tre, quella bolscevica, quella menscevica (con molte
sfumature al suo interno) e quella di Trotskij, che è contrapposta rigidamente
a quella bolscevica sulle questioni organizzative, su cui sembra convergere con
i menscevichi, ma che sulle questioni di fondo si colloca alla sinistra degli
stessi bolscevichi.
Abbiamo già accennato che Trotskij correggerà poi
la sua posizione sul partito, accettando con convinzione quella proposta da
Lenin (che nel frattempo si è arricchita e articolata); ma vedremo che anche
Lenin farà sua nel 1917 e già negli anni immediatamente precedenti la
concezione della “rivoluzione permanente”elaborata da Trotskij, escludendo
categoricamente ogni alleanza con la borghesia e superando la concezione della
rivoluzione in due tappe. Su queste grandi questioni il partito si divide in due
frazioni nel 1903. Le frazioni sono tronconi del partito che portano
all’esterno le loro divergenze, anche se esse si considerano sempre parte dello
stesso partito, e usano la stessa sigla POSDR, a cui i bolscevichi aggiungono
una piccola (b) per caratterizzarsi. Nel 1906 bolscevichi e menscevichi, nel
clima di entusiasmo provocato dalla rivoluzione, che ha allargato enormemente
la loro area complessiva, si riunificano fissando le condizioni per la tutela
delle minoranze (il famoso “centralismo democratico”, che garantisce la piena
libertà di discussione, ma impegna poi tutti ad applicare la linea diventata
maggioritaria, senza rinunciare neppure successivamente a difendere le proprie
idee). La scissione definitiva in due partiti avverrà solo nel 1912, dopo la
sconfitta, quando le rispettive posizioni politiche si saranno allontanate
ulteriormente (anche se in periferia rimarranno fino al 1917 circoli in cui
bolscevichi e menscevichi lavorano insieme, per evitare di disorientare la
massa operaia meno matura, che non capisce tutte le questioni su cui è avvenuta
la scissione).
Anche questo conferma che l’organizzazione
“leninista” del partito era nella pratica ben diversa da come è stata
presentata e codificata in epoca staliniana. D’altra parte l’ufficio di
segreteria, diretto da Sverdlov nei primi anni dopo la vittoria della
rivoluzione, era composto da un piccolo nucleo di militanti, e soprattutto
aveva solo il compito di raccogliere e trasmettere informazioni alle
organizzazioni periferiche, e non aveva nulla a che fare con l’ipertrofico
apparato costruito da Stalin a partire dal 1922, che preoccupò tanto Lenin
negli ultimi momenti di lucidità da spingerlo a chiedere nel suo Testamento
politico l’allontanamento di Stalin dalla delicata carica di cui si era
impossessato trasformandola completamente. Un altro dato, che conferma che il
“leninismo” è stato creato da Stalin dopo la morte del grande dirigente
bolscevico, viene dal fatto che quando Lenin seppe che si stava preparando
un’edizione delle sue opere, protestò sostenendo che non gli sembrava utile,
perché tutti i suoi scritti erano legati a fasi concrete e a specifiche
battaglie contro quelle che in quel momento dato gli apparivano posizioni da
contrastare, e non dovevano quindi essere presentate e tanto meno studiate come
verità assolute. Ciò vale non solo per la concezione del partito.
Lenin non voleva che ogni sua parola fosse presa
come una verità eterna e indiscutibile, valida per ogni tempo. Abbiamo parlato
già dell’evoluzione delle sue concezioni sul partito, ma anche sui soviet aveva
un atteggiamento ben diverso nel 1917 rispetto al 1905 (quando era piuttosto
diffidente nei loro confronti perché gli sembravano incontrollabili). Nel 1917
e negli anni immediatamente precedenti, nella riflessione sui successi e le
sconfitte della prima rivoluzione, Lenin aveva capito perfettamente la funzione
oggettiva dei soviet: la sottolinea infatti prima che siano ricomparsi e poi
anche quando si sviluppano senza che i bolscevichi abbiano ancora un peso
significativo al loro interno. E sostiene la parola d’ordine “Tutto il potere
ai soviet” anche quando i bolscevichi sono nettamente minoritari rispetto a
menscevichi e socialrivoluzionari. Lenin ha capito già alla vigilia della
rivoluzione che i soviet sono un organismo spontaneo della classe operaia, che
sorge nei periodi rivoluzionari e consente l’unificazione delle masse ancora
poco politicizzate che stentano a capire la dialettica tra i partiti e le
tendenze politiche, ma sanno bene chi è il più capace e coerente combattente
contro il padrone nella loro fabbrica e lo eleggono. I soviet erano comparsi
per la prima volta nel 1905 in una forma che viene definita “spontanea”, ma
solo nel senso che non era stato nessun partito operaio a dare l’indicazione di
eleggerli: Paradossalmente, era stato un generale della polizia segreta
zarista, Zhubatov, che per poter controllare l’imprevisto movimento di scioperi
aveva chiesto agli operai di eleggere un delegato per ciascuna fabbrica. Il suo
obiettivo era anche quello di identificare e arrestare gli agitatori più
pericolosi (e in effetti lo fa, ma gli operai imparano ad essere più prudenti e
a non comunicare il nome degli eletti). Quel generale aveva involontariamente
suggerito l’unico modo per poter organizzare democraticamente un movimento di
molte decine e centinaia di migliaia di operai, combinando il criterio elettivo
diretto (senza liste di partito, dato che in ogni fabbrica gli operai si
conoscono e scelgono i migliori) con il controllo dal basso, attraverso la
sostituzione immediata dei delegati che nell’assemblea di livello superiore
(cittadina, regionale o nazionale) hanno sostenuto tesi non condivise dal loro
elettorato. Si tratta di uno strumento che ricompare in ogni processo
rivoluzionario, quando entrano in scena milioni di persone in precedenza
inattive politicamente. Ogni rivoluzione proletaria moderna è esattamente
questo: l’entrata in scena di quelle masse sfruttate che in tempi normali sono
passive, indifferenti o rassegnate, e che invece cominciano a partecipare a
movimenti rivendicativi, a scioperi, assemblee. Una rivoluzione inizia quando
quelli che “stanno sotto” non accettano più di rimanervi per sempre e cercano
confusamente la strada per soddisfare le loro rivendicazioni o aspirazioni,
mentre quelli che “stanno sopra” non riescono più a governare come prima, e si
dividono di norma tra chi vuole ricorrere alla repressione più dura e chi pensa
invece di dover fare concessioni anche sostanziose, pur di evitare l’esplosione
di tutte le tensioni accumulate. A monte c’è naturalmente la maturazione di uno
strato operaio che ha accumulato esperienze in passato, e che scopre che trova
consensi fino al giorno prima imprevisti. Questa è la premessa indispensabile
di un’ascesa rivoluzionaria. Naturalmente, il fatto che entrano in scena anche
molti individui fino a poco prima passivi significa che nella massa c’è molta
inesperienza, che lascia spazio inizialmente anche a demagoghi e veri e propri
ciarlatani, o a provocatori, come vedremo sempre nel 1905. Ma quale che sia
l’innesco e la prima direzione embrionale, quello che conta è che sono
moltissimi a fare esperienze di lotta, di discussioni politiche, e cominciano
quindi a ragionare con la propria testa, anziché con le poche idee inculcate
dagli strumenti di trasmissione dell’ideologia delle classi dominanti. La
rivoluzione del 1905 La rivoluzione del 1905 ha colto di sorpresa tutti, anche
la sinistra russa. Non era previsto dalle forze politiche di quel paese, le
quali ritenevano che non ci fosse in quel momento in Russia una condizione
rivoluzionaria; i bolscevichi venivano considerati una setta staccata del
popolo che non sarebbe stata mai capace di fare una rivoluzione. Partiamo dal
rapporto che Lenin fece ai giovani socialisti di Zurigo nel dodicesimo
anniversario della domenica di sangue del 1905 (il giorno in cui un corteo
pacifico e disarmato, mentre si recava dallo zar per portare una petizione, fu
accolto dalle mitragliatrici). Accludiamo una fotocopia di questo testo, di
grande interesse non solo per la ricostruzione di quel giorno drammatico, ma
per l’analisi che traccia delle forze sociali e della dinamica della
rivoluzione russa. È molto significativo che Lenin, mentre prevede le
caratteristiche della prossima rivoluzione, di cui il 1905 è stato “la prova generale”,
non si azzarda a prevederne i tempi, e afferma che forse la sua generazione non
avrebbe visto la rivoluzione trionfare. Ciò smentisce categoricamente tutte le
mistificazioni (sia apologetiche, di origine staliniana, sia criminalizzanti,
di chi vuole ridurre la rivoluzione al colpo di mano di una setta fanatica) che
attribuiscono a Lenin e ai bolscevichi la responsabilità di avere “scatenato la
rivoluzione” del 1917. Va detto che i bolscevichi non erano né potevano essere
d’accordo con l’iniziativa di andare a chiedere umilmente allo zar di
interessarsi alle condizioni del suo popolo. La manifestazione del 22 gennaio
del 1905 era stata organizzata dal pope Gapon (nel corso della rivoluzione si è
scoperto che era un agente della polizia zarista, che lo aveva incaricato di
raccogliere una parte degli operai, sottraendoli all’influenza dei
bolscevichi). Naturalmente, per raccogliere consensi e organizzarli doveva fare
un po' di denunce della situazione esistente. Lenin e la maggior parte dei
bolscevichi e dei militanti più esperti consideravano assurda la petizione (lo
zar, che è l’espressione degli strati più reazionari della società russa, non
può non stare contro gli operai ed è grottesco chiedergli di fare il
contrario). Lenin paragona il testo di quella petizione a quelli dei pacifisti
del momento in cui scrive, cioè agli inizi del 1917. Ma egli osserva che i
pacifisti europei che chiedono ai governi capitalisti assassini di fare una
“pace democratica” sono ipocriti, mentre quelli che seguivano il pope Gapon
erano poveri operai ingenui e inesperti. Nonostante la manifestazione fosse
stata organizzata e guidata da un loro agente che faceva il doppio gioco, i
generali dello lo zar hanno fatto sparare sulla folla perché spaventati
dall’ampiezza della manifestazione. Quando infatti si raccolgono decine e
decine di migliaia di persone esse acquistano coscienza della loro forza.
Inoltre i bolscevichi, pur non approvando il testo della petizione e criticando
gli intellettuali come Massimo Gorki che invece lo approvavano, non si
staccarono dalla massa degli operai e parteciparono anche loro con striscioni e
volantini, per intervenire all’interno della folla per farla riflettere e
maturare. Quando i capi della polizia videro arrivare tante persone, tra le
quali alcune con le bandiere rosse, decisero che la situazione era troppo
pericolosa e spararono uccidendo 2.000 operai. I sopravvissuti presero
coscienza del ruolo dello zar, abbandonando ogni illusione di commuoverlo con
le loro umili petizioni: in ogni epoca, infatti, tra gli umili è diffusa l’idea
che lo zar (o il re, il duce, ecc.) sia buono e che tutto il male dipenda dalle
decisioni dei suoi funzionari, delle quali non sarebbe a conoscenza. In quel
caso la verifica fu bruciante. Dopo il massacro impararono che chiedere
umilmente non è la strada giusta, che bisogna organizzarsi e che lo zar è un
nemico (chiedere a uno che governa nell’interesse dei grandi latifondisti e dei
capitalisti di occuparsi benevolmente della sorte degli operai è come chiedere
a una tigre di diventare vegetariana). Questo è il punto di partenza, che Lenin
ricostruisce e commemora, ma osserva anche un altro dato: nei dieci anni
precedenti all’esplosione del 1905 c’era stata una media di 43.000 scioperanti
l’anno in tutta la Russia, quindi un totale di 430.000 in 10 anni. Nel primo
mese del 1905 (in un solo mese!) gli scioperanti erano diventati 440.000. Il
numero dei lavoratori che entrano in sciopero ha una funzione di “termometro”,
che rivela lo stato d’animo delle masse.
Nel periodo in cui gli scioperanti calano vuol
dire che c’è stata una sconfitta che ha generato sfiducia e rassegnazione. Uno
degli elementi che ha contribuito all’esplosione della rivoluzione è stata la
guerra contro il Giappone, iniziata nel 1904, e che nelle previsioni dello zar
doveva essere facile e doveva essere un diversivo che avrebbe aiutato il
governo a distrarre le masse dai problemi concreti. Quanto più il governo russo
e lo stesso zar si erano vantati della facilità di una vittoria contro i
“macachi gialli” (l’espressione razzista è di Nicola II), tanto più violenta è
stata la reazione alla sconfitta; la Russia subisce una tremenda sconfitta sia
dell’esercito di terra sia della flotta. I giapponesi avevano infatti navi più
moderne, e si muovevano in un’area ben conosciuta. Avevano appreso rapidamente
le tecniche militari più moderne. Inoltre la Russia, nonostante la
transiberiana, aveva difficoltà a mandare tempestivamente rinforzi alle proprie
guarnigioni in Estremo Oriente, che furono e si sentirono praticamente
abbandonate. Ogni guerra – anche se non catastrofica come quella
russo-giapponese – costringe comunque la popolazione a subire maggiori
sacrifici, il che implica un grande malcontento. Le prime manifestazioni e
scioperi del gennaio 1905 protestavano contro il caro-vita. Poi, dopo la
“domenica di sangue”, assunsero un carattere più politico e rivolto contro lo
zar che aveva fatto sparare sugli operai che ne imploravano l’aiuto. La lotta
degli operai cominciò ad essere più sistematicamente organizzata dai
bolscevichi, mentre entravano in scena i contadini. Spesso a innescarla era
proprio la repressione nelle città: dopo i primi scioperi qualche padrone aveva
licenziato gli operai più attivi e li aveva segnalati come agitatori agli altri
capitalisti, per impedire che fossero assunti in un’altra fabbrica. Ma questi
operai, che avevano in genere o il padre o almeno il nonno contadino nel
villaggio di origine, vi tornavano per sfamarsi, e nel villaggio diventavano
gli organizzatori della protesta contadina, col duplice vantaggio della
coscienza politica acquisita in fabbrica e dell’essere accettati perché
conosciuti. Negli anni del populismo russo erano gli studenti che andavano dai
contadini per sensibilizzarli, ma poiché appartenevano alle classi alte, non potevano
suscitare simpatia e fiducia piena, mentre l’operaio licenziato viene ascoltato
di più, e rispetto ai contadini ha un livello culturale più elevato perché in
fabbrica ha dovuto imparare a leggere. Le campagne russe vengono così sconvolte
da grandi movimenti contadini che assalgono le dimore dei nobili e le
incendiano: i contadini infatti non volevano che uno di loro prendesse il posto
del nobile, volevano che non ci fossero più nobili (questo aspetto ha
caratterizzato la rivoluzione russa come quella francese). Le idee
rivoluzionarie penetrano anche nell’esercito; non tanto in quello di terra –
che pure era stato duramente provato, ma era composto in prevalenza di
contadini analfabeti, che era più difficile e lento coinvolgere e influenzare –
quanto nella flotta, dato che in marina venivano reclutati operai di una certa
qualificazione perché le navi moderne erano vere e proprie fabbriche naviganti.
Tra essi penetrano più facilmente i giornali
bolscevichi o anarchici, e una parte di essi si uniscono alla rivoluzione, con
la famosa rivolta della corazzata Potiomkin immortalata da un film di
Eizenstejn. L’insieme di questi fattori porta alla crescita di un movimento che
scuote l’impero zarista e costringe lo zar a fare delle concessioni, sia pure
contraddittorie e ambigue. Ad esempio, egli annuncia che sarà eletta una Duma
(parlamento), ma la legge elettorale è talmente truccata che nessuno si
commuove per questa benevola concessione, e lo zar dovrà proporne un’altra un
po’ più rappresentativa. Nel 1905 il ruolo delle “forze soggettive”, cioè dei
rivoluzionari coscienti che lavoravano per estendere la rivoluzione e portarla
a uno sbocco vittorioso, era modesto. Specialmente nei primi mesi, i
rivoluzionari erano poche centinaia, che diventarono poi migliaia, e
influenzarono centinaia di migliaia di lavoratori, ma non erano ben
organizzati. Ad esempio, già tra Mosca e Pietroburgo c’era una sfasatura nei
tempi della lotta: a Mosca nel dicembre del 1905 si tenta un’insurrezione con
8.000 operai armati che resistono per 9 giorni alle forze militari, ma alla
fine viene sconfitta perché rimane isolata. Anche a Pietroburgo i soviet
subiscono una sconfitta e i dirigenti del soviet della città, compreso il suo
presidente Lev Trotskij, vengono arrestati e condannati alla deportazione. Nel
corso del 1906 e 1907 il movimento arretra quasi ovunque, anche se si
susseguono tentativi di “lotta partigiana”, che danno l’illusione che si possa
conquistare il potere con le armi. In realtà sono scaramucce di retroguardia.
Negli anni dal 1907 al 1912 si verifica un crescendo di sconfitte e cala
drasticamente il numero degli scioperi. Solo dal 1912 comincia nuovamente a
salire il numero degli scioperi, ma la maggior parte degli intellettuali
socialdemocratici, compresi quelli che si erano avvicinati nel corso della
lotta ai bolscevichi, non se ne accorgono neppure, perché considerano
irreversibile la sconfitta e fanno autocritiche che “gettano il bambino con
l’acqua sporca”. Le loro teorizzazioni sono a volte fantasiose, ma partono tutte
dall’idea che la rivoluzione è impossibile.
I bolscevichi si riducono a un nucleo molto
piccolo: Lenin scrive che in alcuni momenti quelli rimasti in contatto con il
centro del partito in esilio erano poche centinaia. Ma la loro riflessione è
proficua: se inizialmente erano stati diffidenti nei confronti dei soviet, per
la difficoltà a “controllarli”, sotto l’impulso di Lenin si convincono che i
soviet erano lo strumento decisivo per la rivoluzione. Anche una parte di
quelli che hanno perso il contatto con il partito continuano a lavorare
politicamente nelle fabbriche, conquistando ancor più prestigio tra gli operai,
che apprezzano soprattutto la tenacia e la lunga durata dell’impegno, specie
nelle fasi in cui le sconfitte subite hanno ridotto il numero di chi lotta.
1917: Lenin tra il febbraio e l’ottobre Scheda Perché Lenin viene rimosso dalla
sinistra italiana Lenin continua ad essere calunniato dalla borghesia, ma anche
non difeso da una sinistra di cui spesso si direbbe che non lo conosca affatto:
a volte, ad esempio, gli si contrappone una Rosa Luxemburg banalizzata,
sorvolando su quel che la grande rivoluzionaria aveva detto nello stesso
famosissimo scritto sulla rivoluzione russa, che come L’estremismo malattia
infantile del comunismo è citato per due o tre frasi o il titolo e non per i
contenuti.
Altre volte, purtroppo, si arriva ad accettare più
o meno consapevolmente la versione più diffusa dai mass media, che gli mette in
conto tutti i crimini di Stalin. In occasione dell’ottantesimo anniversario della
rivoluzione, sulla grande stampa borghese, della rivoluzione in quanto tale si
è parlato pochissimo, mentre sono state rilanciate le più grottesche
retrospettive sui “crimini del comunismo”. Il record della stupidità,
dell’ignoranza e della malafede è stato raggiunto il 7 novembre da un lungo
editoriale della “Stampa” firmato da Barbara Spinelli, in cui si spiegava
saccentemente che Lenin aveva istituito “i Konclager, abbreviazione di
koncentracionnyi lager, per piegare gli antirivoluzionari, i socialisti, gli
anarchici, i religiosi, i combattenti della guerra di Spagna”… e via dicendo
analoghe sciocchezze. Sulle ragioni di tanta ostilità degli organi della
borghesia non possono esserci dubbi, ma anche la sostanziale indifferenza della
stessa sinistra (a parte quei piccoli nuclei di nostalgici che vanno a
celebrare l’anniversario sulla Piazza Rossa in compagnia dei residuati dello
stalinismo e dei nazionalisti più o meno antisemiti, accomunati dal rimpianto
per la perduta potenza russa) ha una spiegazione abbastanza semplice: Lenin è
stato associato per anni al regime sovietico, il cui crollo ha lasciato
profondamente disorientati tutti quelli che avevano ignorato per decenni le
denunce e le previsioni della sua crisi, dall’Opposizione di sinistra e dal Trotskij
del 1923 e soprattutto del 1936, fino al Guevara del 1962-1965, (non a caso
censurato ancor oggi nella stessa Cuba). Quindi c’è prima di tutto una
reticenza su tutta l’esperienza ieri glorificata o comunque accettata, poi
rimossa, che si riverbera sul presunto responsabile di tutto. A proposito di
rimozione, il fatto che nel PRC in sei anni di esistenza non si sia fatto nulla
per aprire un dibattito sulla crisi dell’URSS, non si deve solo al desiderio di
non offendere i piccoli nuclei di nostalgici, ma a una sostanziale indifferenza
al problema. Alla maggior parte di quelli che “fanno politica” oggi nei DS o
nello stesso PRC, i ricordi di eventuali letture giovanili di qualche scritto
di Lenin (che probabilmente ci sono state anche in chi, come Bertinotti,
rivendica un’altra matrice culturale) non evocano altra sensazione che qualche
imbarazzo. Al massimo Lenin viene difeso dalle accuse più volgari, anche se lo
si fa tiepidamente, come si fa, d’ufficio, per lo stesso Togliatti, di cui si
respinge il linciaggio, ma che non viene rivendicato come padre fondatore e
tantomeno fatto leggere (dato che anche per abbellire le scelte impostegli
dalla collaborazione con la burocrazia sovietica usava un linguaggio “troppo
marxista” che oggi imbarazza); Lenin comunque viene in genere esorcizzato
ripetendo le banalità sulla “presa del Palazzo d’Inverno”, che facevano parte
del patrimonio di DP non meno che dell’ultimo PCI. È la stessa sorte toccata al
Gramsci politico rivoluzionario, di cui praticamente nessuno parla, perché il
culto di Gramsci è affidato nel PRC (come nell’ultimo PCI) a una casta
accademica di esteti, letterati e filosofi, che sono sinceramente innamorati
dei Quaderni dal carcere, ma hanno letto ben poco altro o se hanno tentato di
farlo, ne sono stati annoiati. Parlano tanto di egemonia, ma di fatto subiscono
essi stessi l’egemonia dell’interpretazione di Giuseppe Vacca, l’ideologo dei
DS di cui parecchi di loro in politica sono stati discepoli. Gramsci viene così
stravolto assolutizzando le note inevitabilmente cifrate del carcere e
ignorando o sottovalutando il rapporto con l’Ottobre e con Lenin. In realtà
Lenin, come il Gramsci politico dell’Ordine Nuovo e delle Tesi di Lione, viene
ignorato per fondate ragioni dalla “sinistra” di oggi, che ha ben poco a che
vedere con l’uno e l’altro. Ma se il filtro ideologico e letterario impoverisce
Gramsci, bene o male ne fa comunque un oggetto di venerazione, che quindi a
qualcuno può venire in mente di conoscere direttamente, mentre Lenin è proprio
escluso dall’orizzonte del militante comunista degli anni Novanta. La
straordinaria grandezza di Lenin nel 1917 Quello che imbarazza quasi tutta la
sinistra di oggi è la straordinaria capacità di Lenin di non fermarsi alla
registrazione dei dati immediati, e di guardare lontano, capovolgendo in pochi
mesi rapporti di forza assolutamente negativi per i bolscevichi. Tra il
febbraio e l’ottobre i bolscevichi accrescono straordinariamente la loro forza
numerica, e il loro radicamento, fino a conquistare la maggioranza nei soviet
delle grandi città industriali e quindi nel Congresso panrusso dei soviet.
Attribuirne il merito fondamentale a Lenin non è “culto della personalità”, ma
il riconoscimento di un ruolo insostituibile, che è venuto in primo luogo da
Trotskij, che pure avrebbe potuto attribuirsi a ragione di aver intuito fin dal
1905 la dinamica di trascrescenza della rivoluzione e la funzione dei soviet.
Trotskij ha sottolineato più volte che l’elemento determinante per il successo
della rivoluzione è stato il partito bolscevico forgiato negli anni del
riflusso non solo con i veterani, ma anche con i quadri migliori emersi durante
la rivoluzione del 1905. È vero che quel partito aveva continuato fino
all’aprile del 1917 a ripetere i vecchi schemi sulla rivoluzione a tappe, che
avrebbero implicato una più o meno lunga fase di collaborazione con la
borghesia, ma al tempo stesso si era costruito uno straordinario radicamento
nelle fabbriche più importanti, che sarebbe stato decisivo nella lotta per
l’egemonia nei soviet. Proprio per questo Lenin appariva insostituibile a
Trotskij: solo Lenin, per tutta la sua storia di presenza ininterrotta nel
dibattito e nella costruzione del partito, anche negli anni in cui la
repressione e il riflusso avevano spezzato quasi tutti i legami tra il centro
esterno e la maggior parte del territorio russo, in cui sembravano essere
rimasti organizzati e collegati solo pochissimi quadri. È questo lavoro che dà
a Lenin l’autorità per battere gli orientamenti che si erano delineati in sua
assenza nei primi mesi della rivoluzione e che avevano portato a un appoggio
sostanziale al governo provvisorio interclassista di Kerenskij, che impediva al
partito di diventare il catalizzatore delle inquietudini e del malcontento
delle masse. Lenin si batte, prima con le Lettere da lontano, poi con le Tesi
d’aprile per conquistare la maggioranza contro il conciliazionismo di Muranov,
Kamenev e Stalin, che di fatto dirigevano il partito attraverso la redazione
della Pravda. Trotskij era arrivato alle stesse conclusioni di Lenin, ma era
facile per i “vecchi bolscevichi” respingerne le analisi, e perfino la domanda
di entrare nel partito con il consistente gruppo che si era raccolto intorno
alle sue posizioni: niente da fare, era un estraneo. Lenin arrivava a Pietrogrado
con alle spalle venticinque anni di lavoro politico tenace, ma il suo successo
era legato anche alla maturazione del suo pensiero politico. Tuttavia, senza
quel lungo e paziente lavoro di costruzione, riconosciuto da tutto il partito
(anche da chi in quel primo mese dopo la rivoluzione di febbraio aveva sbandato
verso i menscevichi appoggiando il governo di alleanza interclassista), non
avrebbe potuto mettere a frutto la riflessione in cui negli anni precedenti
aveva accolto le tesi di Trotskij sul carattere socialista della rivoluzione
russa. Aveva al tempo stesso affinato e rivisto le sue idee sul partito, già
trasformatesi nel fuoco della rivoluzione del 1905 (ma doveva fare i conti con
chi era rimasto attaccato alla lettera del Che fare?), mentre aveva superato
completamente le diffidenze che i bolscevichi avevano avuto nel 1905 sui
soviet, perché imprevedibili e incontrollabili dall’apparato di partito, pieni
com’erano di nuove avanguardie espresse dalle fabbriche e non legate a nessuna
organizzazione. Egli ne aveva colto invece ben presto la complessità e la
ricchezza come strumento di organizzazione di tutta la classe. La sua
riflessione sulla dinamica socialista della rivoluzione russa e sulle sue forze
motrici era stata espressa lucidamente nel gennaio 1917 in una conferenza ai
giovani operai nella casa del popolo di Zurigo, nell’anniversario della
“domenica di sangue” del 1905. In quel Rapporto sulla rivoluzione del 1905,
dopo aver ricordato limiti ed errori che avevano facilitato la controffensiva
del potere, affermava:
Ma la rivoluzione russa rimane tuttavia, e proprio
per il suo carattere proletario, il prologo dell’imminente rivoluzione europea.
È indubbio che questa rivoluzione potrà essere soltanto proletaria, nel senso
più profondo della parola, cioè proletaria, socialista anche per il suo
contenuto. Questa rivoluzione dimostrerà in una misura ancora più grande, da un
lato, che soltanto delle lotte accanite, cioè le guerre civili, potranno
liberare l’umanità dal giogo del capitale e, dall’altro, che soltanto i
proletari con una coscienza di classe evoluta potranno agire e agiranno come
capi della stragrande maggioranza degli sfruttati. Il silenzio di tomba che
regna oggi in Europa non deve trarci in inganno. L’Europa è gravida di rivoluzione.
E poche righe dopo concludeva: Noi vecchi non vedremo forse la battaglie
decisive dell’imminente rivoluzione. Penso però di poter esprimere la fondata
speranza che i giovani, i quali militano così egregiamente nel movimento
operaio della Svizzera e di tutto il mondo, avranno la fortuna non soltanto di
realizzare la futura rivoluzione proletaria, ma anche di condurla alla
vittoria. Una testimonianza straordinaria della lucidità strategica di Lenin,
ma anche del fatto che a due mesi dall’esplodere della rivoluzione non poteva
formulare previsioni precise sui tempi. Una clamorosa smentita di chi da destra
riduce le rivoluzioni a complotto e colpo di Stato, ma anche di chi da sinistra
per anni ha accettato la ricostruzione a posteriori fatta da Stalin (e immortalata
cinematograficamente da Bondarciuk), che ha cancellato la dinamica oggettiva
della rivoluzione e le caratteristiche di autorganizzazione espresse nei
soviet, riconducendo tutto alle direttive di un partito demiurgo e monolitico
(che in quella forma nel 1917 non c’era). Ma quella riflessione era troppo
lontana da quel che continuava a pensare quel pezzo di partito che si stava
ricostruendo, sotto la guida della redazione della Pravda, ricomparsa
legalmente dopo il febbraio. Per questo Lenin non esitò a chiedere la
mediazione dei socialisti svizzeri per ottenere la possibilità di rientrare
subito in Russia col famoso “vagone piombato”. La mediazione di Grimm aveva
definito un vago accordo di scambio tra i bolscevichi e i civili tedeschi
internati in Russia, tutto da definire dopo il loro arrivo in Russia; non c’era
dubbio comunque che l’assenso del governo imperiale era fondato sulla speranza
che i bolscevichi avrebbero facilitato il compito alla Germania indebolendone
l’avversario sul fronte orientale. Una speranza che risulterà illusoria, perché
i bolscevichi avrebbero continuato a lavorare per la rivoluzione in tutta
l’Europa, e comunque la loro vittoria avrebbe finito per avere ripercussioni
sulle stesse sorti dell’impero germanico. Eppure allora fece gridare al
tradimento, e tutti i partiti russi condannarono Lenin per quell’accordo (di
cui comunque si avvalsero anche militanti di altre tendenze). Prima ancora di
partire, e prima di scrivere le famose Lettere da lontano, straordinariamente
lucide, ma non pubblicate allora (tranne la prima, con tagli pesanti e
significativi) dalla redazione della Pravda, Lenin aveva inviato il 19 marzo
(appena undici giorni dopo la “rivoluzione di febbraio”, la cui data di inizio
nel calendario giuliano corrispondeva in quello gregoriano in vigore nel resto
dell’Europa all’8 marzo) un secco telegramma ai bolscevichi esiliati in Svezia
che stavano partendo per la Russia, con indicazioni inequivocabili: Nostra
tattica: completa sfiducia, nessun appoggio nuovo governo, sospettiamo
soprattutto Kerenski, armamento proletario unica garanzia, elezioni immediate
Duma pietrogradese, nessun avvicinamento altri partiti. Telegrafate questo
Pietrogrado. Ulianov. La decisione di partire ad ogni costo non poteva non
essere alimentata dalla scoperta che non erano state pubblicate la seconda
lettera (Il nuovo governo e il proletariato, che indicava come prospettiva un
controllo esterno dei soviet sul governo provvisorio e la creazione di una
milizia del popolo), la terza (Sulla milizia proletaria) e la quarta (Come
ottenere la pace?). La quinta lettera, che doveva affrontare I compiti
dell’organizzazione proletaria rivoluzionaria dello Stato, vista la sorte delle
precedenti, rimase allo stadio di una bozza non terminata. D’altra parte anche
i tagli apportati alla prima lettera parlavano chiaro: erano state censurate
tutte le frasi polemiche contro Kerenski e soci, e soprattutto le indicazioni
troppo nette contro la collaborazione interclassista. Lenin polemizzava
apparentemente contro certi “menscevichi ondeggianti” che “impantanandosi
troppo spesso nel pacifismo piccolo-borghese, sono pronti a esaltare l’accordo
del partito operaio con i cadetti”, e che “in ossequio alla loro vecchia
dottrina imparata a memoria (e tutt’altro che marxista)” sorvolavano sui legami
organici del nuovo governo con gli imperialisti anglo-francesi. Parlava di
“menscevichi” tra virgolette, ma era chiaro che sferzava la redazione della
Pravda, che appunto …censurò questa frase e una buona dozzina di altre dello stesso
genere. Una buona ragione dunque per sfidare il prevedibile coro di calunnie
per l’attraversamento del territorio tedesco (“Lenin complice
dell’imperatore”), e andare a gettare il proprio peso sul piatto della
bilancia, per far riassumere al partito bolscevico un ruolo di alternativa
radicale al sistema, anziché di ruota di scorta del governo interclassista. La
“svolta di aprile” La “svolta di aprile” iniziò nel momento stesso in cui Lenin
mise piede a Pietrogrado, il 3 aprile. Trascinato in una sala di rappresentanza
della stazione di Finlandia, fu accolto da un importante leader menscevico,
Nikolaj Cheidze, che a nome del Soviet gli tenne un discorsetto retorico,
auspicando un impegno “per difendere la nostra rivoluzione da tutti gli
attentati, sia dall’interno che dall’esterno”, il che voleva dire in parole
povere proseguire la guerra. Subito dopo un giovane ufficiale di marina,
animato dalle migliori intenzioni, ma che esprimeva tutta la confusione del
momento, in un messaggio di saluto auspicò addirittura che Lenin entrasse
subito nel governo provvisorio! Lenin ignorò i suoi interlocutori, e si rivolse
direttamente alla folla: Cari compagni, soldati, marinai e operai, sono felice
di salutare in voi la rivoluzione russa vittoriosa, di salutarvi come avanguardia
dell’esercito rivoluzionario mondiale… Non è lontana l’ora in cui, all’appello
del compagno Karl Liebknecht, i popoli rivolgeranno le armi contro i
capitalisti sfruttatori. La rivoluzione russa da voi compiuta ha inaugurato una
nuova epoca. Viva la rivoluzione socialista mondiale! Subito dopo Lenin dovette
salire su un’autoblinda guidata da soldati bolscevichi, che lo accompagnarono a
una riunione in corso dei quadri bolscevichi di Pietrogrado, obbligandolo però
a fermarsi più volte lungo la strada per ripetere il suo breve discorso alle
folle che lo attendevano lungo il percorso. Nei primi colloqui con i compagni
che lo avevano accolto aveva già espresso aspramente la sua disapprovazione per
gli articoli della Pravda. Ma quando arrivò nella sala dove era in corso la
riunione, sconvolse l’uditorio esprimendo in due ore quel che aveva anticipato
sommariamente nei primi messaggi. Nel clima del mese precedente, in cui Stalin
e Kamenev avevano fatto votare alla conferenza bolscevica l’appoggio più o meno
critico al governo provvisorio, ma anche una mozione per la riunificazione con
i menscevichi, poteva accadere che a una riunione del genere fosse presente
“per caso” un socialdemocratico senza partito, Sukhanov, a cui dobbiamo una
descrizione vivissima del primo incontro di Lenin col suo partito: Non
dimenticherò mai quel discorso tonante che scosse e sorprese non soltanto me,
eretico sopraggiunto per caso, ma anche tutti gli ortodossi. Affermo che
nessuno si aspettava niente di simile. Sembrava che tutti gli elementi fossero
usciti dai loro rifugi e che lo spirito di distruzione universale, che non
conosceva né limiti, né dubbi, né difficoltà umane, né calcoli umani, si
librasse nella sala della Ksesinskaja sopra le teste dei discepoli stregati.
Evidente tanto l’ostilità preconcetta, quanto l’ammirazione per una simile
forza della natura. Sukhanov rimase stupito anche da una battuta di Lenin
rivelatrice della sua sfiducia nel governo provvisorio: “all’arrivo pensavo che
ci avrebbero subito portato in carcere alla fortezza Pietro e Paolo…”. Poteva
sembrare uno scherzo, e comunque scandalizzò i sostenitori del governo
provvisorio, ma in realtà era la comprensione dell’inevitabile comportamento di
un governo imperialista nei confronti dei rivoluzionari. E difatti, in luglio,
tutti i principali dirigenti bolscevichi finirono in carcere, tranne Lenin, che
fu però costretto a rifugiarsi nella vicina Finlandia. Subito dopo avere scosso
l’assemblea bolscevica, che si sciolse per quel giorno senza un dibattito (ma ci
sarebbe stato poi per molti giorni), Lenin scrisse quel breve riassunto delle
sue idee, passato alla storia col nome di Tesi d’aprile, che fu pubblicato il
giorno successivo, 4 aprile, a suo nome, e solo a suo nome. Nessuna
organizzazione, nessun singolo dirigente vi appose la sua firma. Quel giorno
stesso Lenin interveniva nella conferenza di partito, che era in corso da vari
giorni e che si stava ormai concludendo, riaprendone il dibattito con un
discorso sferzante, che attaccava direttamente la “tendenza unificatrice” con i
menscevichi, rappresentata proprio da Stalin e Kamenev: “unirsi con i fautori
della difesa nazionale significa tradire il socialismo. Penso che è meglio
restar soli come Liebknecht, solo contro centodieci!” Ma la conferenza si era
già espressa nei giorni precedenti per la riunificazione, sicché Lenin fu
portato a un’assemblea congiunta di bolscevichi e menscevichi, dove espose le
sue tesi con decisione, e fu giudicato un pazzo e un anarchico. “Il suo
programma – ammise più tardi il socialrivoluzionario Zenzinov – non provocava
indignazione ma era piuttosto oggetto di scherzi, tanto sembrava a tutti
stupido e chimerico”. Perfino Kerenski dichiarò in seno al governo che voleva
far visita a Lenin, per farlo ragionare dato che “vive in un’atmosfera di
completo isolamento, vede tutto attraverso le lenti del suo fanatismo, non ha
vicino a sé una sola persona che lo aiuti un po’ ad orientarsi su ciò che
accade”. Quanto all’isolamento, riferito a quel che oggi chiamiamo “ceto
politico”, Kerenski aveva ragione. Perfino la redazione della Pravda l’8
aprile, quattro giorni dopo la pubblicazione delle Tesi, scriveva che “lo
schema generale del compagno Lenin ci sembra inaccettabile, nella misura in cui
presenta come portata a termine la rivoluzione democratico-borghese e mira a
una immediata trasformazione di questa rivoluzione in rivoluzione socialista”.
Il gruppo dirigente bolscevico, insomma, scopriva con orrore che Lenin era
diventato “trotskista” e se ne dissociava in nome del vecchio e fallimentare
schema della rivoluzione a tappe. Ma il corpo del partito, e migliaia di nuovi
quadri ancora non organizzati che stavano emergendo nei soviet, si riconobbero
rapidamente nelle tesi di Lenin. Nel corso di una discussione appassionata
durata una ventina di giorni, e che si concluse in una nuova conferenza
bolscevica tenuta a Pietrogrado dal 24 al 29 aprile, Lenin riusciva a
convincere anche la maggioranza dei dirigenti su tutto, tranne che sul cambio
del nome del partito da socialdemocratico a comunista, e sulla partecipazione a
una nuova sessione prevista per la conferenza internazionale di Zimmerwald, che
Lenin escludeva, e il partito votò invece quasi all’unanimità. La questione fu
risolta dalla crisi dei centristi e dei pacifisti che avevano costituito la
maggioranza di Zimmerwald, che non riuscirono ad accordarsi e fecero saltare la
riunione. In quella nuova conferenza il partito, entrato nella rivoluzione di
febbraio con 24.000 militanti, non sempre collegati e orientati, registrava già
una crescita significativa: i 149 delegati rappresentavano 79.000 iscritti.
Sotto l’influenza di Lenin i bolscevichi non si limitarono ad aprire le porte
ai lavoratori “senza partito”, ma accolsero nelle loro file e nello stesso
nucleo dirigente il gruppo dei Mezrayonkij, i cui i principali esponenti erano
Trotskij (che arrivò a Pietrogrado solo a metà maggio perché trattenuto dalle
autorità britanniche sulla via del ritorno) e Lunaciarskij, ma che raccoglieva
molti altri quadri prestigiosi che avevano diffidato della rigidità
organizzativa dei bolscevichi e al tempo stesso erano decisamente più a
sinistra di essi nella valutazione dei compiti della rivoluzione e nel
conseguente rifiuto di appoggiare il governo provvisorio. Senza l’arrivo di
Lenin l’inserimento di questi preziosi compagni sarebbe stato impensabile: al
contrario, si pensava alla fusione con i menscevichi che partecipavano a un
governo borghese e antioperaio! Già in aprile a Pietrogrado si verificano i
primi scontri tra le forze della conservazione e i rivoluzionari. Lenin deve
richiamare severamente i compagni tentati dal bruciare le tappe, lanciando
prematuramente la parola d’ordine insurrezionale “Abbasso il governo
provvisorio”, in un contesto in cui le masse non erano in grado di
comprenderla. “In mancanza di una solida maggioranza popolare (cioè cosciente e
organizzata) in favore del proletariato rivoluzionario, questa parola d’ordine
o è un’espressione vuota, o può portare a tentativi avventuristici”. Una parola
d’ordine slegata dal contesto politico è per Lenin “una colpa molto grave, un
elemento di disorganizzazione”.
Bisogna conquistare gli strati intermedi non
ancora politicizzati, “spiegare pazientemente”, per preparare il successivo,
più profondo, più consapevole, movimento delle masse verso i bolscevichi. La
crisi di luglio Un atteggiamento simile si manifesterà ancor più chiaramente
nella crisi di luglio, quando non qualche piccolo gruppo marginale, ma interi
settori del proletariato di Pietrogrado “scavalcarono a sinistra” i bolscevichi
lanciandosi in un’iniziativa insurrezionale prematura perché circoscritta alla
capitale. Uno straordinario libro di uno studioso nordamericano di origine
russa, Alexander Rabinowitch, I bolscevichi al potere. La rivoluzione del 1917
a Pietroburgo (Feltrinelli, Milano, 1978) ha ricostruito in oltre 400 pagine il
periodo tra il luglio e l’ottobre. Quello che colpisce di più è che i dirigenti
bolscevichi, pur avendo tentato di evitare una pericolosa fuga in avanti da
parte di settori del loro stesso partito, si sono guardati bene dal
dissociarsi, ma sono rimasti all’interno del movimento che pure in parte non
condividevano, pagandone il prezzo in termini di arresti e di un momentaneo
sbandamento di altre aree del partito, praticamente messo fuori legge per
alcuni mesi. Un dato sconvolgente per chi ha visto il comportamento di molti
dirigenti del PCI (non solo nell’ultimo periodo) pronti a bollare come
provocatori indicandoli alla repressione i compagni “estremisti” o presunti
tali. Ma è questo atteggiamento che spiega la pagina de L’estremismo in cui
Lenin afferma che in Russia l’estremismo non è mai diventato un fenomeno
importante e pericoloso, perché il partito ha saputo coglierne le ragioni
profonde, interpretarle, indirizzarle verso azioni più proficue, ovviamente senza
rinunciare alla critica, ma senza mai abbandonare il movimento sospingendolo
verso un’irrazionale disperazione. Per capire quella crisi, bisogna ricordare
che a Pietrogrado nel febbraio non c’erano più di 2.000 bolscevichi, che nella
conferenza di fine aprile erano già diventati 6.000, e alla fine di giugno
erano 32.000, con diverse altre migliaia di sostenitori organizzati in forma
più elastica nell’esercito. Ovviamente, la maggior parte di loro “sapevano poco
o nulla di marxismo, e avevano in comune quasi soltanto un’inestinguibile sete
di azione rivoluzionaria”. Se il partito a luglio avesse rotto con essi non
sarebbe stato più possibile “tentare l’impossibile”, non ci sarebbe stato
l’Ottobre. Dopo il ritorno di Lenin la crescita dell’influenza del partito è
stata rapida, ma non costante. Soprattutto non si è avuta in modo uguale nei
diversi settori della società. I bolscevichi aumentavano incessantemente il
loro peso nella fabbriche, anche per l’adesione al loro partito di menscevichi,
anarchici, operai non iscritti a nessun partito; nelle guarnigioni le loro idee
si facevano strada, anche tra i soldati che cominciavano il loro discorso
condannando Lenin come agente della Germania e i bolscevichi nemici dell’unità,
ma lo proseguivano affermando che la pace doveva essere immediata e senza
annessioni, e che la terra doveva essere distribuita immediatamente (i soldati
erano quasi tutti di origine contadina, dato che gli operai servivano in
fabbrica o erano casomai arruolati nella marina, che richiedeva elementi con
una certa preparazione tecnica), e soprattutto mentre con le parole
condannavano i bolscevichi, “votavano per loro con i piedi” abbandonando le
trincee per recarsi nei villaggi per partecipare alla divisione delle terre. Le
parole d’ordine elementari: pace, terra, controllo operaio, potere ai soviet
(quest’ultima avanzata in determinati momenti, e ritirata quando appariva
inverosimile, ad esempio dopo la sconfitta del movimento seminsurrezionale di
luglio e la conseguente repressione) erano alla base del successo crescente dei
bolscevichi. Il controllo operaio non era oggetto di dotte dissertazioni o di
ben congegnati progetti di legge, ma veniva messo in pratica nella maggior
parte delle fabbriche. La stessa giornata di 8 ore non venne richiesta al
padronato e meno che mai al governo provvisorio, ma venne imposta dal basso:
gli operai rivoluzionari al termine delle 8 ore suonavano la sirena per dare il
segnale di uscire e tutti uscivano. In pochi giorni i padroni che avevano
necessità di produrre dovettero fare buon viso a cattivo gioco e assumere
operai sufficienti per istituire un terzo turno (si lavorava allora in due
turni di dodici ore!). Un’esperienza esaltante, che dava agli operai la misura
della loro forza, e fondamentale per la rivoluzione, perché permetteva a una
massa di operai fino a quel momento abbrutiti dal lavoro di avere tempo per
impegnarsi politicamente, per partecipare ad assemblee, ecc. Singolare
contraddizione, i menscevichi si opponevano alla rivendicazione delle 8 ore “in
quel momento” perché prematura, o perché, dicevano, “era una parola d’ordine
utopistica che era già stata all’origine della sconfitta del 1905…”. Gli
industriali invece si piegarono presto, perché speravano con quella concessione
di fermare il movimento, ripromettendosi di recuperare quel che avevano dovuto
concedere appena ripreso in pieno il potere politico intaccato dal “dualismo di
potere”. Non ci riuscirono solo perché, riarmati politicamente da Lenin, i
bolscevichi capirono che una situazione di dualismo di potere non può protrarsi
indefinitamente, e decisero nell’ottobre di risolverla prendendo loro
l’iniziativa prima che ci fosse un altro tentativo reazionario come quello del
generale Kornilov in settembre. Tuttavia le elezioni delle Dume municipali in giugno
rivelavano una contraddizione profonda tra la crescita del radicamento operaio
dei bolscevichi e i risultati elettorali: Mentre i bolscevichi si impadronivano
irresistibilmente delle fabbriche e dei reggimenti, le elezioni alle Dume
democratiche davano una prevalenza schiacciante e in apparenza crescente ai
conciliatori.[…] È vero che la Duma del quartiere di Vyborg, puramente
proletario, ebbe una maggioranza bolscevica. Ma si trattava di un’eccezione. In
giugno, alle elezioni di Mosca i socialrivoluzionari raccolsero più del 60% dei
voti. Furono anch’essi stupefatti di questa cifra: non potevano non avvertire
che la loro influenza stava rapidamente declinando. Troskij spiega
magistralmente la contraddizione, sia con considerazioni generali (“le masse non
sono omogenee e del resto imparano ad attizzare il fuoco della rivoluzione solo
bruciandosi le dita e tirandosi indietro”), sia con un’analisi specifica dei
movimenti delle masse che si rivelavano nel voto: Gli strati avanzati degli
operai e dei soldati si affrettavano già a liberarsi dalle illusioni
conciliatrici. Nel frattempo, i più larghi strati di popolino delle città
cominciavano appena a muoversi. Per queste masse disperse le elezioni
democratiche costituivano forse una prima possibilità e comunque una delle rare
occasioni per pronunciarsi politicamente. Mentre l’operaio, ieri ancora
menscevico o socialrivoluzionario, votava per il partito dei bolscevichi
trascinandosi dietro il soldato, il cocchiere, il facchino, il portiere, la
venditrice di mercato, il bottegaio e il suo commesso, il maestro, nascevano
alla vita politica con un atto eroico come dare il voto ai socialrivoluzionari.
Quel risultato, commentava Trotskij, era “l’ultimo bagliore di una fiaccola che
si spegneva”. Anche gli altri organi della democrazia, “appena costituiti, per
il loro ritardo, erano già ridotti all’impotenza. Ciò significava che la marcia
della rivoluzione dipendeva dagli operai e dai soldati, e non dalla polvere
umana sollevata e fatta turbinare dalle raffiche della rivoluzione”. Il “fronte
unico” contro Kornilov L’occasione decisiva per il passaggio dei bolscevichi
dalla galera al potere fu il tentativo di colpo di Stato militare di Kornilov.
Nominato capo di stato maggiore da Kerenski (come 65 anni dopo Pinochet fu nominato
da Allende, dato che i riformisti non imparano mai le lezioni della storia)
Kornilov era ostile in blocco a tutte le tendenze socialiste, comprese le più
moderate, e voleva solo via libera per l’unica cosa che gli sembrava utile:
ancellare ogni ruolo dei soviet nell’esercito, ristabilire la pena di morte,
cancellare ogni traccia della rivoluzione di febbraio cacciando lo stesso
governo provvisorio. I bolscevichi detestavano Kerenskij e più volte avevano
lanciato la parola d’ordine “via i ministri borghesi dal governo”, che aveva la
funzione di essere comprensibile alla base dei partiti operai spingendoli a
rompere la collaborazione di classe. Ma di fronte a Kornilov, Lenin dalla
Finlandia, Trotskij e gli altri dalle prigioni “repubblicane”, decisero di
concentrare il fuoco sul generale golpista, sostenendo momentaneamente lo
stesso governo Kerenski (ma “come una corda sostiene un impiccato”…). Così non
solo non fu indebolito il fronte contro Kornilov, ma i bolscevichi
conquistarono uno spazio senza precedenti e imposero la scarcerazione dei loro
dirigenti, per rafforzare le mobilitazioni. Il treno blindato di Kornilov si
avvicinava sempre più lentamente a Pietrgrado, bloccato da folle di operai e
contadini che dialogavano con i soldati inducendoli a disertare, sabotato dai
ferrovieri che guastavano le macchine e smontavano le rotaie lungo il percorso.
Quando il grosso dei soldati e dei sottufficiali aveva disertato, anche molti
ufficiali cominciarono a dileguarsi approfittando di ogni sosta.
La cattura di Kornilov fu facile e incruenta.
Purtroppo la rivoluzione fu troppo generosa, e il generale fellone poté fare
ancora molte vittime durante la guerra civile. La tattica dei bolscevichi
durante quella crisi fu frutto di una geniale intuizione di Lenin, che l’avrebbe
poi sistematizzata per l’Internazionale comunista nelle Tesi sul fronte unico
proletario (peraltro non molto comprese allora dalla maggior parte dei partiti
comunisti, compreso quello d’Italia, che continuò in una pratica settaria negli
anni decisivi dell’ascesa del fascismo). Fu quella battaglia in ogni caso a
modificare radicalmente i rapporti di forza all’interno della classe, scalzando
la base dei partiti riformisti che avevano creduto di difendersi dai pericoli
di destra nominando un generale di estrema destra alla testa dell’esercito.
Nelle settimane successive, grazie alla pratica della revocabilità degli eletti
nei soviet, i bolscevichi divennero maggioranza in tutti i settori decisivi del
paese, e poterono passare alla concreta preparazione dell’insurrezione che
doveva risolvere il dualismo di potere a favore del proletariato. Dispensa 2
Dal successo dell’Ottobre alle prime difficoltà La vittoria della rivoluzione
d’Ottobre (che per le ragioni già ricordate avvenne il 7 novembre 1917) fu facile
e quasi incruenta, per la sproporzione tra le esigue forze che sostenevano
ancora il governo Kerenski e quelle che si erano unite ai bolscevichi sulla
base del loro programma semplice e concretissimo: pace subito senza condizioni,
la terra a chi la lavora, controllo operaio. Anche nei mesi immediatamente
successivi la resistenza al nuovo potere fu insignificante, perché i nostalgici
del vecchio regime erano disorientati. Anche lo scioglimento dell’Assemblea
costituente non ebbe nessuna ripercussione nel paese. L’Assemblea costituente
era stata richiesta anche dai bolscevichi (che avevano più volte denunciato le
esitazioni del governo provvisorio, all’interno del quale c’erano forze che non
volevano sancire definitivamente la fine della monarchia), ma era stata eletta
con un meccanismo elettorale e in un contesto che l’aveva resa un riflesso del
passato: ad esempio, al suo interno la componente bolscevica era assai più
ridotta del suo peso reale (conquistato negli ultimi mesi nella vita politica
tumultuosa e appassionata dei soviet, ma non direttamente percepibile dalle
“periferie” geografiche e sociali dell’impero), e quella menscevica era ridotta
ai minimi termini. La forza di gran lunga maggioritaria era rappresentata dalla
confusa coalizione socialrivoluzionaria, le cui liste erano però state
presentate dall’apparato borghese prima della scissione che aveva portato la
tendenza di sinistra a unirsi ai bolscevichi, sicché la maggior parte degli
eletti erano notabili ex populisti diventati moderati o conservatori, ma che
beneficiavano di una rendita politica per il loro passato). Lo scioglimento
dell’Assemblea fu realizzato da un plotone di “guardie rosse” composto di
marinai anarchici e bolscevichi, che dopo tre giorni di discorsi misero alla
porta i deputati annunciando: “la guardia è stanca”. Lenin e Trotskij
osservarono che quel gesto era la logica conseguenza della sfasatura tra la
rivoluzione e quella rappresentanza, che rifletteva un passato ormai superato;
ma Rosa Luxemburg osservò lucidamente che probabilmente era così, e quindi lo
scioglimento era logico, ma che il Consiglio dei commissari del popolo che
incarnava il nuovo potere sovietico avrebbe dovuto indire nuove elezioni,
perché era pur sempre necessario “sentire il polso” dell’intera popolazione, e
non solo di quella lavoratrice organizzata e rappresentata nei soviet. Lo
scioglimento dell’Assemblea passò comunque allora quasi senza reazioni, perché
le forze del passato, largamente rappresentate nell’assemblea, contavano poco
nel paese e soprattutto nella capitale. I problemi principali vennero tuttavia
da fattori internazionali e dal deteriorarsi del rapporto con i contadini nel
corso del primo inverno. La rivoluzione in Europa tardava, anche se se ne
scorgevano preannunci potenti – ad esempio negli scioperi tedeschi e austriaci
contro la guerra e il carovita del gennaio 1918 – a cui tuttavia mancava un
fattore decisivo: l’emergere di nuove direzioni coerentemente rivoluzionarie.
Le grandi potenzialità oggettive venivano quindi deviate in un binario morto
dalla cinica collaborazione tra il potere imperiale e le vecchie direzioni
socialdemocratiche e sindacali che, naturalmente, per fermare gli scioperi,
raddoppiavano le proclamazioni verbalmente rivoluzionarie e pacifiste.
Quell’ondata rivoluzionaria di scioperi si era sviluppata durante la prima fase
delle difficili trattative condotte a Brest Litovsk tra il potere sovietico e i
rappresentanti tedeschi e austroungarici a partire dal gennaio 1918. Trotskij,
che guidava la delegazione sovietica ed era giunto con un seguito di soldati,
operai e contadini rivoluzionari, affiancando alle discussioni con generali e
diplomatici una forte azione propagandistica verso i soldati della controparte,
aveva sperato che l’eroica lotta in corso a Berlino, Vienna, e in molte altre
città dei due imperi, tra cui Trieste, permettesse di concludere una pace
dignitosa. Ma i generali e i ministri tedeschi e austroungarici sapevano bene
che i dirigenti della socialdemocrazia dei due paesi stava collaborando
attivamente per fermare il movimento rivoluzionario. Un grande storico e
militante galiziano, Roman Rosdolski, ha trovato cinquant’anni dopo negli
ordinatissimi archivi viennesi le tracce del crimine: i telegrammi tra il capo
delegazione austriaco, il conte Czernin e la corte; Czernin chiedeva
spiegazione degli infuocati editoriali a favore della pace dell’organo
socialdemocratico Arbeiter Zeitung, e veniva tranquillizzato assicurando che la
situazione era sotto controllo, e che gli articoli erano stati concordati tra il
deputato Seitz e il capo del governo. Lo scopo era di “avanzare rivendicazioni
che se accolte (anche parzialmente) avrebbero fatto sì che i lavoratori
bloccassero lo sciopero”. L’unica parola per definire questo atteggiamento è
quella di tradimento. Può sembrare eccessiva, ma è difficile trovarne un’altra
per definire un comportamento che ha contribuito a prolungare di dieci
terribili mesi la guerra, facendo morire ancora molti milioni di proletari in
divisa. In ogni caso, per questo ed altri atteggiamenti analoghi delle
direzioni socialiste europee, la Russia rivoluzionaria rimase isolata. Qualche
socialdemocratico tedesco osò perfino rimproverare ai bolscevichi
l’accettazione delle terribili condizioni imposte dall’esercito tedesco, che
durante le trattative aveva continuato ad avanzare, restringendo il territorio
della Russia sovietica a quello che qualche secolo prima era il piccolo
granducato di Moscovia. Contemporaneamente – nonostante fossero ancora in
guerra con la Germania – anche la Gran Bretagna occupava il porto di Arcangelo
al nord e quello di Baku nel Caucaso, mentre truppe giapponesi (in quella
guerra alleate dell’Intesa) occupavano parte della Siberia orientale, con il
consenso e l’appoggio materiale degli Stati Uniti, che a loro volta sbarcavano
a Vladivostok. L’Intesa arma e scaglia contro il nuovo potere anche gli ex
prigionieri di guerra cecoslovacchi, che appoggiano un governo provvisorio
“bianco” formatosi in Siberia. Consiglieri militari di molti altri paesi, tra
cui l’Italia, aiutano l’organizzazione delle armate controrivoluzionarie.
L’invio di forti contingenti militari era stato tuttavia scoraggiato
dall’insurrezione della flotta francese inviata nel Mar Nero, che aveva aderito
alla rivoluzione (la rivoluzione è contagiosa…).
Quale era stato il terribile “crimine” della
rivoluzione che spingeva questa “Santa Alleanza” di paesi ancora in guerra tra
loro a coalizzarsi di fatto pur di sradicarla? Era il “cattivo esempio”
rappresentato dalla assoluta coerenza tra i programmi e l’azione, dalla scelta
di uscire comunque dalla guerra, di interpretare le ansie di soldati, contadini
e operai, indipendentemente da quel che pensavano gli esponenti dei vecchi
partiti opportunisti che si erano adattati alle esigenze della borghesia.
Scandalizzava l’appello, condiviso da milioni di uomini in tutto il mondo, a
concludere una pace senza annessioni, a estendere le ambigue parole dei
“Quattordici punti” del presidente statunitense Wilson sull’autodecisione anche
a tutti i popoli delle colonie e delle “semicolonie” (in quel momento l’immensa
maggioranza del genere umano). Era lo “scandalo” della risposta
internazionalista allo sciovinismo che scagliava l’uno contro l’altro i
proletari, una risposta che consisteva nel cancellare ogni differenza tra russo
e “straniero”: qualsiasi lavoratore, di qualsiasi paese, giunto nel paese dei
soviet acquisiva immediatamente tutti i diritti, dal voto all’eleggibilità a
qualsiasi incarico (ad esempio Gramsci, quando giunse a Mosca per collaborare
con l’Internazionale comunista, fu nominato giudice in un delicato processo).
La coerenza della rivoluzione, se le assicurò l’odio implacabile degli
sfruttatori e dei militaristi di tutto il mondo, ebbe un’eco straordinaria tra
gli oppressi, in particolare nel mondo coloniale. E non erano solo belle
parole: il nuovo governo abolì unilateralmente tutti i trattati iniqui con la
Cina, compresi quelli sulla Ferrovia orientale cinese (diramazione della
transiberiana sottratta alla sovranità di Pechino) e quello sul diritto
all’extraterritorialità dei cittadini russi. In quel grande paese i bolscevichi
vennero chiamati gli huang-i-tang, cioè il partito del massimo umanesimo, e il
massimo leader nazionalista Sun Yat-sen inviò un appassionato messaggio di
solidarietà alla rivoluzione assediata. Nell’Iran, costantemente conteso tra
l’impero russo e quello britannico, il movimento nazionalista si orientò verso
il socialismo dopo che Trotskij ebbe richiamato truppe e istruttori dal paese.
Nella Conferenza dei popoli dell’Oriente tenuta a Baku nel 1920 si poté
misurare l’ampiezza dell’influenza della rivoluzione russa in India,
nell’Indocina, ecc. Ma l’accerchiamento delle potenze imperialiste, una vera
“guerra civile internazionale”, incoraggiò la riorganizzazione degli esponenti
del vecchio regime, che cercarono di approfittare di una incrinatura dei
rapporti tra i soviet cittadini e le campagne. Lo stesso Lenin scrisse di aver
sentito dire a un vecchio contadino che “i bolscevichi erano buoni, ma i
comunisti erano cattivi”. Il partito bolscevico aveva cambiato il suo nome in
quello di partito comunista nel marzo 1918, ma gli iscritti erano più o meno
gli stessi. Cos’era successo? Semplicemente che i contadini avevano apprezzato
molto dei bolscevichi la tenace battaglia per la pace e soprattutto il decreto
sulla terra, ma erano poi entrati in conflitto col potere sovietico, in cui dal
marzo 1918 i comunisti erano rimasti soli a governare, non per loro scelta, ma
per il ritiro dei socialrivoluzionari di sinistra in polemica col trattato di
Brest Litovsk, che appariva loro una vergognosa capitolazione di fronte
all’imperialismo tedesco, rafforzando tutti i sospetti alimentati dalle
calunnie seguite al famoso viaggio di Lenin dell’aprile 1917 attraverso la
Germania. Il rapporto città-campagna Il conflitto tra i contadini e i soviet
non era ideologico, ma concretissimo (ed era anzi un conflitto di interessi tra
città e campagna). I contadini avevano coltivato la terra conquistata nel corso
della rivoluzione prima di tutto per soddisfare i propri bisogni. Gli
appezzamenti ottenuti erano quasi sempre troppo piccoli per assicurare un
surplus sufficiente a rendere conveniente un viaggio per collocare le eccedenze
in zone lontane dove rendevano di più (ad esempio in una zona cerealicola
ovviamente il grano vale poco, perché tutti ne hanno), e in ogni caso il caos
dei trasporti, dovuto agli effetti prolungati della guerra, e a quelli
incipienti della guerra civile, rendeva meno interessante uno sforzo per
aumentare la produzione oltre il fabbisogno familiare. La conseguenza fu che le
città furono affamate come mai durante la guerra. I soviet di fabbrica
organizzarono spedizioni nelle campagne per procurarsi cibo, con le buone o le
cattive maniere. I contadini venivano pagati con i nuovi rubli stampati dal
potere sovietico, di cui tuttavia diffidavano a causa dell’inflazione
galoppante (non era una situazione solo russa ma di tutta l’Europa del primo
dopoguerra, con il famoso caso limite della Germana). Per i contadini non erano
che pezzi di carta, sicché preferivano i vecchi rubli zaristi (e lo Stato
sovietico fu costretto per questo a stamparne un certo quantitativo, che
naturalmente si svalutavano non meno degli altri). Il problema vero è che
vecchi o nuovi rubli non avevano una quantitativo equivalente di prodotti
industriali da acquistare, per il crollo della produzione dovuta al blocco dei
porti da parte delle potenze antisovietiche, alla mancanza di carburante, di
pezzi di ricambio, alla difficoltà di far giungere sul luogo di produzione le
materie prime per il caos dei trasporti. La produzione scese al 13% di quella
del 1913, e quelle poche fabbriche che funzionavano erano per giunta destinate
a sostenere lo sforzo militare imposto dall’aggressione e dalla guerra civile
che divampava. Non era facile distinguere le responsabilità esterne e le cause
profonde di questa situazione: per molti contadini è più semplice dire “i
comunisti sono cattivi, i bolscevichi erano buoni”. Se non si uniscono
stabilmente ai “bianchi” è solo perché il loro programma puntava apertamente a
cancellare la riforma agraria; ma molti contadini tenteranno di combattere gli
uni e gli altri formando le famose bande “verdi” poi mitizzate dagli anarchici.
Scheda Lenin e i contadini Tra le varie calunnie che sono state rimesse in
circolazione nella grande operazione anticomunista del cosiddetto Libro nero
del comunismo, curato da Sthephane Courtois e rilanciato in Italia da Mondadori
(con la grande sponsorizzazione di Berlusconi) c’è il mito di un Lenin spietato
e pronto a sterminare i contadini perché refrattari al comunismo. In realtà
nelle Opere di Lenin, che raccolgono anche i più piccoli appunti presi durante
il convulso periodo della guerra civile, si trovano molti scritti che provano
il contrario (e non si dimentichi che non erano destinati alla pubblicazione).
La stessa frase sui bolscevichi buoni e i comunisti cattivi era stata detta per
stimolare alla riflessione sulle cause di una crisi di relazioni che poteva
essere tragica per la rivoluzione. Sono interessanti ad esempio le lettere con cui
Lenin sottopone all’attenzione dei collaboratori la figura di un contadino che
ha avuto modo di incontrare, Ivan Afanasievic Cekunov, che “simpatizza con i
comunisti, ma non entra nel partito perché va in chiesa, è cristiano”. Quello
che conta è che “migliora l’azienda” e nel suo distretto “con l’aiuto degli
operai, è riuscito a ottenere la sostituzione di un cattivo potere sovietico
con uno buono”. Soprattutto dice la verità: “i contadini hanno perso la fiducia
nel potere sovietico”.
Lenin ne propone la fucilazione? Niente affatto,
ed anzi conclude che “è a gente simile che dobbiamo aggrapparci con tutte le
forze per ristabilire la fiducia delle masse contadine”. Lenin fa molte
proposte di inserimento di Cekunov in apposite strutture del potere sovietico,
e raccomanda che in ciascuna zona sarebbe meglio trovarne tre, con le stesse
caratteristiche: “vecchi”, e soprattutto “senza partito e cristiani”. ( Lenin,
Opere, v. 45, Editori Riuniti, Roma, 1970, pp.59-60). Al tempo stesso, Lenin si
occupava di molte piccole cose concrete, come il ridimensionamento del
costosissimo Bolscioi per finanziare le campagne di alfabetizzazione e le sale
di lettura (ma le sue proposte vennero respinte!); gli aumenti incontrollati di
personale senza copertura; gli sbarramenti eccessivi per i visitatori del
Cremlino; la scelta degli accessori per la fabbricazione degli stivali; ecc..
Insomma era un uomo assai lontano dal fanatico settario descritto da chi vuole
impedirci di riflettere su quella straordinaria esperienza. Abbiamo già
accennato al fatto che i rapporti tra i bolscevichi e i contadini si erano
deteriorati anche per la scelta dei socialisti rivoluzionari di sinistra
(abbreviati SR) di lasciare il Consiglio dei Commissari del Popolo per protesta
contro gli accordi di Brest Litovsk. Molti SR di sinistra erano infatti
provenienti dalla parte più radicale del movimento populista, e avevano per
questo più legami col movimento contadino. Inoltre, dato che erano convinti che
la pace fosse un deliberato tradimento di un Lenin al soldo dell’imperatore di
Germania, non esitarono a tornare alle vecchie abitudini, ricorrendo al
terrorismo. Un attentato ferì gravemente lo stesso Lenin, altri bolscevichi
furono uccisi, ma l’atto più grave fu l’assassinio dell’ambasciatore tedesco, il
conte Wilhelm von Mirbach, che voleva provocare un intervento militare
germanico, nell’illusione di scatenare come reazione la “guerra
rivoluzionaria”, come era avvenuto durante la rivoluzione francese. Inutile
dire che dopo gli attentati diversi SR finirono in galera, e alcuni vennero
fucilati. I professionisti dell’anticomunismo vi scorgono la realizzazione di
un perfido disegno “leninista”; ma quale governo al mondo ha mai tollerato che
si spari impunemente ai suoi massimi esponenti? Altri SR di sinistra,
viceversa, si unirono ai comunisti e, tra questi,i lo stesso uccisore di von
Mirbach, Jakov Bljumkin. Abbiamo accennato al fatto che la guerra civile
frantuma il paese e paralizza le fabbriche, per sottolineare la difficoltà di
uno scambio tra prodotti industriali (sempre più rari) e prodotti agricoli. Ma
le conseguenza più grave di questo blocco è la distruzione della classe operaia
che aveva fatto l’esperienza delle due rivoluzioni. Gli elementi più coscienti,
quelli che erano stati eletti delegati nei soviet, partono per il fronte dove
costituiscono il nucleo forte dell’Armata Rossa. Diventano comandanti o
commissari politici, ma sono ormai staccati dalla loro base naturale. Altri, la
maggioranza, tornano al villaggio di origine dove sanno di potersi sfamare. A
volte collaborano all’organizzazione del potere sovietico nel villaggio, ma una
volta staccati dal tessuto organizzativo della fabbrica in cui si erano
formati, vengono in genere riassorbiti dall’ambiente circostante,
caratterizzato da una cultura più arretrata e da una scarsissima e rudimentale
vita politica. Dei primi, molti morranno (le perdite nella guerra civile sono
elevatissime: i “bianchi” non fanno prigionieri, specie tra chi appare più
politicizzato); altri verranno assorbiti nell’apparato come dirigenti di zone
remote e a volte ostili (come era ad esempio gran parte dell’Asia centrale,
dove divamparono rivolte integraliste islamiche contro l’istruzione
generalizzata a ragazzi e ragazze, e dove non si perdonava al nuovo potere
sovietico la battaglia per l’emancipazione della donna). Molti di essi, anche i
migliori, diventeranno diversi da quello che erano stati quando erano emersi
come avanguardie di una classe operaia maturata dalle lotte, e che controllava
“dal basso” i suoi stessi dirigenti. Quando intorno al 1921, finita la guerra
civile, le fabbriche riapriranno e se ne costruiranno di nuove, il tessuto
sociale è ben diverso: nelle fabbriche non sono tornati , come in un film
riavvolto nel videoregistratore, gli stessi operai che c’erano prima della
chiusura. La maggior parte degli operai sono senza tradizioni di lotta, vengono
direttamente da un ambiente contadino, dove non hanno potuto fare l’esperienza
dei loro predecessori. Saranno indottrinati, dopo il 1923-1924, dal “leninismo”
in pillole fornito da Stalin, e la loro organizzazione politica sarà fortemente
condizionata dal nuovo clima dogmatico. Il fallimento dell’Opposizione di
sinistra e di Lev Trotskij, vedremo successivamente, ha le sue premesse anche
in questo mutamento profondo della classe operaia. Rivoluzione e
controrivoluzione “preventiva” in Germania Ma a pregiudicare gravemente le
possibilità di successo della rivoluzione russa viene la controrivoluzione
preventiva in Germania. Lenin, Trotskij e tutti i rivoluzionari più esperti, se
non avevano esitato a risolvere a favore della classe operaia l’instabile
“dualismo di potere”, avevano sempre saputo e ovviamente detto pubblicamente
(la menzogna sistematizzata, già usata abitualmente dai dirigenti
socialdemocratici, si diffonderà nei partiti comunisti solo in epoca
staliniana) che il “socialismo in un solo paese era impossibile” e che i
bolscevichi avevano preso il potere perché era a portata di mano (e se non lo
avessero fatto, al posto di Kerenski sarebbe apparsa un’altra spietata
dittatura militare come quella tentata da Kornilov), e attendevano quindi il
trionfo della rivoluzione in uno dei paesi più sviluppati economicamente e
culturalmente, come la Germania, la Francia o la Gran Bretagna. Più volte (ad
esempio ancora nel 1921, nel dibattito con il giovane partito comunista
d’Italia) avevano ribadito che il centro dell’Internazionale comunista si
sarebbe logicamente spostato da Mosca a Berlino, o a Parigi o a Londra, dopo la
vittoria del proletariato in uno di quei paesi. Nel novembre 1918 la
rivoluzione che i bolscevichi avevano atteso spasmodicamente durante le
trattative di Brest Litovsk (ancor oggi c’è chi dice che erano sognatori…) era
esplosa in tutta la sua potenza facendo crollare in pochi giorni l’impero
germanico e facendo esplodere in mille pezzi quello austroungarico. Erano
rivoluzioni analoghe a quella russa del febbraio 1917, e per molti aspetti
perfino più profonde, ma la trascrescenza dalla rivoluzione borghese che
abbatteva l’assolutismo monarchico a quella socialista non era automaticamente
garantita: dipendeva dalle forze soggettive operanti all’interno dei movimenti,
e in particolare dall’esistenza di un partito rivoluzionario ben radicato e
riconosciuto dalle masse. In Germania Rosa Luxemburg aveva capito prima di
altri, compreso lo stesso Lenin, la dinamica involutiva della socialdemocrazia
tedesca e della sua stessa tendenza di sinistra legata a Kautski (e che in
realtà era “centrista”, cioè usava una fraseologia rivoluzionaria per far
accettare una politica non diversa da quella dei riformisti, da cui non si
sognava di staccarsi), ma aveva tardato a passare dalle idee all’organizzazione
di una frazione rivoluzionaria. Al momento dell’esplosione della Grande guerra
(e dell’Internazionale socialista, dilaniata dall’adattamento di ciascun
partito alla propria borghesia imperialista) intorno a Rosa si riunirono meno
di una decina di dirigenti di quella che era stata la sinistra del partito (ne
aveva invitato telegraficamente duecento!). Perfino Karl Liebkhnecht, che sarà
poi associato per sempre alla Luxemburg per la coraggiosa battaglia successiva
e poi per la morte avvenuta a distanza di poche ore e nelle stesse circostanze,
il 4 agosto del 1914 si era opposto alla decisione del gruppo parlamentare di
votare i crediti di guerra, ma non aveva avuto il coraggio di votare contro in
aula, per quell’ossessione di non rompere l’unità che ha fatto al movimento
operaio più danni di qualsiasi scissione. Solo in dicembre aveva avuto il
coraggio di rompere la disciplina, salvando la coerenza con le idee socialiste
e sottraendosi alla complicità con la guerra. Ma tanto Rosa Luxemburg che Karl
Liebkhnecht erano stati arrestati e passarono il tempo di guerra in un duro
isolamento. Solo nel 1916 e nel 1917 era cresciuta – per effetto di una guerra
che si rivelava durissima e lunga – una più larga opposizione nel partito e nel
gruppo parlamentare, ma era stata intercettata e deviata in una posizione
ambigua da Kautsky e dallo stesso leader della corrente revisionista Bernstein,
contrari alla guerra ma ostilissimi all’idea di combatterla con la rivoluzione
come proponeva (e faceva) in quegli stessi anni Lenin. Così, nelle esaltanti
giornate del novembre 1918 e ancor più in quelle drammatiche del gennaio 1919,
i due grandi rivoluzionari si trovarono al centro di un imponente movimento,
che si muoveva tuttavia senza una direzione e in cui il piccolo partito
comunista “spartachista”, che avevano fondato in un rapido congresso svoltosi
tra il 31 dicembre 1918 e il primo gennaio successivo, non aveva potuto avere
un ruolo significativo.
E la borghesia tedesca (con l’aperta complicità
della destra socialdemocratica) aveva potuto con più facilità colpire i due
dirigenti più prestigiosi e lungimiranti, facendoli assassinare dai “Corpi franchi”
reclutati dal ministro della Guerra socialdemocratico Gustav Noske tra gli ex
ufficiali di destra frustrati dalla sconfitta e avventurieri di ogni genere,
che confluiranno più tardi nelle squadracce naziste. L’assassinio fu
premeditato a freddo, e spiace che invece all’interno della sinistra
socialdemocratica ed ex comunista continui a circolare la leggenda di una
“insurrezione spartachista” del gennaio 1919, mentre in realtà si è trattato di
una cinica provocazione del governo socialdemocratico, che aveva destituito
bruscamente il prefetto di Berlino Emil Eichorn (era un operaio, deputato
dell’USPD, il partito socialdemocratico “indipendente” che pure partecipava al
governo, ma era stimatissimo dalle masse operaie anche perché era stato
nominato a quella carica nel vivo della rivoluzione di novembre). Le masse
berlinesi (tra cui gli spartachisti erano ancora una piccola minoranza) non
fecero nessuna “insurrezione”: scesero semplicemente in piazza per protestare
contro quella destituzione, che appariva ed era il preludio di una involuzione
autoritaria e conservatrice. Nel corso di quelle proteste, amplissime ma senza
direzione chiara, i Corpi franchi arrestarono ed assassinarono la Luxemburg e
Liebkhnecht. In quell’occasione emerse ancora una volta il ruolo nefasto dei
centristi, che avevano al loro interno moltissimi operai di avanguardia e
militanti stimati come Eichorn, ma partecipavano intanto al governo con Noske e
con ministri borghesi, che stavano preparando la restaurazione del potere
sconvolto dalla rivoluzione. In Austria la situazione era ancora più
pradossale: la socialdemocrazia appariva da sempre come quella più di sinistra
della Seconda Internazionale. L’equivoco era stato perpetuato dal gesto del suo
segretario, Fritz Adler (figlio del fondatore del partito Viktor Adler), che
non aveva voluto o saputo opporsi all’entrata in guerra, ma nel 1916 aveva
compiuto un gesto di clamorosa e disperata protesta uccidendo il primo ministro
austriaco, il conte Stürgkh. La condanna a morte gli era stata commutata in
ergastolo dall’imperatore, e naturalmente era uscito dal carcere al momento del
crollo dell’impero nel novembre 1918, circondato da un aureola di martirio.
Sotto questo aspetto, scriverà Trotskij nel 1920 in Terrorismo e comunismo,
Adler “si dimostrò doppiamente utile alla socialdemocrazia austriaca. L’alone
dorato del terrorista venne trasformato dagli incalliti falsari del partito
nella moneta sonante del demagogo. Friedrich Adler divenne, per i vari
Austerlitz e Renner [esponenti della destra socialdemocratica], una garanzia di
fronte alle masse”. Come i centristi dell’USPD in Germania, i dirigenti “di
sinistra” della socialdemocrazia austriaca si impegnarono a fondo per impedire
la generalizzazione e il coordinamento dei consigli sorti spontaneamente,
teorizzando che dovevano servire ad arricchire e articolare dal basso la
democrazia borghese. Di fatto si impegnavano a evitare che diventassero uno
strumento che polarizzasse il dualismo di potere, dandogli una proiezione e una
direzione nazionale. Ma il maggiore crimine della socialdemocrazia austriaca fu
il rifiuto di sostenere la Repubblica dei Consigli sorta in Ungheria
nell’aprile 1919 e la contemporanea rivoluzione di Monaco di Baviera.
L’Austria, per la sua posizione geografica, avrebbe potuto collegare quelle due
esperienze rivoluzionarie, che invece rimasero isolate e furono soffocate
dall’intervento esterno. Borghesi e socialdemocratici sono sempre pronti a
teorizzare che “la rivoluzione non si esporta” (il che è vero, nel senso che è impossibile
crearla dall’esterno), sorvolando sul fatto che la controrivoluzione viene
sempre sistematicamente esportata, e non sufficientemente contrastata da una
mobilitazione internazionale. La Russia rivoluzionaria, a cui da Budapest era
stato chiesto aiuto, non era certo in grado di fornirlo (era in quei mesi
assediata in una piccola porzione del territorio intorno a Mosca). I
socialdemocratici austriaci, che erano al governo e avevano una forte milizia
operaia armata, avrebbero potuto intervenire facilmente e non lo fecero. Ne
pagarono il prezzo quindici anni dopo, quando furono spazzati via da un partito
clericale ultrareazionario (l’austrofascismo…), che cancellò con un bagno di
sangue la grande tradizione della “Vienna rossa”. La capitale, in cui la socialdemocrazia
aveva avuto più del 70% dei voti, aveva visto in effetti straordinarie
realizzazioni di avanguardia sul terreno urbanistico, sociale e culturale.
Quando il nazismo nel 1938 riuscì ad annettere l’Austria non dovette modificare
quasi nulla: il terreno era già stato “arato” dall’austrofascismo. Il terribile
isolamento della Russia rivoluzionaria si aggravò nel corso di tutto il
dopoguerra: in Italia la direzione socialista e quella della CGL e della FIOM
lasciarono isolato il grande movimento delle occupazioni delle fabbriche e dei
consigli di officina, e il partito comunista nacque troppo tardi, nel gennaio
1921, quando ormai la borghesia aveva deciso di puntare sul fascismo, armandolo
e finanziandolo. Il ritardo era dovuto a vari fattori, tra cui, ancora una
volta, l’ossessione dell’unità anche di fronte a un’evidente inadeguatezza del
partito socialista. Il successo di Mussolini nell’ottobre 1922 fu più facile
del previsto non solo per la complicità di Vittorio Emanuele III, ma anche per
l’insufficienza della risposta del movimento operaio, dovuta alla viltà del
partito socialista e al settarismo del giovane e inesperto partito comunista.
Il movimento comunista subì nuove sconfitte in Germania nel marzo 1919, e poi
ancora nel 1921 e nel 1923, anche per suoi errori. In molti altri paesi
d’Europa, dalla Jugoslavia alla Bulgaria, dalla Polonia alla Romania, dalla
Spagna al Portogallo i partiti comunisti furono perseguitati e messi fuori
legge nel corso degli anni ’20.
In Gran Bretagna, viceversa, dove i comunisti
erano pochi e il grosso degli operai rivoluzionari militavano nelle Trade
Unions e nel partito laburista, uno straordinario sciopero dei minatori fu
lasciato isolato nel 1926 dalle direzioni sindacali, provocando non solo una
terribile sconfitta, ma un senso di frustrazione che avrebbe pesato per molti
anni successivi. Nello stesso periodo, una tremenda repressione spezzava per
molti anni l’ascesa del partito comunista in Cina. In quel contesto, si aggrava
la grande divisione tra socialdemocratici e comunisti, nata nel 1914 e resa
permanente sia dall’atteggiamento apertamente controrivoluzionario della destra
socialdemocratica, sia dal settarismo che si manifesta spontaneamente nei
giovani partiti comunisti che hanno subito gravi torti (si pensi ai
risentimenti degli spartachisti verso i mandanti socialdemocratici
dell’assassinio di Rosa Luxemburg), ma che verrà alimentato poi dalla direzione
che Stalin pone alle testa dell’Internazionale Comunista nella seconda metà
degli anni ’20, che lancerà l’assurda definizione dei socialisti come
“socialfascisti”, peggiori dei veri e propri fascisti. Un atteggiamento che
faciliterà grandemente, come vedremo, il successo di Hitler tra il 1929 e il
1933. Quel terribile isolamento – dopo la morte di Lenin – faciliterà l’ascesa
di Stalin. Egli, fino allora marginale e sconosciuto alle masse, si è
conquistato un grande potere attraverso il controllo dell’apparato, nominato
dall’alto e non elettivo, che si è sostituito gradatamente ai soviet e allo
stesso partito. Della burocrazia, che si è accresciuta sempre più rapidamente,
egli è diventato il difensore e ne interpreta le aspirazioni, traducendole in
formule rozze ma adeguate al livello primitivo degli ultimi arrivati. Mentre
Lenin aveva richiesto di ridurre le dimensioni del partito eliminando gli
arrivisti comparsi dopo la vittoria nella guerra civile, Stalin organizza una
“Leva Lenin” che raddoppia gli iscritti al partito facendovi entrare in massa
operai senza alcuna esperienza, che verranno poi adeguatamente “indottrinati”
con i “Principi del leninismo”. Viceversa comincerà l’allontanamento dei
militanti più formati. A questo partito spoliticizzato Stalin presenterà il
“socialismo in un paese solo” in termini completamente mistificati: come se
Trotskij non lo volesse costruire, mentre il leggendario organizzatore
dell’Armata rossa, in totale sintonia con Lenin, aveva sempre detto che era
impossibile realizzarlo in un paese solo e per giunta arretrato. Viceversa la
teoria della “rivoluzione permanente” di Trotskij verrà banalizzata, affermando
che consisteva nel voler scatenare ovunque e per giunta simultaneamente
rivoluzioni, mettendo in pericolo lo stesso Stato sovietico. Su questo riflesso
conservatore di una burocrazia che non sapeva e non voleva sapere nulla della
Cina o dello sciopero dei minatori britannici si baserà il successo di Stalin,
che sarà pagato a carissimo prezzo dall’URSS e da tutto il movimento comunista.
Dispensa 3 L'Assemblea Costituente Nelle elezioni svoltesi in settembre, quindi
prima della presa del potere dei bolscevichi, i bolscevichi crescono molto, ma
restano in minoranza nell'Assemblea Costituente, per le stesse ragioni per cui
nel giugno 1917 essi erano forti nei soviet ma deboli a livello municipale a
Mosca e Pietrogrado (lo stesso fenomeno si riproponeva d’altra parte in tutta
la Russia). La maggioranza dell’Assemblea è costituita da socialrivoluzionari,
i quali nel frattempo si sono scissi tra sinistra e destra. La sinistra degli
SR si era avvicinata ai bolscevichi, ma senza riuscire ad incidere
sull’apparato del partito e quindi a presentare molte candidature, sicché gran
parte degli eletti appartengono alla destra e si oppongono al potere dei
soviet. Questa Assemblea, la cui elezione era stata voluta originariamente
anche dai bolscevichi, riflette dunque il passato e non il presente: rispecchia
cioè la situazione prerivoluzionaria, e dunque rischia di contrapporsi alla
rivoluzione. I soviet decidono di sciogliere l'Assemblea nel gennaio del 1918.
A questo proposito, Rosa Luxemburg scrive che i soviet hanno avuto certo il
merito di aver salvato l'onore del proletariato europeo, ma hanno anche
commesso degli errori gravi, tra cui quello di sciogliere l'Assemblea
Costituente. Rosa dice che se era vero che l'Assemblea si opponeva al potere
dei soviet, sarebbe stato giusto scioglierla, ma bisognava anche convocare
subito l’elezione di un’altra assemblea più rappresentativa. Infatti, mentre
non aveva dubbi che il governo dovesse essere espresso dai soviet, Rosa
riteneva che occorresse avere anche uno strumento che rappresentasse le
opinioni dell’intera società russa.
Nel marzo del 1918, subito dopo la pace di Brest
Litovsk, i socialrivoluzionari di sinistra, che per il loro passato
rappresentavano un legame col mondo contadino, escono dal governo (il
“Consiglio dei Commissari del popolo”) e una socialrivoluzionaria, Fania (o
Dora) Kaplan, compie un attentato contro lo stesso Lenin, ferendolo gravemente.
I bolscevichi devono ricorrere inevitabilmente alla repressione nei confronti
dei loro ex alleati (quale governo può consentire che si spari sul suo massimo
esponente?), ma restano soli al potere. A questo punto divampa la guerra
civile: tutti i reazionari, nostalgici dello zar o semplicemente della
proprietà privata, attaccano il regime bolscevico, organizzando bande armate
finanziate dall’estero. All’aggressione partecipano 14 paesi, Italia compresa.
Inizialmente, soprattutto inglesi e francesi inviano truppe (ad esempio i
francesi inviano la flotta nel mar Nero, ma questa alza la bandiera rossa e si
unisce ai rivoluzionari). Anche tra gli inglesi accadono episodi analoghi, e
per questo prevale il criterio di inviare consulenti, armi e denaro, riducendo
il numero dei soldati esposti al contagio delle idee rivoluzionarie. Ben più
grave è il blocco dei porti con navi e mine, che isolano la Russia
rivoluzionaria dal resto del mondo. La guerra civile è durissima e non fa
prigionieri: i bianchi uccidono sistematicamente gli appartenenti all’Armata
Rossa; questa è stata costruita dapprima con volontari, e in forma abbastanza
caotica, poi viene reclutata su larga scala e viene introdotta una relativa
disciplina, per bloccare le tendenze anarchiche secondo le quali ognuno poteva
dare ordini. Naturalmente ogni sera si discuteva democraticamente sull’operato
dei comandanti, ma nei combattimenti era inevitabile imporre un comando unico
che evitasse di andare allo scontro in ordine sparso. Questo per quanto
riguarda i criteri con cui l’Armata Rossa è stata fondata. Ma emerge presto la
necessità di specialisti: per usare un fucile non occorre grande istruzione, ma
per un cannone ci vuole una preparazione specifica, la conoscenza delle leggi
della balistica, ecc. Nelle tecniche militari ci sono molti aspetti che non
possono essere improvvisati. L’organizzatore dell’Armata Rossa è Leone
Trotskij, che non ha mai fatto il militare: la sua capacità di persuasione è
basata sull’esempio, dato che non manda i subalterni a morire, ma si espone in
prima persona (come farà successivamente un altro grande rivoluzionario divenuto
capo militare, Ernesto Che Guevara). Tuttavia la guerra non ha bisogno solo di
questo, ma appunto anche di “tecnici”. Così dal vecchio esercito zarista
vengono selezionati alcuni ufficiali disposti a collaborare, chi per
convinzione spontanea, chi per diverse ragioni anche materiali, altri per
patriottismo (dietro alle bande bianche ci sono forze straniere). Tutti
verranno tenuti sotto controllo da commissari politici e comandanti meno
esperti di tecniche militari ma con una forte coscienza politica. Da questa
combinazione viene fuori un esercito formidabile, che sconfigge i bianchi,
anche perché i capi di questi sono divisi tra loro per gelosie, vanità e
divergenze politiche. Li accomuna soprattutto un’insofferenza verso le
rivendicazioni delle minoranze nazionali e non nascondono che, in caso di
vittoria, cancelleranno anche la riforma agraria. Per questo motivo i
contadini, anche se scontenti dei bolscevichi, restano ancora ostili alle
guardie bianche. Il rapporto tra contadini e potere sovietico si era
deteriorato infatti molto presto (vedi seconda dispensa, pp. 20-21) e nelle
campagne, accanto alle bande rosse e bianche, erano apparse quelle “verdi”, che
si dichiaravano neutrali. Queste a volte erano influenzate dagli anarchici, che
le mitizzeranno successivamente, nascondendone le contraddizioni (ad esempio
l’antisemitismo presente nelle loro file). Si esce dalla guerra civile dopo
oltre tre anni, con un paese trasformato, ma prima di tutto distrutto. I
consiglieri stranieri avevano suggerito alla bande bianche soprattutto di
sabotare la rete dei trasporti, che in un paese come la Russia, per ragioni
anche climatiche, sono soprattutto ferroviari. D’altra parte le ferrovie erano
state costruite con capitali stranieri e attrezzature importate, ed era quindi
sufficiente bloccare l’afflusso di ricambi per ridurne il funzionamento a un
decimo di quello che erano prima della rivoluzione: non arrivano più pezzi di
ricambio, combustibile e materie prime per le fabbriche, che sono costrette
quasi tutte a chiudere. Gli operai – a parte quelli che sono andati
volontariamente a combattere al fronte nell’Armata rossa – tornano in genere al
villaggio di origine, dove hanno tutti qualche parente e dove si sopravvive
anche in tempo di carestia. Anche per questo non funzionano più i soviet, che
erano basati sul rapporto diretto tra gli eletti e la loro “base” operaia, che
li controllava e se occorreva li revocava. Quando nel 1921-1923, dopo la grande
crisi della guerra civile, si riapriranno le fabbriche, vi entreranno nuovi
operai di origine contadina, senza esperienza di lotte, e soprattutto di
organizzazione. Gli operai che si erano formati nella rivoluzione del 1905, e
poi avevano avuto un ruolo decisivo in quella del 1917, erano altrove. Quelli
stessi che erano entrati nell’Armata Rossa avevano mutato la loro mentalità
assumendone una fortemente militare, che li condizionerà anche nei nuovi
incarichi di direzione del paese. La guerra civile finisce nel ’20, ma nel
marzo del ’21 c’è l’insurrezione dei marinai a Kronštadt e la liberalizzazione
del commercio, mentre in vari governatorati (più o meno l’equivalente delle
nostre province) si verificano rivolte contadine. Questi episodi rivelano una
crisi del potere sovietico, il quale reagisce male: infatti non solo reprime
oltre misura la rivolta di Kronštadt, ma introduce all’interno dello stesso
partito comunista criteri di funzionamento diversi da quelli che aveva avuto
fino a quel momento. Il partito (che nel 1918 ha cambiato nome, da partito
operaio socialdemocratico russo a partito comunista) per tutti gli anni più
tragici, fino al marzo del ’21, aveva mantenuto infatti il diritto di
discussione aperta e anche il diritto di frazione al suo interno. Questa
vicenda si è intrecciata con un’altra: l’avvio della N.E.P. (nuova politica
economica), che introduce una tassa in natura approssimativa e non in
percentuale sulla produzione reale: per ogni ettaro l’imposta in natura viene
calcolata su un livello molto basso; il contadino, pagata quell’imposta,
dispone liberamente di quello che produce in più e può venderlo al prezzo
determinato dal rapporto tra domanda e offerta. Questo incoraggia i contadini a
produrre di più, ma al tempo stesso questa libertà di commercio produce un
inconveniente per le città: il piccolo contadino, per esempio, che deve portare
il suo prodotto nelle zone dove è più richiesto e si può vendere meglio, lo dà
agli intermediari, i quali a volte nascondono i prodotti e li vendono solo
quando il loro prezzo sale. A volte, quando il prezzo del grano è poco
remunerativo, si preferisce non venderlo e trasformare il grano in vodka, se
questo permette un guadagno maggiore. La NEP era stata decisa all’unanimità nel
partito, quando nessuno ne prevedeva le future conseguenze. Ma è nel corso
degli anni Venti che si determinano i primi problemi. L’Opposizione di sinistra
denuncia invano fin dal 1923-1924 il pericolo dell’arricchimento ulteriore e
incontrollato dei contadini ricchi (i kulaki) e degli intermediari, che Stalin
(allora alleato di Bucharin) sottovaluta completamente; quando nel 1929 si
renderà conto dei problemi, cercherà di risolverli con la violenza della
collettivizzazione forzata, che costerà al paese milioni di morti e un
permanente sfacelo dell’agricoltura (le conseguenze arriveranno fino al periodo
gorbacioviano e anzi fino ad oggi).
Le ripercussioni mondiali della rivoluzione russa
Il motivo iniziale della crescita del prestigio dei bolscevichi in tutta
l’Europa, e anzi nel mondo intero, è l’ammirazione per la loro lotta decisa e
coerente contro la guerra. Tutte le altre tendenze del movimento socialista o
difendono apertamente la guerra, o assumono posizioni ambigue (espresse in
Italia con la formula ipocrita Né aderire, né sabotare). I socialisti tedeschi
continuano dopo la rivoluzione di febbraio a difendere la guerra contro la
Russia sovietica con gli argomenti usati contro quella zarista. Anche quelli
che erano contro la guerra avevano paura di manifestarlo pubblicamente per non
essere costretti nella clandestinità dalla repressione. Ma la guerra comporta
privazioni non solo per chi sta al fronte; quindi l’idea che un paese possa
sottrarsi alla guerra con un atto rivoluzionario attrae molti socialisti nel
corso del 1917 e 1918, anni in cui aumenta sempre più il numero delle adesioni
alla lotta contro la guerra. Tuttavia, anche quelli che sono rimasti fedeli a
questa lotta e hanno partecipato alle due conferenze di Zimmerwald e Kienthal,
in Svizzera, si sono presto divisi tra chi – come Kautsky – si limita a
esprimere la propria protesta e chi si colloca nella prospettiva indicata dai
bolscevichi, lavorando per il rovesciamento rivoluzionario dei regimi che la
guerra hanno voluto. C’è un altro aspetto dell’estensione dell’influenza della
rivoluzione russa: durante la prima fase della guerra, la Russia aveva fatto un
gran numero di prigionieri, soprattutto appartenenti all’impero
austro-ungarico. Questi prigionieri vengono trattati bene durante la
rivoluzione e molti sono attratti da essa, e diventano comunisti. Molti dei
primi nuclei non si chiamano comunisti ma sono socialisti di sinistra, che
simpatizzano per la Russia sovietica perché questa ha dimostrato che la lotta
rivoluzionaria è l’unica strada per uscire dalla guerra. In molti paesi si
formano dei nuclei che aderiscono alla rivoluzione russa: In Germania quello
“spartachista”, di cui fanno parte Rosa Luxemburg e Karl Liebkhnecht. In Italia
si costituiscono due nuclei, uno a Napoli e nel Sud intorno alla rivista Il
soviet di Amedeo Bordiga, l’altro a Torino intorno a L’Ordine Nuovo di Antonio
Gramsci, ecc. Alcuni di questi nuclei, in diversi paesi, erano semianarchici:
per aderire all’Internazionale Comunista quando nasce nel 1919 l’importante è
essere contro la collaborazione con la borghesia che aveva voluto la guerra,
non l’accettazione delle posizioni teoriche di Lenin o Trotskij. La rivoluzione
russa ha come ripercussione in tutta Europa l’aumento delle lotte operaie e
anche concessioni “preventive” da parte dei governi borghesi, per disinnescare
le tensioni sociali; anche in Italia vengono emanate leggi che introducono le 8
ore lavorative. Mentre prima, nonostante fossero state rivendicate per 40 anni,
non si era ottenuto nulla adesso invece, come ripercussione della rivoluzione
russa e per la grande paura che la rivoluzione si estenda negli altri paesi,
vengono concesse. L’influenza della rivoluzione russa è effettivamente molto
grande, ma la risposta delle potenze conservatrici blocca preventivamente il
successo della rivoluzione nei paesi più importanti dell’Europa. In ogni paese
questo pericolo viene affrontato in vario modo: per esempio in Germania, dove
dopo il crollo dell’impero l’esercito è completamente disorganizzato, e la
polizia si nasconde per paura, la borghesia tedesca con la complicità dei
socialdemocratici si prepara alla controrivoluzione preventiva, e costituisce
delle bande armate della controrivoluzione (i “Corpi Franchi” assoldati dal
ministro della Guerra socialdemocratico Gustav Noske tra ex ufficiali e
avventurieri vari), che nel gennaio del 1919 assassinano a freddo Rosa
Luxemburg e Karl Liebkhnecht. Una grande complicità oggettiva con la
controrivoluzione ce l’ha l’Austria, che pure è governata da un partito
socialdemocratico di sinistra che a Vienna raggiunge il 70% di voti. Infatti
l’Austria, se fosse stata veramente socialista, avrebbe potuto e dovuto fornire
aiuto alle due rivoluzioni scoppiate nella primavera del 1919 in due paesi
confinanti, la Baviera e l’Ungheria. Concludendo, la rivoluzione russa ha avuto
inizialmente un effetto unificante sui lavoratori di tutto il mondo e
inizialmente ha trascinato gran parte delle socialdemocrazie. Poche di esse si
schierano apertamente contro la rivoluzione russa, e anzi molti partiti
socialisti decidono di aderire in blocco alla Terza Internazionale finché nel
’21 questa, nel suo III Congresso, non pone condizioni più rigide. Negli anni
successivi, la rivoluzione russa non sarà più un elemento unificante, perché in
URSS si adottano misure più rigide e restrittive della libertà, si evidenziano
incoerenze specie in politica estera, causando divisioni e ostilità, in parte
anche fondate su fatti reali. La Terza internazionale cambierà atteggiamento su
molte questioni importanti: ad esempio, nei primi anni, si impegna a fondo per
la rivoluzione anticoloniale, e sostiene che i partiti comunisti dei paesi
imperialisti devono aiutare i paesi che lottano per la liberazione dal dominio
coloniale e devono anzi incoraggiare la moltiplicazione delle lotte di
liberazione: ogni paese deve essere libero di scegliere il proprio destino.
Come vedremo, negli anni Trenta i comunisti (sospinti da Stalin a collaborare
con la propria borghesia) non si riveleranno fedeli a questo principio, con
conseguenze gravissime sul movimento anticolonialista di molti paesi. Il
processo di involuzione: le premesse oggettive Il processo di involuzione della
Russia sovietica comincia già all’inizio degli anni Venti con la scomparsa dei
soviet come organismi elettivi e revocabili. Questo processo non è provocato da
Lenin e neppure da Stalin, anche se, a differenza di Lenin, quest’ultimo non fa
nulla per contrastarlo. La crisi del potere sovietico comincia con la guerra
civile e si aggrava con l’insurrezione di Kronštadt nel 1921, che si intreccia
con le rivolte contadine che esplodono proprio dopo la fine della guerra
civile. E in quell’anno, mentre il potere sovietico sembra consolidato, avviene
il cambiamento nel regime interno del partito comunista (l’eliminazione del
diritto di frazione, a cui abbiamo già accennato). Le premesse di questo
processo di involuzione sono state già presentate in diverse lezioni: pesa in
primo luogo l’isolamento della rivoluzione russa, in seguito alle sconfitte
della rivoluzione in Germania, Francia, Italia, Ungheria, ecc., dovute a
immaturità e inesperienza delle giovani forze comuniste, e soprattutto al
tradimento delle direzioni socialdemocratiche. Di tutti i fattori, l’isolamento
della rivoluzione russa è il più importante. La rivoluzione russa è stata fatta
con la certezza di essere solo “un punto avanzato della rivoluzione mondiale”.
Lenin e Trotskij nel 1917 si rendono conto che c’è la possibilità di prendere
il potere (il che li spinge ad approfittare della crisi del governo provvisorio
interclassista sfociata nel dualismo di potere), ma sanno anche che è difficile
mantenerlo in un paese molto arretrato com’era la Russia di allora; per
mantenerlo è necessario che anche negli altri paesi, e soprattutto in quelli
economicamente e culturalmente più sviluppati, trionfi la rivoluzione
proletaria. Il fatto che la Russia sia un paese molto grande non implica che vi
si possa realizzare il socialismo: infatti la maggioranza della popolazione è
formata da contadini analfabeti difficili da raggiungere e mobilitare; inoltre
pone ostacoli anche l’arretratezza tecnologica e la conseguente dipendenza
dall’estero. La Russia è costretta a chiudersi nell’autarchia o a pagare a
carissimo prezzo la tecnologia, cosa che ha fatto fino al momento del crollo
del 1989-1991. È stata questa sfasatura tra i paesi che hanno il monopolio
tecnologico e i paesi arretrati, aggravatasi nel corso degli anni, il fattore
che in ultima analisi ha determinato il crollo. Che un paese sia arretrato o
avanzato non dipende solo dal tipo di struttura economica, ma anche da tutta
l’eredità, anche culturale, del passato. La Russia sovietica si è sviluppata in
un paese arretrato, che già nel 1917 disponeva di alcune zone con un’industria
moderna annegate in un contesto rurale primitivo: ha conosciuto poi negli anni
Trenta un grande sviluppo quantitativo (produce un’immensa quantità di acciaio,
cemento, energia elettrica...), che ha colpito l’immaginazione per la sua
rapidità, e ha fatto pensare agli stessi dirigenti sovietici (ad esempio a
Chruscev, il primo successore di Stalin) di poter raggiungere e superare presto
i principali paesi capitalistici. Anche in quella fase, quando venivano
lanciati nello spazio i primi satelliti, la qualità della produzione
industriale di massa era tuttavia assai scadente, e tutta la tecnologia di
avanguardia era concentrata nel settore militare e missilistico, che disponeva
ovviamente di computer, ma in un paese in cui nei negozi e negli stessi
supermercati si continuava a fare i conti sul pallottoliere. La Russia
sovietica dunque resta sola, non per sua scelta, e paga il prezzo della grande
arretratezza, della società e di parte dello stesso proletariato. La rivolta di
Kronštadt e il conseguente blocco del diritto di frazione rendono più difficile
la correzione degli errori e minore la capacità di affrontare i problemi creati
dalla NEP. La rivoluzione tedesca e Rosa Luxemburg La notizia dei grandi
scioperi esplosi in Germania e in Austria nel gennaio del 1918 aveva riempito
di speranza i dirigenti bolscevichi, ma quella prima ondata della rivoluzione
venne bloccata dal tradimento delle socialdemocrazia europea.
Quando, con un ritardo di alcuni mesi rispetto
alle previsioni di Lenin e Trotskij, nel novembre del ’18 crollano gli imperi
austro-ungarico e tedesco, cambia la carta geografica dell’Europa, ma le classi
dominanti riescono a riprendere il controllo dei paesi che si sono separati
dagli imperi crollati: l’Ungheria si stacca dall’impero austro-ungarico,
Slovenia, Croazia e Bosnia Erzegovina si uniscono a Serbia e Montenegro e
formano la Jugoslavia, nasce la repubblica Cecoslovacca, si forma la Polonia
riunificando le regioni che nelle spartizioni settecentesche erano state
annesse alla Russia, alla Prussia e all’Austria. In questa grande ondata
rivoluzionaria la Germania sembra essere la forza decisiva del movimento
operaio. Il movimento operaio tedesco viene considerato, non a torto, il più
organizzato, ma all’interno del partito socialdemocratico tedesco c’è solo un
piccolo gruppo di rivoluzionari, annegati in un mare di conformismo e di
fiducia cieca nei “capi”, e a lungo paralizzati dal mito dell’unità del
partito. Alcuni di loro, in particolare Rosa Luxemburg, avevano capito molto
prima di Lenin che il partito socialdemocratico faceva bei discorsi
rivoluzionari nei comizi della domenica, ma nella pratica cercava sempre di
chiedere solo quello che la controparte borghese aveva già deciso di concedere,
mentre un’ala apertamente filoimperialista giustificava perfino i crimini
compiuti dall’esercito tedesco nelle colonie africane. Questo gruppo si stacca
tardi, solo nel corso della guerra, dagli altri raggruppamenti
socialdemocratici di sinistra per formare un vero partito comunista. Allo
scoppio della guerra, nel 1914, gran parte di coloro che si dicevano fino al
giorno prima contrari alla guerra si schierano con la borghesia, argomentando
che la guerra è sì tremenda ma che bisogna comunque farla. In Germania in quel
momento sono veramente pochi a opporsi con decisione e coerenza alla guerra:
tra questi giganteggia Rosa Luxemburg. Lo stesso Liebknecht, che protesta
contro la guerra nelle riunioni del gruppo parlamentare, alla fine in aula
nell’agosto 1914 vota a favore dei crediti di guerra, perché non riesce a
staccarsi dal mito dell’unità ad ogni costo. È bello essere uniti se la linea
politica del partito è giusta, ma non se è sbagliata e avalla un crimine (e la
guerra è un crimine...). All’inizio della guerra Rosa viene arrestata, rendendo
esecutiva una condanna di due anni prima per un discorso che offendeva
l’imperatore, annullando la condizionale. La borghesia vuole impedirle di agire
liberamente e costruire l’opposizione alla guerra. La borghesia tedesca si
mostra più abile e capace di altre nel soffocare l’opposizione, soprattutto
perché ha un valido collaboratore nella socialdemocrazia ufficiale. Rosa passa
tutto il periodo delle guerra in carcere. Riesce a mantenere con alcuni
compagni fitti contatti epistolari, e scrive anche articoli che escono su fogli
clandestini (col nome di Lettere di Spartaco). A mano a mano che si comincia a
pagare di persona, per il carovita, i salari ridotti, l’aumento dell’orario di
lavoro, e soprattutto a mano a mano che arrivano le notizie delle terribili
perdite sui fronti che colpiscono quasi ogni famiglia, cresce nel paese
l’opposizione alla guerra. Nel corso del 1916-1917 aumentano gli scioperi, che
diventano appunto fortissimi nel gennaio 1918, in tutta la Germania e anche
nell’impero austroungarico. Come abbiamo accennato, i due imperi si sfaldano
simultaneamente all’inizio di novembre del 1918. Già nel gennaio del 1919 la
borghesia tedesca prende l’iniziativa per bloccare la rivoluzione con una
provocazione: la destituzione del prefetto di Berlino, Eichorn, un operaio del
partito socialdemocratico indipendente, molto amato dalle masse berlinesi. Le
masse scendono in piazza per protestare ma senza una direzione riconosciuta:
alcuni dirigenti più lucidi come Rosa Luxemburg e Karl Liebkhnecht vengono
arrestati e uccisi immediatamente senza processo, per “decapitare la
rivoluzione”. Nel marzo del 1919 si verifica una seconda fase della
controrivoluzione preventiva: la rivoluzione russa rimane ancora più assediata
perché l’ondata rivoluzionaria che si manifesta in diversi altri paesi come
l’Ungheria e la Baviera viene stroncata dalla violenta reazione della borghesia
interna appoggiata dalle forze militari dell’Intesa. Con l’uccisione di Rosa
Luxemburg e di altri militanti più maturi, d’altra parte, il partito comunista
tedesco era restato nelle mani di giovani inesperti e inaspriti, che rifiutano
qualsiasi iniziativa comune con la base socialdemocratica, considerata corresponsabile
dell’assassinio, e che sprecheranno diverse occasioni importanti. La repubblica
dei consigli in Ungheria La rivoluzione in Ungheria nasce dal panico della
borghesia, che non sa reggere all’attacco concentrico dei paesi confinanti, che
mirano a impossessarsi di zone del paese in cui vivono mescolati gruppi etnici
diversi (rumeni, slovacchi, serbi...).
L’Ungheria, dopo il distacco dall’Austria, aveva
creato una repubblica borghese assai fragile, il cui capo, il conte Michele
Karolyi, chiama socialisti e comunisti ad assumere responsabilità di governo
per salvare il paese dallo smembramento. I comunisti passano dal carcere al
governo, ma questo presenta molti punti deboli: viene costituita una
“repubblica dei consigli”, ma questi sono stati sollecitati dall’alto e non
formati spontaneamente. Inoltre, i comunisti appena usciti dal carcere non solo
si uniscono ai socialdemocratici per formare il governo, ma si fondono con essi
in un partito un po' confuso, in cui permane una burocrazia socialdemocratica
che ha aderito alla rivoluzione per opportunismo e si prepara a tradirla.
Soprattutto quando prendono il potere, i comunisti, a partire dal loro leader
Bela Kun, un giovane diventato comunista da poco durante la prigionia in
Russia, non hanno una grande esperienza e commettono molti errori di estremismo
(nazionalizzazione delle terre senza partecipazione dei contadini, ecc.).
Nonostante le difficoltà interne e gli errori dei suoi dirigenti, la repubblica
ungherese viene sconfitta solo dagli attacchi esterni (di serbi, cechi, croati,
rumeni, sotto la direzione di generali francesi e con l’appoggio di tutte le
potenze dell’Intesa), dopo quattro mesi dalla sua formazione. La Russia non è
stata in grado di intervenire in aiuto dell’Ungheria perché in quel periodo era
accerchiata in un piccolo territorio poco più grande dell’antico granducato di
Moscovia, e non poteva certo raggiungere i confini ungheresi. La sconfitta di
quei due primi processi rivoluzionari del 1919, in Baviera e in Ungheria (oltre
a quello in Germania, soffocato ancora prima che si manifestasse in tutte le
sue potenzialità) è un duro colpo per la rivoluzione russa. L’isolamento – come
non ci stanchiamo di sottolineare – contribuisce all’involuzione: in quel
contesto riaffiorano tutti gli elementi di arretratezza specifici della
situazione russa (contadini analfabeti, classe operaia dispersa per effetto del
blocco straniero e della guerra civile, ecc.). Un altro colpo verrà dalla
sconfitta della rivoluzione in Italia, che si è concretizzata nella grande
ondata di occupazioni di fabbriche del 1920, con l’elezione di consigli di
delegati (equivalente italiano dei soviet). Tradita dalla direzione socialista
e da quella della CGL di D’Aragona e della FIOM (Federazione italiana operai
metallurgici) guidata da Bruno Buozzi, l’occupazione delle fabbriche si
conclude con un grave arretramento, che lascia le porte aperte alla
controffensiva della borghesia, che comincia ad armare e finanziare i “Fasci di
combattimento” di Benito Mussolini. Il trionfo del fascismo crea un pericoloso
precedente, che verrà imitato in altri paesi dell’Europa. Ne parleremo tuttavia
più dettagliatamente nelle prossime lezioni. D’altra parte, l’involuzione della
Russia sovietica non può essere attribuita solo all’aggressione imperialista:
ci sono stati già in quei primi anni anche errori soggettivi, come le
repressioni degli anarchici, nel 1918 e soprattutto nel 1921: giustificate
spesso da atti irresponsabili e da pericolose leggerezze, hanno comunque
portato a sopprimere l’agibilità politica per una parte delle forze
rivoluzionarie che avevano contribuito al successo della rivoluzione d’Ottobre.
Dispensa 4 Dopo Lenin Finora nelle dispense sono state affrontate
prevalentemente le radici oggettive – internazionali ed interne – dell’involuzione
dell’URSS. Questa dispensa è dedicata essenzialmente alla discussione
sviluppatasi nell’ultimo periodo di vita di Lenin e poi, con particolare
violenza, subito dopo la sua morte. Prima di tutto va sgomberato il campo da
una mistificazione molto diffusa (e ripetuta abitualmente in gran parte dei
manuali di storia), che riduce lo scontro a una “lotta per la successione” a
Lenin. In realtà non si trattava di “successione” a un capo assoluto: Lenin
aveva un immenso prestigio ma, ad esempio, non assunse mai la carica di
“segretario generale”, divenuta da Stalin in poi il simbolo di un potere
assoluto al di sopra delle parti, di fatto associato a una specie di
“infallibilità” analoga a quella dei papi. Si trattava invece di uno scontro
politico sui problemi concreti dell’URSS, in particolare sul pericolo di
degenerazione burocratica e di restaurazione capitalistica, ma anche di ripresa
del vecchio sciovinismo russo. In una lettera del 25 settembre 1922 Lenin aveva
detto brutalmente: “il nostro apparato è una tale porcheria che bisogna
ripararlo radicalmente”. In un'altra lettera del maggio 1921 aveva parlato di
“m... schifezza del nostro apparato di direzione”. In un’altra lettera del
febbraio 1922 diceva che in queste “sezioni” (se così si chiamano tali
istituzioni presso il CC) vi sono in posti importanti degli stupidi e dei
pedanti. […] Noi stessi, (“lottando contro il burocratismo”…) ce ne creiamo uno
sotto il naso dei più vergognosi e dei più stupidi. Il potere del Comitato
centrale è grandissimo. Le sue possibilità sono immense. Distribuiamo il lavoro
a 200-400 mila funzionari di partito e, per mezzo loro, a migliaia e migliaia
di senza partito. E questa gigantesca opera viene completamente rovinata dal
burocratismo ottuso! La lettera era indirizzata a Vjaceslav Molotov, che fu per
tutta la vita il principale collaboratore di Stalin. Si noti che le dimensioni
dell’apparato sfuggivano a Lenin, tanto è vero che la cifra presumibile
oscillava tra 200 e 400.000. Nei primi anni dopo la rivoluzione, la segreteria
del partito affidata a Sverdlov contava invece poche decine di militanti
efficienti e soprattutto coscienti. Invece sotto la guida di Stalin, oltre a
ingigantirsi, l’apparato aveva cambiato natura: Abbiamo nelle sfere più alte
del potere non si sa esattamente quanti, ma almeno qualche migliaio, al massimo
qualche decina di migliaia dei nostri. Tuttavia alla base della gerarchia
centinaia di migliaia.di ex funzionari che abbiamo ereditato dallo zar e dalla
società borghese, lavorano, in parte coscientemente in parte incoscientemente,
contro di noi. In un rapporto all’XI congresso del partito tenuto a nome del
Comitato centrale del PCR (b) il 27 marzo 1922, Lenin ribadiva che, pur avendo
apparentemente nelle proprie mani tutte le leve del potere, il partito si
trovava in una situazione drammatica: La lotta con la società capitalistica è
diventata cento volte più accanita e pericolosa, perché non vediamo sempre
chiaramente chi è nemico e chi è nostro amico. Il pericolo nasce dalla
“mancanza di cultura fra i comunisti che hanno funzioni dirigenti. Prendiamo
Mosca – in cui vi sono 4.700 comunisti responsabili – e prendiamo questa
macchina burocratica, questa massa. Chi guida e chi è guidato? Dubito molto che
si possa dire che sono i comunisti a guidare questa massa. A dire il vero, non
sono essi che guidano, ma sono guidati. Qui è accaduto qualcosa di simile a
quello che ci raccontavano nelle lezioni di storia quando eravamo bambini. Ci
insegnavano: talvolta un popolo ne conquista un altro, e il popolo che ha
conquistato è il dominatore, mentre quello che è stato conquistato è il vinto.
[…] Se il popolo conquistatore ha un livello superiore a quello del popolo
vinto, impone a quest’ultimo la propria cultura; se è il contrario, avviene che
il popolo vinto impone la propria cultura al vincitore. Lenin precisava che
“l’impressione che i vinti [cioè i borghesi e i residui della burocrazia
zarista] abbiano un livello culturale elevato” era sbagliata: “Niente affatto.
La loro cultura è meschina, ma è tuttavia superiore alla nostra”. Parole
durissime. Ma non sarebbero più state ripetute dopo la morte di Lenin da
Stalin, che tra quei mediocri e incolti funzionari avrebbe trovato la sua base
e che, quindi, lusingò e assecondò. Nel suo ultimo scritto, la Lettera al Congresso
(più nota come Testamento politico), scritta tra gli ultimi giorni di dicembre
del 1922 e i primi di gennaio del 1923, Lenin denunciava i pericoli di
scissione nel partito, attribuendone la principale responsabilità ai rapporti
tra Stalin (che “divenuto segretario generale, ha concentrato nelle sue mani un
immenso potere”) e Trotskij, che “si distingue non solo per le sue eminenti
capacità. Personalmente egli è forse il più capace tra i membri dell’attuale
CC, ma ha anche una eccessiva sicurezza di sé”.
Passava poi in rassegna gli altri dirigenti di
primo piano (Zinov’ev, Kamenev, Bucharin e Piatakov, che furono tutti uccisi da
Stalin) segnalandone i limiti, ma raccomandandone l’utilizzazione in una
direzione collettiva, resa più forte dall’allargamento del CC a qualche decina
e perfino a un centinaio di membri. Su Stalin Lenin riprendeva la penna il 4
gennaio per indurire il giudizio in una Aggiunta alla lettera del 24 dicembre:
Stalin è troppo grossolano, e questo difetto, del tutto tollerabile nell’ambiente
e nei rapporti tra noi comunisti, diventa intollerabile nella funzione di
segretario generale. Perciò propongo ai compagni di pensare alla maniera di
togliere Stalin da questo incarico e di designare a questo posto un altro uomo
che, a parte tutti gli altri aspetti, si distingua dal compagno Stalin solo per
una migliore qualità, quella cioè di essere più tollerante, più leale, più
cortese e più riguardoso verso i compagni, meno capriccioso, ecc. La maggiore
asprezza era dovuta alla notizia che Stalin aveva tentato di sottrarre
documenti a Nadezda Krupskaja, moglie e principale collaboratrice di Lenin, e
l’aveva trattata con arroganza, al punto di provocare l’interruzione dei
rapporti personali tra i due dirigenti. Ma le ultime note (dettate nei pochi minuti
che ogni giorno i medici consentivano per l’attività intellettuale a Lenin già
gravemente malato) chiariscono un altro punto fondamentale di dissenso: la
questione delle nazionalità. Il 30 dicembre inizia la dettatura con una frase
impressionante: A quanto pare sono fortemente in colpa verso gli operai della
Russia, perché non mi sono occupato con sufficiente energia e decisione della
famosa questione dell’autonomizzazione ufficialmente detta, mi pare, questione
della unione delle repubbliche socialiste sovietiche.
Lenin si scusava per non aver potuto partecipare a
causa della malattia alla discussione sul progetto che stava definendo la
struttura di quella che dal 1923 si sarebbe chiamata Unione delle repubbliche
socialiste sovietiche, cioè URSS. Ma aveva scritto delle note di severa critica
alle limitazioni dei diritti delle repubbliche federate nel progetto: “Noi ci
riconosciamo eguali nei diritti con la RSS di Ucraina e con le altre, ed
entriamo su un piede di uguaglianza con esse, in una nuova Unione, in una nuova
Federazione” e aveva ottenuto alcune modifiche al testo. Tuttavia non era
tranquillo sull’esito finale, preannunciato da vari atteggiamenti intolleranti
e sopraffattori che si erano manifestati soprattutto in Georgia, dove
Orgionikidze (un fedelissimo di Stalin, che tuttavia perirà ugualmente nel
1937, forse suicida come altri dirigenti, tra cui il leader dei sindacati
Tomskij, prima di essere arrestato) aveva “potuto lasciarsi andare alla
violenza fisica” contro alcuni dirigenti locali. Così scrive che, se si è
arrivati a questo punto, “ci si può immaginare in quale pantano siamo
scivolati”. Si dice che ci voleva l’unità dell’apparato. Ma di dove sono venute
fuori queste affermazioni? Non sono forse venute fuori da quell’apparato russo
che, come ho già rilevato in una delle note precedenti del mio diario, abbiamo
ereditato dallo zarismo, e che è stato solo appena ricoperto di uno strato di
vernice sovietica?[…] Io penso che qui hanno avuto una funzione nefasta la
frettolosità di Stalin e la sua tendenza a usare i metodi amministrativi,
nonché il suo odio contro il famigerato “socialnazionalismo”.
IL rancore
in generale, è di solito, in politica, di grandissimo danno. Lenin si
preoccupava che lo stesso Dzerdzinki, il capo della CEKA, nonostante fosse di
origine polacca, avesse assunto, come molti altri allogeni un “atteggiamento da
vero russo” e non potesse indagare sulla situazione georgiana (anche se era
stato il primo a informarlo). Ma è su Stalin che si concentrano ancora una
volta le critiche più severe: lo si paragona due volte a Giergimorda, un rozzo
poliziotto sciovinista descritto da Gogol. Il georgiano che considera con
disprezzo questo aspetto della questione, che facilmente si lascia andare
all’accusa di “socialnazionalismo” (quando egli stesso è non solo un vero e
proprio “socialnazionale”, ma anche un rozzo Giergimorda grande-russo), quel
georgiano in sostanza viola gli interessi della solidarietà proletaria di
classe, perché niente ostacola tanto lo sviluppo e il consolidamento della
solidarietà proletaria di classe quanto l’ingiustizia nazionale, e a niente
sono così sensibili gli appartenenti alle nazionalità “offese” come al
sentimento di eguaglianza e alla violazione di questa eguaglianza. […] Ecco
perché in questo caso è meglio esagerare dal lato della cedevolezza e della
comprensione verso le minoranze che non il contrario. Ecco perché in questo
caso l’interesse più profondo della solidarietà proletaria, e quindi anche
della lotte di classe proletaria, esige che noi non abbiamo mai un
atteggiamento formale verso la questione nazionale, ma che teniamo sempre conto
della immancabile differenza che non può non esserci nell’atteggiamento del
proletariato della nazione oppressa (o piccola) verso la nazione dominante (o
grande). Le altre misure proposte da Lenin nella lettera (l’ampliamento del CC,
l’attribuzione di funzioni legislative al Gosplan, l’organo responsabile della
pianificazione), ecc., non erano probabilmente sufficienti ad arginare i
processi involutivi, ma comunque tentavano di farlo. Ma non c’è dubbio che
Lenin tentava di opporsi all’involuzione, mentre Stalin la asseconderà, la
nasconderà e anzi la nobiliterà verbalmente. Quindi l’inizio delle
differenziazioni, e la prima critica radicale della società russa “sovietica”,
può essere fatta risalire a Lenin più che a qualsiasi altro. Ancora sulla
questione nazionale Nelle opere di Lenin, vera miniera inesauribile di spunti
stimolanti ed esempio inimitabile di dialettica, si trovano molti altri scritti
che confermano che le indicazioni del Testamento non erano frutto di un tardivo
ripensamento o, peggio ancora, di una attenuata lucidità. Pochi mesi prima, il
6 ottobre 1922, Lenin aveva inviato, ad esempio, un Biglietto all'Ufficio
politico sulla lotta contro lo sciovinismo di grande potenza che diceva
testualmente. Dichiaro guerra mortale allo sciovinismo grande-russo. Non appena
mi sarò liberato di questo maledetto dente, lo assalirò con tutti i miei denti
sani. Bisogna assolutamente insistere affinché il CEC federale sia presieduto a
turno da: un russo un ucraino un georgiano ecc. assolutamente! Vostro Lenin Ma
anche prima di quell'ultimo drammatico anno Lenin aveva ribadito la sua
convinzione che non si dovesse imporre in nessuna maniera l'unione alle
nazionalità non russe, e che ogni nuova repubblica sovietica (di cui si
auspicava la moltiplicazione, indipendentemente dall'appartenenza originaria
all'impero russo o ad altri Stati) dovesse avere il suo esercito e la sua
politica autonoma.
Lo aveva scritto molte volte nel 1917, bollando
l'ipocrisia dei Kerenski che parlavano dell'Algeria o dell'Irlanda senza
parlare dell'Algeria russa o dell'Irlanda russa, come chiamava l'Ucraina,
l'Armenia, la Finlandia, il Turkestan (che in decine di scritti, non solo
contingenti o polemici, definisce “colonie” dell'impero russo). Sull'Ucraina
ritorna più volte: La democrazia rivoluzionaria della Russia, se vuol essere
veramente rivoluzionaria, se vuol essere una vera democrazia, deve rompere con
questo passato, deve riconquistare a se stessa, agli operai e ai contadini
della Russia, la fiducia fraterna degli operai e dei contadini dell'Ucraina. E
non può farlo senza riconoscere pienamente i diritti dell'Ucraina, compreso il
diritto alla libera separazione. Non siamo fautori dei piccoli stati. Siamo per
l'unione più stretta degli operai di tutti i paesi contro i capitalisti, i
“propri” e quelli di tutti i paesi in generale. Ma proprio perché quest'unione
sia volontaria, l'operaio russo, non fidandosi per niente e neppure per un
momento né della borghesia russa, né della borghesia ucraina, è ora favorevole
al diritto di separazione degli ucraini, non impone loro la sua amicizia, ma
la conquista trattandoli come eguali, come alleati e fratelli nella lotta per
il socialismo. A chi obiettasse che, essendo uno scritto del giugno 1917,
potrebbe trattarsi di “tattica”, si può rispondere in primo luogo che per i
marxisti rivoluzionari come Lenin non era neppure concepibile quella “tattica”
divergente dalla strategia e indipendente o contrapposta ai principi che
diverrà invece pratica corrente nel periodo staliniano e che rimane ancor oggi
nel senso comune di vecchie e “nuove” sinistre anche nel nostro paese. Ma ancor
più significativa è la lettera inviata a Orgionikidze il 2 marzo 1921, dopo la
conquista del potere da parte dei comunisti georgiani. La riproduciamo pertanto
integralmente. Orgionikidze. Baku 2-III-1921 Trasmettete ai comunisti georgiani
e particolarmente a tutti i membri del Comitato rivoluzionario georgiano il mio
caloroso saluto alla Georgia sovietica. Vi prego particolarmente di farmi
sapere se vi è tra noi e loro un accordo completo su questi tre problemi:
Primo: bisogna armare immediatamente gli operai e i contadini poveri, per
creare un forte esercito rosso georgiano. Secondo: è necessaria una particolare
politica di concessioni verso gli intellettuali e i piccoli commercianti
georgiani. Bisogna capire che non soltanto non conviene nazionalizzarli ma
bisogna anche sopportare determinati sacrifici pur di migliorare la loro
situazione e di lasciar svolgere loro il loro piccolo commercio. Terzo: è
infinitamente importante cercare un compromesso accettabile per fare blocco con
Giordania o con i menscevichi georgiani come lui, che prima ancora
dell'insurrezione non erano del tutto contrari all'idea di un regime sovietico
in Georgia a determinate condizioni. Vi prego di ricordare che le condizioni
interne e internazionali della Georgia non esigono dai comunisti georgiani
l'applicazione degli schemi russi, ma un'elaborazione abile e duttile di una
tattica originale, basata su un atteggiamento più conciliante verso gli
elementi piccolo-borghesi di ogni tipo. Attendo una risposta Lenin In
quell’ultima angosciante battaglia contro l’involuzione dell’Unione sovietica
Lenin chiede aiuto a Trotskij con una lettera che ha un tono affettuoso in lui
insolito: Caro compagno Trotskij, vi pregherei molto di assumervi la difesa
della questione georgiana al CC del partito. La cosa è ora sotto “inquisizione”
di Stalin e Dzerginski, e non posso fidarmi della loro imparzialità.
Tutt’altro. Se voi accettate di assumervene la difesa, potrei essere
tranquillo. Se per qualche motivo non accettate, restituitemi tutto
l’incartamento. Considererei ciò un segno del vostro rifiuto. Con i migliori
saluti comunisti Lenin Dettato per telefono il 5 marzo 1923 Trotskij accettò
l’incarico, che confermava la profonda sintonia creatasi negli ultimi anni, e
che si era consolidata nella prima metà del dicembre 1922 sulla questione del
monopolio del commercio estero, che Stalin proponeva di abolire. Anche in
quell’occasione Lenin aveva confermato la sua totale fiducia in Trotskij, e
aveva comunicato a Stalin che in caso di impedimento fisico la sua posizione
sarebbe stata difesa da Trotskij, che “sosterrà le mie opinioni non peggio di
me”. In quel caso Stalin preferì ritirare la sua proposta, che avrebbe dato via
libera ai kulaki e agli imprenditori emersi con la NEP. Sulla questione
georgiana Trotskij non condusse a fondo la battaglia. In quel periodo in cui la
malattia di Lenin si aggravava (il 7 marzo ebbe un nuovo attacco del male e il
10 marzo era già paralizzato e aveva perso la possibilità di parlare), e ancor
più nei mesi successivi, quando si scatenò la campagna di Stalin e dei suoi
alleati che attribuivano a Trotskij “ambizioni bonapartiste” e gli
rimproveravano il suo passato “non bolscevico” e perfino le sue origini
ebraiche, rimase disgustato ma anche disorientato, e si ritirò spesso da Mosca
in campagna per curare una misteriosa malattia, probabilmente di natura
psicosomatica. Così, pur sostenendo le posizioni di Lenin, non diede battaglia
per far pubblicare la Lettera al congresso, ed anzi accettò di smentirne
l’esistenza quando una copia di essa fu pubblicata all’estero. Subito dopo la
morte di Lenin la composizione del partito fu cambiata con la cosiddetta “Leva
Lenin”, che contraddiceva un’altra indicazione di Lenin allargando anziché
restringere il partito (ne abbiamo già parlato brevemente nella Dispensa n. 2).
Tutto diveniva più difficile. Dunque Trotskij fu sospinto a battersi contro la
burocrazia e Stalin, che ne era il portavoce e l’interprete, dapprima dallo
stesso Lenin, poi da 46 dirigenti prestigiosi del partito, che il 15 ottobre
del 1923 inviarono una lettera al CC del partito in cui esaminavano la
situazione economica del paese e quella interna del partito, chiedendo la
reintroduzione di una piena democrazia interna e la convocazione di una
conferenza straordinaria. La libertà in seno al partito è praticamente
scomparsa – affermava la dichiarazione – e l’opinione pubblica nel partito è
soffocata. Il partito, le sue larghe masse, rinunciano di giorno in giorno a
scegliere e a promuovere i membri dei comitati provinciali e del Comitato
centrale del partito comunista russo. Allo stesso tempo, la gerarchia burocratica
del partito continua a controllare un numero sempre maggiore di delegati a
congressi e a conferenze, che stanno trasformandosi sempre più in vere
assemblee esecutive di questa gerarchia. La dichiarazione dei 46 fu accusata di
essere un “atto frazionistico”, attribuendone l’ispirazione a Trotskij che era
tuttavia, come spesso in quel periodo, malato e non poté difendersi. Ma la
risonanza dei nomi dei firmatari (tra essi Pjatakov, Preobraženskij,
Antonov-Ovseenko, Smirnov, Muralov, ecc.) impose di accoglierne in parte le
sollecitazioni, aprendo un dibattito sulle pagine della “Pravda” e poi
annunciando il 5 dicembre 1923 l’apertura di un “Nuovo corso”. Ma il controllo
dell’apparato da parte di Stalin permise di cominciare le vendette:
Antonov-Ovseenko (che era stato l’organizzatore dell’assalto al Palazzo
d’inverno il 7 novembre del 1917) fu rimosso dal suo posto di Commissario
Politico dell’Armata Rossa, e il Comitato centrale dell’organizzazione dei
giovani comunisti, il Komsomol, fu sciolto per sostituire con elementi nominati
dall’alto la maggioranza schierata con gli oppositori. Il 15 dicembre Stalin
polemizzava apertamente con Trotskij sulla “Pravda” e lo stesso giorno Zinov’ev
lo attaccava ancor più duramente introducendo nel dibattito il termine “trotskismo”.
IL leader attaccato non poteva difendersi perché i
medici gli avevano imposto di recarsi in convalescenza nel Caucaso, da cui
inviava articoli, mentre il ruolo di coordinatore dell’opposizione era svolto
da Preobraženskij. Quella prima opposizione del 1923 era una coalizione
abbastanza eterogenea, che aveva dovuto trovare faticosamente una base
d’accordo a scapito della chiarezza. Alcuni dei firmatari avevano espresso
riserve su un punto o su un altro: la base comune era la lotta per la democrazia
nel partito. Non era nata certo su basi ideologiche astratte, o su una
contrapposizione personale a Stalin, che tra l’altro continuava ad essere
sottovalutato e considerato solo un rozzo esecutore materiale di altri (allora
Zinov’ev e Kamenev, poi Bucharin). Non era certo un’opposizione “trotskista”,
come si dirà nella “storia ufficiale” che, da allora in poi, si scrive e si
riscrive, cancellando nomi o spostandoli dall’elenco dei “leninisti” a quello
dei “controrivoluzionari”. Sono le contraddizioni emerse nei primi anni di
applicazione della NEP (Nuova politica economica) a provocare le
differenziazioni. Il “gruppo dei 46” e poi l’Opposizione di sinistra denunciano
la formazione, soprattutto nelle campagne, di uno strato privilegiato (i kulaki
e i settori intermediari) che punta alla restaurazione del capitalismo e
soffoca i contadini poveri. Di fronte a questo fenomeno, che rischia di
annullare le conquiste della rivoluzione, Trotskij propone di aiutare i
contadini poveri, potenziali alleati della classe operaia, ma troppo deboli per
fornire alla popolazione urbana quel grano che i kulaki tengono nascosto per
fare alzare i prezzi, o che trasformano in vodka per realizzare un maggior
profitto. La sua proposta, fin dal 1923, è quella di sviluppare un’industria
finalizzata ai bisogni dei contadini medi e poveri, in particolare la
produzione di trattori e altri strumenti agricoli da concedere alle
cooperative, per invogliare con un incentivo materiale i contadini a entrare in
esse vincendo il tradizionale individualismo. Cento contadini con appezzamenti
di un ettaro coltivati con tecniche arretrate hanno un sovrapprodotto troppo
piccolo, mentre associati in una cooperativa dotata di trattori e assistiti
dallo Stato possono aumentare notevolmente la produzione complessiva, sfamando
le città, colpite da carestie non inferiori a quelle del periodo precedente
alla NEP. Grottescamente questa posizione viene presentata dalla frazione
staliniana come “sottovalutazione dei contadini”, soprattutto quando Stalin si
allea con Bucharin, che lancia la famosa parola d’ordine “arricchitevi!”
rivolta ai contadini, sorvolando sul fatto che l’arricchimento è solo dello
strato privilegiato dei kulaki ai danni dei contadini poveri e della stessa
classe operaia. Negli scritti che Trotskij riesce a pubblicare sulla “Pravda”
tra la fine del 1923 e il 1924 (poi diventerà sempre più difficile) e che sono
stati raccolti in un volumetto sotto il titolo di Nuovo corso, egli si
proponeva di dare maggiore organicità alla battaglia che gli oppositori avevano
cominciato nel partito, evitando lo scontro aperto, diretto e personale. La
ragione principale era il timore che l’inasprimento delle polemiche potesse
portare a quella frattura netta e aperta nel gruppo dirigente che Lenin aveva
temuto e che avrebbe indebolito ulteriormente quel partito di cui segnalava con
allarme la fragilità. Tutto il contrario di quanto viene ripetuto abitualmente
dai “nostalgici” dello stalinismo, dal russo Volkogonov all’italiano Canfora,
che non osano difendere apertamente quel regime, ma da un lato ne minimizzano
le colpe, dall’altro denigrano chi si era opposto all’involuzione burocratica,
sostenendo che l’atteggiamento di Trotskij era “speculare” a quello di Stalin,
e insinuando che se avesse vinto lui, avrebbe fatto di peggio. Tra gli scritti
più interessanti contenuti nella raccolta, sono esemplari per la metodologia
quelli sulla burocratizzazione, che riconducono ai processi oggettivi anziché a
un “perfido disegno” di Stalin, e per l’analisi delle differenziazioni nel
partito, che non esalta ma interpreta come un logico riflesso delle
contraddizioni delle due classi che costituivano la base del potere sovietico,
gli operai e i contadini, con il terzo incomodo della rinascente borghesia
sviluppatasi con la NEP. Tuttavia Trotskij non è ancora arrivato a riflettere
sulla pericolosità del partito unico, prodotto praticamente inevitabile della
precarietà del potere sovietico durante la guerra civile, ma generatore di
tensioni interne (nel partito unico si manifestano in qualche modo le
contraddizioni della società) e soprattutto di un regime interno sempre più
autoritario e conformista, anche perché sugli oppositori la minaccia di
espulsione significa la morte civile, dato che è esclusa e considerata
“controrivoluzionaria” la formazione o ricostituzione di altri partiti della
classe operaia. Solo negli anni Trenta, dopo le catastrofi della
collettivizzazione forzata, e della oggettiva corresponsabilità
dell’Internazionale comunista stalinizzata, Trotskij arriverà a sostenere la
necessità di una pluralità di partiti sovietici, in particolare nel suo libro
La rivoluzione tradita che, nel 1936, registra i successi, ma anche le profonde
contraddizioni del regime, individuando magistralmente le cause che lo
porteranno al crollo. Importanti anche gli scritti sull’economia. Rispondendo
all’accusa di una presunta “sottovalutazione dei contadini”, Trotskij ricordava
di essere stato il primo a proporre, nel 1919 e poi in maniera più organica nel
febbraio 1920, cioè più di un anno prima della NEP, le misure che saranno
adottate nel X congresso del marzo 1921. “Forse la nostra politica contadina è
stata sbagliata su qualche punto particolare: sta di fatto che non ha provocato
tra noi nessuna divergenza. È con la mia attiva partecipazione che la nostra
politica si è orientata verso il contadino medio. L’esperienza del lavoro del
settore militare ha peraltro non poco contribuito alla realizzazione di questa
politica: come si sarebbe potuto sottovalutare il ruolo e l’importanza dei
contadini nella formazione di un esercito rivoluzionario reclutato tra i
contadini e organizzato con l’aiuto degli operai avanzati? Sotto l’influenza
delle sue osservazioni sullo stato d’animo dell’esercito e delle constatazioni
fatte sulla situazione economica nella zona degli Urali appunto nel febbraio
del 1920, Trotskij aveva scritto in un documento per il CC che l’attuale
politica di requisizione dei prodotti alimentari, di responsabilità collettiva
per la consegna di questi prodotti e di uguale ripartizione dei prodotti
industriali provoca la progressiva decadenza dell’agricoltura, la dispersione
del proletariato industriale, e minaccia di disorganizzare completamente la
vita economica del paese. Come misura fondamentale egli aveva proposto di
“sostituire la requisizione dei prodotti eccedenti con un prelevamento
proporzionato alla quantità prodotta (una specie di imposta progressiva sul
reddito) stabilito in modo che sia sempre vantaggioso aumentare la superficie
di semina o coltivarla nel modo migliore” Cioè esattamente quello che farà la
NEP. Allora il suo progetto fu respinto dal CC.
Cinque anni dopo, gli veniva rinfacciato il
contrario, in base al principio “calunnia, calunnia, qualcosa rimarrà sempre”,
tanto più se esiste una sproporzione nell’accesso alla stampa tra i calunniati
e i calunniatori. E qualcosa è rimasto, visto che ancora oggi c’è chi continua
ad attribuire a Trotskij la “sottovalutazione dei contadini”, o peggio ancora a
sostenere che le sue proposte successive (invogliare con stimoli materiali i
contadini poveri e medi a entrare in cooperative costituite su base volontaria)
sarebbero state riprese da Stalin per la collettivizzazione forzata del
1929-1930, che provocò milioni di vittime. Una comparazione assurda, analoga a
quella di chi mettesse sullo stesso piano un libero rapporto sessuale basato
sull’amore e l’attrazione reciproca e uno stupro a mano armata. Un altro saggio
affrontava il ruolo della pianificazione nell’economia, basandosi su documenti
che attestavano la sua reale posizione negli anni precedenti, anche in quel
caso per sfatare la leggenda di una sua vocazione autoritaria. Ma senza
risultato. Anche questa calunnia ha continuato a circolare, come quella che gli
attribuisce particolari efferatezze durante la repressione della rivolta di
Kronštadt, continuando a ignorare il piccolo particolare che Trotskij non fu
nemmeno presente a Kronštadt. Ma l’accusa, fatta circolare da Stalin, viene
ripresa testardamente dagli anarchici e magari anche da chi ha giustificato ben
altre repressioni, dal Grande Terrore degli anni Trenta in URSS a piazza Tien
Anmen. Me la sono sentita riproporre in centinaia di dibattiti, a volte dalle
stesse persone a cui avevo pazientemente spiegato come erano andate le cose.
Calunnia, calunnia, qualcosa resterà… Le mutevoli alleanze di Stalin cambiano
già nel 1925 il quadro. Kamenev e Zinov’ev, che lo avevano sostenuto e
“coperto” nell’ultima fase della malattia di Lenin, e poi nella difficile fase
immediatamente successiva, consentendogli di consolidare il suo potere, si
accorgono angosciati di essere stati cinicamente usati, passano all’opposizione
insieme alla vedova di Lenin (che aveva già protestato per il culto quasi
religioso del dirigente scomparso, profondamente estraneo alla tradizione del
movimento operaio). Si tratta di una svolta importante, anche se Stalin
intimidirà Nadezda Krupskaja dicendole che se necessario avrebbe trovato
un'altra “vedova”). Trotskij esiterà a unirsi a questi nuovi oppositori, che
riprendevano molte delle sue analisi, ma avevano collaborato strettamente con
Stalin: Kamenev subito dopo il febbraio 1917, quando la “Prava” aveva
appoggiato il governo provvisorio, e Zinov’ev introducendo nell’Internazionale
comunista la cosiddetta “bolscevizzazione”, che proiettava negli altri partiti
comunisti i metodi burocratici affermatisi nel partito russo. Ma alla fine si
arriverà a una non entusiastica collaborazione, facilitata dall’autocritica di
Zinov’ev e Kamenev, che denunciarono pubblicamente l’esistenza della trojka, la
“frazione segreta” creata da Stalin con la loro collaborazione per manipolare
le decisioni del Politbjuro, il massimo organo di direzione del partito. Si
arrivò così a stendere una “piattaforma politica” dell’Opposizione di sinistra
unificata, che tentò di presentare le sue tesi al XV Congresso del partito del
1927, senza avere la possibilità di farla conoscere come di consuetudine sugli
organi del partito. L’espulsione dei suoi principali esponenti venne anzi
motivata con il pretesto di una “tipografia clandestina”, cioè un modesto
ciclostile su cui avevano tentato di riprodurre le loro tesi. Pur avendo
raccolto oltre 6.000 firme sul loro documento, gli oppositori ottennero
ufficialmente solo 4.000 voti. In realtà, nel periodo gorbacioviano si scoprì
negli archivi momentaneamente aperti che avevano ottenuto un risultato assai
migliore, con decine di migliaia di voti nelle maggiori città. La diffidenza di
Trotskij verso questi momentanei compagni di strada risultò fondata: essi
capitolarono subito dopo il congresso davanti a Stalin, che li tenne in sospeso
a lungo prima di riammetterli, senza incarichi, nel partito. Negli anni Trenta
saranno ugualmente processati e condannati a morte con accuse infamanti.
Moltissimi firmatari o semplici iscritti al partito colpevoli di avere votato
per le tesi dell’Opposizione di sinistra pagheranno con la vita quel gesto. Uno
di essi, l’italiano Dante Corneli, rifugiatosi nella Russia sovietica dopo aver
ucciso in uno scontro uno squadrista fascista, sopravvisse, ma per quel voto
passò ventisei anni della sua vita nel GULag o al confino, mentre in Italia era
stato condannato per omicidio a venti anni nel 1923, quando già Mussolini era
al potere! La “Piattaforma dell’Opposizione” si apriva con un riferimento
all’ultimo discorso tenuto da Lenin in un congresso: Ecco che è passato un
altro anno! [finché Lenin fu vivo, i congressi del partito – nonostante gli
immensi impegni – si tenevano ogni anno, poi si diradarono: tra il XVIII e il
XIX passarono ad esempio tredici anni, nonostante non ci fosse altro da fare
che “approvare le decisioni già prese - NdA]. Lo Stato è nelle nostre mani, ma
nel settore dell’economia politica nulla quest’anno è proceduto secondo la
nostra volontà. […] Ma come mai la macchina ha funzionato così? La macchina
gira non nella direzione nella quale noi la dirigiamo, ma nella direzione in
cui qualcuno la dirige. Questo qualcuno sono forse gli illegali, gli
irresponsabili, la gente venuta dio sa da dove: gli speculatori, i piccoli
proprietari capitalisti. […] La macchina gira del tutto diversamente,
soprattutto diversamente da come chi è al volante immagina”. Il testo
analizzava poi le continue giravolte del gruppo dirigente: “Si deforma Lenin,
lo si corregge, lo si interpreta a seconda delle circostanze per coprire gli
errori che si susseguono”. In quel momento si sottolineava soprattutto la
crescita di un ceto politico capitalistico e si paventava un suo successo
politico.
Una “sopravvalutazione” del pericolo, dicono gli
sciocchi preoccupati di ridicolizzare le voci di chi ha colto tanto prima di
loro la dinamica involutiva. In realtà si trattava di un allarme più che
giustificato, e fatto in un tempo in cui si poteva ancora ricorrere a misure
politiche ed economiche, che venivano chiaramente indicate. Quando Stalin
riuscì a capire la dimensione che stava assumendo l’economia controllata dai
kulaki, alla fine del 1928, non seppe fare altro che deportarli e sterminarli
in massa, basandosi sulla forza bruta. Se ritenne “necessario” massacrare
milioni di contadini (kulaki, ma anche contadini medi e piccoli che
recalcitravano di fronte alla collettivizzazione forzata che li privava delle
conquiste della rivoluzione e li trasformava di fatto in servi della gleba,
obbligandoli a lavorare per poco o niente e vincolandoli al kholkhoz in cui risiedevano
con la reintroduzione del “passaporto interno”) evidentemente aveva capito, sia
pure con un ritardo imperdonabile, che il pericolo esisteva realmente, ed era
corso ai ripari nell’unico modo che concepiva. Chi sosteneva (qualcuno lo
sostiene ancora oggi) che l’Opposizione di sinistra disprezzava i contadini
prescindeva dalle analisi contenute nella “Piattaforma” e in altri documenti
precedenti, che denunciavano la “crisi delle forbici”, cioè il divario tra i
prezzi dei prodotti agricoli e quelli dei prodotti industriali: i contadini
ricevevano non più del 125% dei prezzi di prima della guerra, mentre per i
prodotti industriali l’aumento era stato del 220%, sicché il surplus prelevato
dai contadini era aumentato enormemente, provocando non solo contraddizioni tra
l’economia industriale e quella agricola, ma anche ulteriori differenziazioni
nelle campagne, a beneficio di kulaki e intermediari. Le soluzioni indicate
erano complesse, e riguardavano sia la politica dei prezzi, sia l’appoggio alla
cooperazione a cui abbiamo già accennato. D’altra parte la gestione burocratica
dell’economia provocava un netto peggioramento della stessa condizione operaia,
con un restringimento dei salari reali, e l’apparizione di fenomeni di
disoccupazione, una restrizione delle garanzie giuridiche a tutela dei
lavoratori, l’aumento degli incidenti sul lavoro e della nocività ambientale.
Anche le condizioni abitative erano nettamente peggiorate per i lavoratori: le
stesse statistiche sovietiche (che tuttavia dalla metà degli anni Venti
cominciano già ad essere “aggiustate” e manipolate a scopo propagandistico,
fino a non rispecchiare più minimamente la situazione reale, come avverrà negli
ultimi decenni prima del “crollo”) descrivevano la seguente situazione nelle
città dell’URSS: agli operai spettavano da 5 a 6 metri quadrati, agli impiegati
da 6 a 9, mentre gli artigiani ne avevano 7,6, i liberi professionisti 10,9,
gli “elementi che non lavorano” 7,1 metri quadrati. La condizione abitativa
della burocrazia alta e media, che nelle statistiche non figurava, era assai
superiore, perché incominciava l’uso di assegnare, a seconda del posto occupato
nella nomenklatura, non solo appartamenti spaziosi ma anche dacie vicine alla
città e nei luoghi di villeggiatura marina o montana, a volte di centinaia di
metri quadrati. L’ultimo segretario generale del PCUS, Gorbaciov, al momento
del golpe dell’agosto 1991 si trovava nella quinta casa di villeggiatura, che
si era fatto appena costruire sulle sponde del Mar Nero. Il documento analizzava
poi lo stato dei soviet, denunciandone la trasformazione in organismi
burocratici lontanissimi dall’indicazione data da Lenin alla vigilia
dell’Ottobre in Stato e rivoluzione. Lenin […], basandosi sull’analisi della
Comune di Parigi fatta da Marx, sosteneva con forza l’idea che in uno Stato
socialista le persone che occupano cariche pubbliche cesseranno di essere dei
“burocrati”, dei “funzionari”, nella misura in cui si introdurrà, oltre
l’eleggibilità, la possibilità di sostituzione in qualsiasi momento; nella
misura in cui il loro salario si abbasserà al livello medio degli operai; nella
misura in cui le istituzioni parlamentari saranno sostituite da istituzioni che
decretano le leggi e nello stesso tempo le applicano. La questione della
revocabilità era strettamente legata al principio della retribuzione pari al
salario medio degli operai, dal momento che anche un dirigente di origine
proletaria o contadina, una volta ottenuto uno stipendio di 10 o 20 volte
superiore a quello della categoria di provenienza, tende a non staccarsi più
dalla poltrona occupata e considera una sciagura il ritorno in produzione. Lo
vediamo ancor oggi nei partiti operai, compreso il PRC che, pure, trattiene una
parte delle laute retribuzioni assegnate ai parlamentari, ai consiglieri
regionali e provinciali, e perfino agli assessori comunali: è difficilissimo
sostituire chi ha conquistato un posto ben pagato, e quindi ha paura di
assumere una posizione “controcorrente” che può mettere in forse il
mantenimento di una posizione così ben compensata. Un capitolo importante della
“Piattaforma” era dedicato alla questione nazionale. In esso si ribadivano le
concezioni di Lenin e si chiedeva, tardivamente e quindi vanamente, la
pubblicazione delle lettere di Lenin al XIII Congresso, che tutti i principali
firmatari (oltre ai tre già nominati, anche Pjatakov, Preobraženskij, Radek,
Smilga, Bakaev, Endokimov, Muralov, Joffe, Sokolnikov, Rakovskij, Krestinskij,
Antonov-Ovseenko) avevano a suo tempo accettato di mantenere segrete. Questo
capitolo ribadiva comunque le concezioni di Lenin e ammoniva contro il rischio
che lo sciovinismo “grande-russo” generasse per reazione una ripresa di
nazionalismi virulenti tra le nazioni oppresse. Una parte molto ampia era
dedicata alle questioni internazionali, in particolare alla tragica vicenda del
partito comunista cinese, sospinto dalle direttive di Stalin e del suo alleato
Bucharin a entrare nel Kuomintang, il principale partito borghese della Cina,
che aveva approfittato dell’appoggio dell’Internazionale comunista per sferrare
un attacco sanguinoso; per oltre due decenni il PCC sarebbe stato costretto ad
abbandonare le grandi città industriali in cui era sorto e aveva la sua base
principale, per rifugiarsi in zone agricole lontane e inospitali.
Peraltro l’Opposizione di sinistra sottolineava
che permanevano le condizioni per una ripresa su nuove basi della rivoluzione
cinese: ma sarebbero stati necessari due decenni terribili, e diverse decine di
milioni di morti. Altri capitoli affrontavano lucidamente varie questioni, tra
cui quella della ripresa dell’alcolismo (e della scandalosa instaurazione di un
monopolio statale della vodka, per cui rimandiamo a un’apposita scheda), il
funzionamento dell’esercito e della marina, i problemi del partito (che aveva perso
in 18 mesi oltre 100.000 operai di fabbrica, sostituiti da membri dell’apparato
statale), quelli dei giovani comunisti (che registravano anch’essi una
diminuzione della presenza operaia, e un netto aumento dei contadini medi –
passati dal 20% del 1925 al 32,5% nel 1927 – a scapito di quelli poveri). Sulla
questione del partito, oltre ad analizzare il progressivo abbassamento del
livello politico e della partecipazione attiva degli iscritti, il documento
faceva un accenno che rivelava l’inizio di una discussione – certo non conclusa
– sul “partito unico”: Il fatto che il PC dell’URSS sia l’unico partito, cosa
assolutamente necessaria alla rivoluzione, comporta anche un certo numero di
pericoli. l’XI congresso, al tempo di Lenin, indicava apertamente che in quel
momento c’erano già importanti gruppi (tra i contadini ricchi, tra gli strati
più elevati dei funzionari, tra gli intellettuali) che avrebbero aderito ai
socialisti-rivoluzionari e ai menscevichi, se questi partiti fossero stati
legali. Naturalmente, in quel clima in cui la maggioranza staliniana non
esitava a ricorrere alla violenza fisica per impedire all’Opposizione di
esporre le sue idee nelle assemblee, presentando quei rivoluzionari come
“scissionisti” e “frazionisti”, il documento ribadiva solennemente che essi non
avevano nessuna intenzione di costruire un “secondo partito”, ma volevano solo
“la rettifica della linea del PC dell’URSS”. Sarà Trotskij, con quelli che non
cedettero a Stalin e insieme a lui rimasero fedeli alle concezioni marxiste rivoluzionarie,
a riprendere la riflessione, ad arrivare alla conclusione della irriformabilità
del partito e dell’Internazionale comunista, e a sostenere quindi la
legittimità di diversi partiti sovietici.
E forse questa conclusione ha contribuito all’odio
verso di lui dei burocrati di tutto il mondo, che hanno progressivamente
rinunciato a tutte le concezioni comuniste, ma non al dogma della inevitabilità
del partito unico, in URSS e dovunque i comunisti erano arrivati al potere.
Appendice A Con Dario Fo alla riscoperta di Majakovskij ... e dell'URSS degli
anni Venti Un contributo alla datazione dell'involuzione dell'URSS È una
piacevole sorpresa trovare in libreria, in veste gradevole e a prezzo modesto,
un libro stimolante come quello propostoci da Dario Fo che “seleziona e
condivide” i “messaggi ai posteri” di Majakovskij. Tra l'altro introduce una
piccola speranza in una possibile inversione di rotta degli Editori Riuniti,
rispetto alla spoliticizzazione e agli alti prezzi degli ultimi anni. Dario Fo ovviamente
ripercorre le tappe del suo incontro con un poeta, pittore, guitto a cui
evidentemente deve molto: “non posso dire che Majakovskij sia stato per me un
maestro, un vate, ma sicuramente un compagno di viaggio, un sollecitatore di
idee che hanno poi attraversato la mia opera”, scrive. È proprio questa
affinità che ha consentito una scelta così efficace in meno di duecento pagine.
Così, accanto alle liriche “di entusiasmo rivoluzionario, di convinta
partecipazione agli eventi” e al tempo stesso cariche di rabbia e aggressività,
e soprattutto “mai banalmente trionfalistiche o didascaliche”, Dario Fo ha
scelto un forte nucleo di poesie antiburocratiche, all'interno delle quali
giustamente colloca il bellissimo poema Vladimir Ilic Lenin. Accanto al piacere
della riscoperta (ma sicuramente per moltissimi giovani oggi in realtà si
tratta di un primo incontro con questo grande e inquietante poeta), questa
selezione offre anche spunti per qualche riflessione sull'URSS, sulla sua
storia, e sul delicatissimo problema della datazione della sua involuzione. Ciò
è tanto più importante in un momento in cui anche nel nostro partito, il PRC, -
nel quadro di una corsa alla celebrazione acritica e all'accaparramento di
Berlinguer - viene riproposto e a volte tra le righe condiviso il famoso
giudizio sull'"esaurimento della spinta propulsiva dell'Ottobre", che
era due volte sbagliato, sia per la straordinaria e permanente attualità della
più grande rivoluzione della storia umana, sia per la implicita postdatazione
dei fenomeni involutivi, che venivano fatti coincidere banalmente con la
tardiva e parziale presa di coscienza iniziata nel PCI appena alla metà degli
anni Sessanta, con decenni di ritardo, persino rispetto alle prime clamorose
manifestazioni dei sintomi della crisi (dalla rivolta operaia di Berlino Est
nel giugno 1953 a quella di Poznan e alla rivoluzione dei consigli operai di
Budapest del 1956, assurdamente bollate per lungo tempo come
"controrivoluzioni fasciste"). Ma seguiamo dunque Dario Fo e Majakovskij:
Una porta. Sulla porta "Non si entra senza essere annunciati". Sotto
Marx, impoltronato in una poltrona, siede lungo e liscio, con un alto
stipendio, l'investito responsabile. Su di lui sta un regalo di contrabbando,
un gilet: in una tasca, una penna di sentinella; nell'altra sporge l'angolino
di una tessera con una lunghissima, revisionata anzianità. La giornata tutta è
una continua fatica per la mente. Sulla fronte, un pensiero impenetrabile:
presso chi dovrà sistemare la comare, presso chi impiegherà il compare?.
Chi ha conosciuto bene l'Unione Sovietica negli
ultimi anni non fatica a riconoscere uno dei tanti ipocriti burocrati che si
trinceravano dietro un ritratto di Marx o di Lenin, e che hanno recitato
giaculatorie "marxiste-leniniste" fino al giorno in cui sono passati
fulmineamente a Eltsin e all'apologia di un libero mercato che non esiste ma
copre i loro loschi traffici con le joint-ventures. Si tratta tuttavia di una
poesia del 1926: questo spiega alcuni particolari che potrebbero oggi apparire
secondari o incomprensibili, come il gilet di contrabbando (negli ultimi
decenni i contrabbandi della "nomenklatura" riguardavano beni ben più
sostanziosi, ma allora, negli anni della fame e delle privazioni, era già uno
schiaffo terribile all'etica proletaria), o la tessera “con una lunghissima,
revisionata anzianità”, che alludeva alla miriade di funzionari che avevano
aderito alla rivoluzione solo dopo la fine della guerra civile e si erano
ricostruiti un passato impeccabile (caso emblematico quello del grande
accusatore staliniano, Andrej Vyscinskij, che durante la guerra civile era
stato menscevico e ostile alla rivoluzione, e che negli anni Trenta mandò al
patibolo gran parte del comitato centrale bolscevico). Majakovskij è
implacabile nello sferzare questo tipo di burocrate: Da per tutto ha sistemato
gentarella, da per tutto ha infilato un battistrada. Sa bene a chi dare lo
sgambetto dove avere una maniglia. Ognuno è sistemato: la fidanzata nel trust,
il compare al Gum, il fratello al Narkomat. [...] Lui alla parola ha tolto ogni
traslato. Ha inteso alla lettera "fratellanza dei popoli" come
felicità di fratelli, di zie e di sorelle. Questa poesia non è l'unica né
tantomeno la prima a sferzare i costumi dei "comunisti": Lenin, che
non amava la poesia di Majakovskij e in genere dei futuristi, fece in tempo ad
apprezzare alcune delle sue denunce dei costumi burocratici. Ecco come ne
parlava, ad esempio, in un discorso del 6 marzo 1922 ai comunisti presenti nel
congresso dei metallurgici russi: Ieri ho letto per caso nelle Izvestia una
poesia di Majakovski su un tema politico. Non sono un ammiratore del suo
talento poetico, pur riconoscendo la mia totale incompetenza in questo campo.
Ma da molto tempo non provavo un piacere così grande dal punto di vista politico
ed amministrativo. Nella sua poesia Majakovskj prende in giro le riunioni, e i
comunisti che non fanno altro che riunioni e ancora riunioni. Non so quanto
valga la poesia, ma per quanto riguarda la politica vi posso assicurare che si
tratta della pura verità. Majakovskij descriveva minuziosamente le pratiche
abituali già allora negli uffici "sovietici", come le intimidazioni
al postulante ("Mancano i dati") finché il malcapitato capiva e
depositava sul tavolo un pacchetto "di nuovi dati", cioè di banconote,
sbloccando la pratica. Descriveva le macchine, le cene del burocrate con
l'amante nei ristoranti di lusso, tracannando buon vino e dispensandole regali
(dai profumi alle mutandine), che erano introvabili in quegli anni per una
donna sovietica non inserita nel giro della corruzione. A uno così, l'incendio
dell'Ottobre gli fa da paravento mentre ruba migliaia di rubli operai. È venuto
da noi per dilapidare nelle bettole la miseria sovietica. E Majakovskij
dichiara con sdegno che potrà forse un giorno dare la mano perfino a un
"bianco", limitandosi a ricordargli “la suonata / che vi hanno dato i
nostri”, che non bisogna chiedere castighi per chi ha rubato pane, che si può
anche perdonare a un assassino, ma nessuna pietà ci deve essere “per coloro che
si sono appiccicati / alle nostre / file, / e quelli / che ai soldi / si sono
appiccicati”: Ma se colui che ha rubato questo rublo col palmo toccherà il
palmo della mia mano, io, prima la laverò, e poi mi raschierò con la pomice la
pelle insozzata. Noi ai bianchi siamo riusciti a malapena a spezzare le corna,
ci zoppica per ora una gamba, ma per noi, affamati e rattoppati, più pauroso e
abietto di qualsiasi nemico è il concussionario! In un'altra poesia dello
stesso anno, Fabbrica di burocrati, Majakovskij descrive un altro personaggio
tipico: Lo hanno mandato per realizzare il regime. Di medie capacità. Di media
età. Nella mente, i piani. nel cuore, la decisione. Nella tasca, la penna e la
tessera del partito. Va su e giù, ordina con gesti energici. Si vede subito:
un'era nuova comincia! Accanto a lui una segretaria che “anche se bruciate /
più ardenti del sole, / sistemerà / tutto quest'ardore nelle comunicazioni, /
in un questionario, / e in una circolare”. Majakovskij protesta: Con disgusto
vanno accolte le scartoffie. Ma appena te ne lasci sedurre, passa un giorno e
già hai la testa intalmudata in cartacee assurdità. [...] L'ardore se n'è
andato in inchiostro senza traccia. Il presidente s'è attaccato alla carta come
una zecca... Cos'è l'ambiente! Proprio una cosa infame! Guardavo, la faccia più
bianca del gesso, attraverso le burocratiche tenebre. Colava il sudore,
strideva la penna, la mano era sfinita e di nuovo s'affaticava, ma senza fine
come una mole bianca cresceva la montagna di scartoffie. Il risultato è che “i
deboli gemiti / della coscienza / di partito / il carico da evadere / soffoca /
di giorno in giorno”. E il burocrate, “inondato tutto il paese / di inutili
cartacce, / depone / la pancia / nella macchina, / ed eccolo / che verso la
villa /corre tutto tronfio”. Non è solo un'indignazione per uno stile
insopportabile, a spingere il poeta a rifiutare “i resoconti” che “crescono
nelle cantine”, sollevando “ettolitri di inchiostro”. C'è una percezione di un
pericolo ben più grave: Uno stuolo di funzionari da una settimana all'altra
annulla il tuono e l'opera dell'Ottobre, e a molti perfino spuntano di dietro i
bottoni di prima del febbraio, con tanto d'aquila. La conclusione, dopo questa
inquietante osservazione sulla ricomparsa della vecchia mentalità simboleggiata
dal metaforico rispuntare dei bottoni delle divise dell'epoca zarista “con
tanto d'aquila”, è che “da ciascuno, / con un certo talento, / può venir fuori
/ un burocrate”, e che quindi il comunista, che “non è un uccello / e non ha
bisogno di fornirsi / d'una coda di carta”, deve afferrare il funzionario “per
la collottola / dalle scartoffie, / spedite a dritta e a manca, / perché [...]
/ non gli appannino / alla vista / il comunismo”. Majakovskij presenta un vasto
campionario dei meschini tipi umani che si affacciavano trionfanti sulla scena
della Russia degli anni Venti.
Ci sono i piccolo borghesi che ostentano il
ritratto di Karl Marx accanto alla gabbia dei canarini, i maestri delle
raccomandazioni a catena agli "amici degli amici", i professionisti
dell'autocritica a scopo tattico che non sopportano le critiche vere dal basso,
soprattutto se vengono dal "brontolare del giornale murale", e
raccomandano ai sottoposti: Scrivete le vostre osservazioni e inoltratele per
via gerarchica [...] purché il critico non sia inferiore al diciassettesimo
grado. È un testo del 1928, in cui l'amarezza, lo sdegno e la disperazione si
sono raddoppiati, come si intende bene dall'appello finale: E mentre i capi
infilzano chiacchiere democratiche, in mezzo a noi vivono i devoti del
silenzio: le pecore della classe operaia. Ma intanto che taciamo da schiavi, le
orde degli ex bianchi si rafforzano: infuriano, violentano e rapinano, e agli
indocili ammaccano il muso. La pelle / dei silenziosi ha una struttura astuta:
gli sputi sul naso, e loro si puliscono: "Sul grugno mica ha fatto rumore,
perché dovremmo lamentarci? Non vogliamo dire addio al nostro
stipendiuccio." Ribolliranno mezz'ora in un cantuccio, poi di nuovo
cominceranno a tremare. Ehi, svegliatevi, voi che dormite! Smaschera da cima a
piedi. Compagno, non devi tacere! Dario Fo ha scelto dalla vastissima
produzione antiburocratica di Majakovskij altri testi significativi: ad
esempio, Il vigliacco descrive coloro che “nascondendo gli sguardi, / i loro
gusti [...] / strisciano [...] / in un paese / glorioso / per gente ardita”:
Ogni capo per essi è un alto papavero. [...] Con le orecchie lunghe un metro -
meno no, assolutamente - va dietro al principale, perché, ascoltate le sue
opinioni, domani possa ripetergliele. Ma, se il superiore le cambia, lui fa
proprio il parere del capo. [...] Il vile si copre di carte come d'una scorza.
Il leccapiedi, che “si scalda / al sole / d'una tenera autorità” e la cui vita
“fila in ordine”, appare ugualmente non solo un ripugnante tipo umano, ma un
segno di un degrado che comincia ad apparire e risulterà irreversibile: Il suo
tesoro è il suo talento, la soave capacità di trattare. Lecca il piede, la
mano, lecca alla cintola, più in basso, come un cucciolo lecca la cagna, come
il micino lecca la gatta.
E la lingua per trenta metri gli striscia fuori
quando vuol raggiungere l'autorità, tutta insaponata che può perfino radere
senza usare il pennello. [...] Anche a lui sono toccati i gradi, per il suo
sapersi allineare. E in qualche posto sono state affidate a quanto pare, le
redini del potere. Una volta che la briglia è già in mano, si portano tutti a
fare i leccapiedi, si grida, spruzzando saliva, "Rispettate, bisogna
rispettare l'autorità". Noi guardiamo, gemendo sconfortati, come cresce
dai loro fratelli l'arcigerarchia delle gerarchie a scherno della democrazia.
Poesie come queste, o opere teatrali come Il bagno, valsero a Majakovskij
l'odio imperituro dei burocrati, che gli assicurò amarezze crescenti
nell'ultima fase tristissima della sua vita, e poi il duplice oltraggio
postumo: prima il comunicato ufficiale che spiegava che il suo suicidio non
aveva “nulla in comune con l'attività sociale letteraria del poeta”, poi, dopo
qualche anno di silenzio, il suo recupero come “il migliore e più geniale poeta
dell'epoca”. La definizione era di Stalin, che non aveva mai sopportato il
poeta vivo, ma pensava che fosse utilizzabile da morto. Il risultato fu che “si
incominciò a introdurre Majakovskij in modo forzato, come le patate al tempo di
Caterina”, come scrisse Boris Pasternak. Il suo suicidio non fu il solo di
quegli anni. Paradossalmente, in una delle sue più belle poesie scelte da Dario
Fo, Majakovskij aveva rimproverato affettuosamente Esenin per la sua morte,
avvenuta alla fine del 1925, pur raccogliendo e parafrasando l'estremo
messaggio del poeta, scritto col sangue sulle pareti dell'hotel Angleterre di
Leningrado: “Non è nuovo morire in questa vita / ma più nuovo non è di certo
vivere”. Dell'addio a Esenin riportiamo l'inquietante conclusione: La canaglia
Finora s'è diradata poco. Molto è il lavoro, e occorre fare in tempo. Per prima
cosa Bisogna rifare la vita, una volta rifatta, si potrà esaltarla. È un'epoca
questa piuttosto difficile per la penna. [...] Per l'allegria è poco attrezzato
il nostro pianeta. Bisogna Strappare la gioia ai giorni venturi. In questa vita
non è difficile morire. Vivere è di gran lunga più difficile. La testimonianza
di Majakovskij sulla sua epoca è tanto più preziosa in quanto viene dal più
appassionato cantore della rivoluzione, ma è confermata da moltissime altre
opere letterarie che in modo diverso hanno espresso l'inquietudine per quello
che stava accadendo nella Russia postrivoluzionaria. Pensiamo ad esempio
all'inquietante prefigurazione di Noi, il quasi dimenticato romanzo distopico
di Zamjatin a cui attinsero a piene mani tanto l'Orwell di 1984 che l'Huxley di
Un mondo felice. Pensiamo a Cuore di cane e soprattutto a Le uova fatali di
Bulgakov, anch'esse opere scritte nei primissimi anni Venti, e che sembrano
prefigurare quell'uso distorto della scienza da parte di una grossolana e cieca
burocrazia che ha seminato di catastrofi ecologiche l'URSS staliniana e quella
degli epigoni (più che a Cernobyl pensiamo alla desertificazione del Mar
d'Aral, finalizzata all'introduzione della monocultura a cotone
nell'Uzbekistan, che ha provocato a sua volta la distruzione di una delle più
floride agricolture dell'Asia). Ci sembra assurdo che tante voci prefiguranti,
che tante testimonianze alte e disinteressate siano state ignorate per decenni.
Eppure è così. E non è solo frutto di involontaria ignoranza, di una semplice e
passiva mancanza di sapere: c'è al contrario in molti casi un non voler sapere,
un rifiuto di fare i conti con tutto quello che non è comprensibile con i
poveri schemi propagandistici che per decenni sono stati spacciati per
"marxismo-leninismo". Mi sono scontrato recentemente con una
incredibile volontà censoria di un editore "di sinistra", che ha
tentato di espungere da un testo su Guevara regolarmente commissionato la
maggior parte dei riferimenti alle intuizioni che il Che aveva avuto su limiti
e contraddizioni del sistema sovietico, a partire dalla sua applicazione a
Cuba, e che alla fine ha ugualmente mutilato il testo di alcune parti importanti
(come le testimonianze dei consiglieri sovietici e cecoslovacchi), tentando di
salvaguardare con la censura i suoi pregiudizi (conservo a futura memoria i fax
con l'intera inequivocabile serie di proposte di tagli di intere pagine e
perfino di frasi all'interno di una citazione). C'è dunque chi rimane sconvolto
dalla scoperta che un giovane autodidatta come Guevara, sia pur a partire da un
punto di osservazione privilegiato all'interno del sistema, avesse potuto
cogliere i sintomi della crisi del "socialismo reale" fin dai primi
anni Sessanta. È ovvio che questi atteggiamenti (e pensiamo non solo a
quell'editore, ma a non pochi intellettuali che sono assai popolari nella
"base" del PRC, probabilmente perché forniscono semplicistiche conferme
alle vecchie e infondate certezze che l'esperienza storica avrebbe dovuto
spazzare via) si spiegano solo col rifiuto di confrontarsi con l'imponente
documentazione sull'involuzione burocratica del sistema staliniano fornite sia
da storici rigorosi, sia da una vastissima memorialistica, sia da quelle
testimonianze indirette dei più vivaci e sensibili scrittori sovietici. Inutile
dire che chi ha voluto accecarsi fino al crollo del 1989- 1991, o che anche
dopo ha finito per aggrapparsi a spiegazioni irrazionali sui "complotti"
o i "tradimenti" di questo o quel dirigente, o a infondate illusioni
riposte nei partiti "socialisti" sorti in Lituania, Polonia,
Ungheria, ecc. da spezzoni dei vecchi partiti "comunisti" (a cui si
attribuiscono i propri desideri e non le concezioni moderatamente liberiste, ma
comunque filocapitalistiche, a cui quegli epigoni realmente si rifanno),
ovviamente non si è mai degnato di esaminare laicamente la storia del lungo
declino dell'URSS, e meno che mai di confrontarsi con le pagine veramente profetiche
de La rivoluzione tradita, preferendo ripetere nei confronti di Trotskij le
vecchie calunnie staliniane o le banalità mutuate reciprocamente
dall'eurocomunismo e dalla "nuova sinistra". Ma di quelle pagine,
non meno che della testimonianza di Guevara, e di quelle di Majakovskij e degli
altri scrittori sovietici che hanno impegnato la loro vita per la rivoluzione e
che sono stati schiantati dalla sua involuzione, hanno bisogno le giovani
generazioni, che non potranno ricostruire e rifondare il comunismo, la
sinistra, il movimento operaio, senza una comprensione materialistica dei
processi involutivi che l'hanno portato alla lunga serie di sconfitte e di
fallimenti da cui dobbiamo faticosamente ripartire. 11 giugno 1994 Appendice B
Trotskij, e il trotskismo Che vuol dire “trotskista”? Se lo chiedeva anche
Guevara, sentendo che i burocrati sovietici (e quelli cubani filosovietici) gli
davano del “trotskista” per i suoi ultimi discorsi in cui criticava lo scarso
impegno dei “paesi socialisti” in difesa del Vietnam, e anche la sostanziale
complicità con l’imperialismo sul terreno dello scambio ineguale tra macchinari
sovrapagati e materie prime sottopagate. E negli ultimi anni della sua vita
cominciò a leggere e studiare Trotskij, per capire le ragioni delle tante
scelte dell’URSS che egli non condivideva. Ne abbiamo finalmente prove più
consistenti dei pochi accenni contenuti in qualche lettera e nelle
testimonianze dei collaboratori, dato che sono stati trovati e pubblicati i
suoi quaderni di studio in Bolivia, pieni di citazioni di Trotskij, appunto.
A quanto pare, è una vecchia abitudine liquidare
come “trotskista” chi dice cose scomode. Vedremo perché e quando è cominciato,
ma intanto sappiamo che almeno uno di quelli accusati di questa misteriosa
“colpa”, Ernesto Che Guevara, è uno dei rivoluzionari al di sopra di ogni
sospetto, e anzi un punto di riferimento permanente e sempre più attuale per
chi vuole cambiare il mondo e non adattarvisi, ridipingendolo un po’ di rosa.
Giustamente Fausto Bertinotti, ha replicato a Cossutta che quando si tira fuori
lo spauracchio del trotskismo, vuol dire che c’è ancora nostalgia dello
stalinismo. Trotskij non era “trotskista” Il termine “trotskismo” non è mai
stato usato da Leone Trotskij, né più né meno come vivo Lenin nessuno (tranne i
suoi nemici) parlava di “leninismo”: il termine marxismo-leninismo è stato
coniato dopo la sua morte da Stalin, che ha trasformato il pensiero vivo, e
quindi a volte contraddittorio, dei due grandi rivoluzionari in un sistema
dogmatico rigido, che aveva bisogno poi di un sommo sacerdote per proporre
l’interpretazione “corretta”. Anche Marx disse che non era marxista. Il termine
tuttavia fu usato da Lenin in polemica con Trotskij negli anni tra il 1903 e il
1917, quando Trotskij fu, come e insieme a Rosa Luxemburg, un critico severo
della concezione del partito proposta da Lenin. A sua volta Lenin era stato
durissimo, come era consuetudine nelle polemiche interne al movimento operaio,
con l’uno e con l’altra, e in particolare con il “trotskismo”. I falsari
staliniani hanno usato quelle polemiche, staccandole dal contesto e
assolutizzandole. Quello che è assurdo è che anche nella stessa nuova sinistra
di derivazione maoista si è ripresa – in perfetta malafede - la stessa
forzatura, sorvolando su un piccolo particolare: Trotskij e Rosa Luxemburg
polemizzavano allora contro il pericolo di una eccessiva centralizzazione del
partito, anzi contro una possibile sostituzione del partito alle masse e del
Comitato centrale al partito, ma in forma diversa hanno ammesso entrambi di
essersi sbagliati. Rosa non ha potuto farlo in un lavoro organico, perché non
ha fatto in tempo, ma ha reso onore dal carcere alla lungimiranza di Lenin e
del partito bolscevico nel suo scritto, per altri aspetti critico, sulla Rivoluzione
russa. Trotskij lo ha detto più ampiamente e fin dalla primavera del 1917 si
ricongiunge ai bolscevichi diventando “il migliore dei bolscevichi”, e
difendendo fino all’ultimo giorno della sua vita la concezione del partito di
Lenin. La maggior parte della stessa “nuova sinistra” nata dopo il ’68 ha
presto buttato alle ortiche Lenin, non solo sul partito, e riprende a volte
(forzandole) le critiche di Rosa. Su Trotskij silenzio. Eppure diceva le stesse
cose della Luxemburg. Io credo avesse ragione Trotskij quando si è
autocriticato e che abbiano torto tutti quelli che buttano via Lenin e
soprattutto il famigerato “centralismo democratico” (odiato solo perché con lo
stesso nome si chiamava il regime autoritario esistente nei partiti omunisti
stalinizzati). Ma Trotskij rimane un tabu. O non se ne parla, o se ne deve
parlare male. Perché? Un po’ di storia Visto che viene evocata una vicenda
lontana, presente nei miti e negli stereotipi negativi della sinistra, ma non
nella sua cultura (non dimentico lo stupore e lo scandalo di alcuni compagni,
oggi usciti con i “cossuttiani”, quando Fausto Bertinotti in “Tutti colori del
rosso”, parlando delle letture che lo avevano formato, fece riferimento a Rosa
Luxemburg e a “La rivoluzione tradita” di Trotskij), dobbiamo ricostruire
alcuni dati di fatto. Chi era Trotskij La “colpa” principale che non è stata
perdonata a Trotskij da tutti gli apologeti e dai tardivi “nostalgici” del
regime staliniano è stata la lucidissima critica che ne fece dall’interno. E
non certo perché fosse un “emarginato”. Negli anni tra il 1917 e il 1923
nessuno in Russia e nel mondo dubitava che dopo Lenin la figura più prestigiosa
della rivoluzione fosse Trotskij. Era stato già presidente del Soviet di
Pietroburgo nel 1905, e fu di nuovo la figura pubblica più eminente nei mesi
febbrili che precedettero l’Ottobre. Oratore eccezionale che infiammava le
folle, fu anche paziente organizzatore dell’insurrezione (la tanto vituperata
“presa del palazzo d’Inverno”, che oggi nel linguaggio della sinistra, compresa
la “nuova”, è diventata sinonimo di qualcosa da evitare accuratamente…).
Commissario del popolo agli Esteri, poi organizzatore dell’Armata Rossa, con
cui visse gli anni più duri della guerra civile in prima linea, sul leggendario
treno blindato, era adorato dai giovani ufficiali proletari forgiatisi nella
lotta. Forse anche per questo, già nell’anno della lunga agonia di Lenin,
cominciò una campagna di denigrazione contro Trotskij, accusato di volere il
potere personale, di essere un “bonapartista”, e soprattutto di non essere
stato un “bolscevico doc” tra il 1903 e il 1917, per le sue critiche ai
pericoli di involuzione autoritaria del partito. L’accusa era del tutto priva
di fondamento. Egli rinunciò sdegnato a tutte le cariche, e a chi gli domandava
anni dopo perché non avesse usato l'Armata Rossa per fermare Stalin e la
burocratizzazione, rispose che se lo avesse fatto avrebbe accelerato e non
fermato l’involuzione. Il ricorso all’esercito, anche se è il più democratico
del mondo come l’Armata Rossa di allora, non può mai garantire la democrazia.
La ragione di tanta ostilità (a parte l’invidia dei mediocri nei confronti di
un leader tanto amato) era dovuta al fatto che già nel 1923 Trotskij aveva
colto, insieme a molti dirigenti prestigiosi del partito e dello Stato
sovietico, i pericoli di involuzione che si delineavano non solo per l’immensa
burocratizzazione, ma per le tendenze filocapitalistiche che comparivano come
sottoprodotto della NEP. Su questi aspetti, che è ovviamente impossibile sviluppare
in questa sede, oltre al libro fondamentale di Edward Carr sull’URSS (Storia
della rivoluzione sovietica, Einaudi, Torino, 1964-1984, purtroppo in ben nove
grossi tomi), e alla sintesi stesa dallo stesso Carr, La rivoluzione russa. Da
Lenin a Stalin (1917-1929), Einaudi, Torino, 1980, rinvio anche al mio libro
Intellettuali e potere in URSS (1917-1991), Milella, Lecce, 1995.
Il ruolo di Stalin Stalin era il vero regista
della campagna contro il “bonapartismo” di Trotskij. Tuttavia, essendo praticamente
sconosciuto e tutt’altro che brillante (non parlava neppure bene il russo), fu
sottovalutato da Trotskij e un po’ da tutti, dato che appariva solo il
“braccio” di altri dirigenti, come Kamenev e Zinov’ev prima e poi Bucharin, che
egli invece utilizzò e poi liquidò brutalmente. Il suo potere cominciò a
crescere nell’ombra solo nel 1922, l’ultimo anno in cui Lenin poté occuparsi
del partito. Basta leggere “I dieci giorni che sconvolsero il mondo” di John
Reed per comprendere che nel 1917 Stalin non era nessuno. E la carica di cui si
impossessò e che fu la leva per il potere era originariamente tecnica:
“segretario” era chi curava i rapporti del gruppo dirigente con la periferia.
Fino alla sua morte nel 1919 tale compito era stato assolto da Jacob Sverdlosk
con l’aiuto di un numero esiguo di compagni. Dal VI congresso del 1919 la
segreteria diventa un organo collegiale, in cui tuttavia nessuno è membro
dell’Ufficio Politico, che ha compiti di direzione tra un comitato centrale e
l’altro. Il coordinamento è affidato nel 1919 a Elena Stasova, l’anno
successivo a Krestinskij, e nel 1921 a Molotov, e solo nel 1922 a Stalin, che
si presenta come segretario generale (cioè coordinatore degli altri segretari,
non capo supremo!). Sia chiaro: questa carica, passata poi in tutti i partiti
comunisti negli anni successivi, non era mai stata di Lenin! Da quella
posizione tuttavia, approfittando delle difficoltà organizzative del periodo
successivo alla guerra civile, Stalin comincia a designare i suoi uomini in
periferia. Lenin denunciò il pericolo nella sua lettera al congresso, più nota
come Testamento politico, ma non fu ascoltato. Nel giro di pochi anni tutte le
cariche in URSS cessano di essere elettive, i dirigenti periferici sono
nominati dall’alto e quindi rispondono non alla base ma a chi li ha designati.
È la base del potere personale di Stalin. L’apparato a disposizione del
segretario si gonfia fino a raggiungere decine di migliaia e poi centinaia di
migliaia di funzionari fedeli al capo. Successivamente (già per iniziativa di
Zinov’ev, che lo definiva bolscevizzazione) il meccanismo comincia ad essere
esteso ai partiti comunisti di altri paesi. Per cominciare a creare il culto di
Stalin “infallibile” come un papa, bisognerà arrivare al 1929. A quel punto
erano state liquidate successivamente l’Opposizione di sinistra (a Trotskij si
erano uniti la vedova di Lenin e anche Zinov’ev e Kamenev, ex complici di
Stalin, che avevano denunciato a partire dal 1925 i metodi con cui gli organi
dirigenti venivano aggirati dalla frazione segreta di Stalin) e la cosidetta
“opposizione di destra” di Bucharin, Rykov, capo del governo, e Tomskij, leader
dei sindacati. Ma ancora nel 1934, nel congresso detto “dei vincitori” perché
erano già state soppresse tutte le opposizioni interne, ci furono critiche e
voti contrari alla candidatura di Stalin. L’assassinio del suo principale
collaboratore e ora divenuto moderatamente critico, Kirov, fu attribuito
falsamente all’opposizione e servì da pretesto allo sterminio di massa iniziato
subito dopo, in cui morirono tra l’altro il 70% dei delegati al congresso del
1934 e degli stessi membri del CC eletto in quell’occasione, tutti staliniani
(oltre a quelli che erano stati realmente oppositori).
Trotskij al confino e in esilio Appena iniziata la
campagna contro di lui, Trotskij aveva rinunciato sdegnosamente a ogni carica,
pensando di combattere una battaglia politica nel partito; ma il controllo
burocratico fu tale che i congressi furono prima truccati, poi trasformati in
plebiscito. Nell’ultimo periodo di vita Lenin aveva insistito perché Trotskij
assumesse anche la carica di capo del governo, ma egli aveva rifiutato,
preoccupato che i nemici esterni ed interni usassero (come usarono) la sua
origine ebraica per bassi attacchi. Espulso nel 1927 per aver tentato di
riprodurre al ciclostile un documento, che a norma di statuto avrebbe dovuto
essere stampato nell’organo del partito, e per aver portato nelle celebrazioni
del decennale del 7 novembre uno striscione contro la burocrazia e per la democrazia
sovietica, fu poi deportato nel lontano e isolato Kazachstan, e successivamente
imbarcato a forza in una nave diretta in Turchia, dove fu confinato su
un’isoletta, vicina al luogo in cui oggi è detenuto Ocalan. Braccato in tutto
il mondo, cacciato da ogni paese come rivoluzionario e intanto calunniato come
“fascista” e complice dell’imperialismo, Trotskij trovò alla fine un solo paese
disposto ad accoglierlo, il Messico rivoluzionario di Lazaro Cardenas, che
stava rilanciando la riforma agraria e nazionalizzava il petrolio, ma dopo vari
tentativi falliti un sicario di Stalin riuscì ad assassinarlo nell’agosto 1940.
A distanza di tanti anni, le calunnie contro di lui sono state riproposte ogni
anno, magari ritoccandole, chiamandolo agente del nazismo quando l’URSS si
alleava con l’imperialismo franco-britannico, poi agente britannico nel biennio
di idillio staliniano con Hitler; gli ideologi stalinisti che oggi svolgono il
loro sporco lavoro per Eltsin, non dicono più che era un servo
dell’imperialismo, ma che era un estremista pericoloso, un avventuriero
irresponsabile che voleva promuovere rivoluzioni dappertutto (più o meno le
accuse dei comunisti ufficiali a Guevara negli ultimi suoi anni). L’importante
è che non si leggano gli scritti di Trotskij, soprattutto perché continuano a
essere attualissimi. Nel più famoso di essi, La rivoluzione tradita, che è del
1936, dopo aver esaltato le conquiste fatte dall’URSS nonostante la direzione
burocratica, concludeva con la previsione che in caso di crollo del paese una
parte della burocrazia si sarebbe messa a disposizione del nemico imperialista.
Accadde già nel 1941-1945, quando Hitler trovò non pochi collaborazionisti
anche tra gli alti ufficiali, ma soprattutto dopo il 1989-1991, quando quasi
tutti i burocrati “comunisti” sono diventati “democratici” filocapitalisti e
complici dell’imperialismo. In tutti gli scritti di Leone Trotskij, ad esempio
quelli che riflettono la sua attività di dirigente dell’Internazionale
Comunista tra il 1919 e il 1925, si nota una grande ricchezza analitica: fu il
primo a cogliere il nuovo ruolo degli USA sulla scena mondiale, e a intuire che
il capitalismo negli anni Venti si stava riorganizzando.
La sua analisi del fascismo rimane insuperata, ma
fu dimenticata negli anni in cui i partiti comunisti stalinizzati consideravano
i socialisti “nemico principale” e non esitavano ad allearsi con Hitler. La sua
sconfitta fu il riflesso della distruzione, nella guerra civile e nei convulsi
processi successivi, di quella classe operaia russa che era stata protagonista
delle rivoluzioni del 1905 e di quella del 1917. Il punto debole della proposta
di Trotskij è che faceva appello alla democrazia operaia e alla coscienza di
classe di una classe operaia che non c’era più, o comunque non era più la
stessa. Perché una lotta così implacabile contro uno “sconfitto”? Tutti i
luoghi comuni seminati dallo stalinismo ripetono “Trotskij è morto e sepolto”,
“È una cosa del passato che non interessa nessuno” oppure “I trotskisti sono
sterili e non hanno mai concluso niente”. Allora perché tanta tenacia nel
combatterli? Perché finché c’è stata l’URSS a Mosca uscivano ogni anno opuscoli
in tutte le lingue per denunciare le sue colpe e “smascherare i trotskisti”, se
non contavano niente e le loro idee erano “sorpassate” e “sconfitte”? Forse
proprio per la ragione opposta a quella dichiarata.
A parte che i rivoluzionari (e quindi anche Stalin
e i suoi successori, che lo erano stati) hanno sempre saputo che certi
sconfitti sono più vivi dei loro vincitori. Chi ha dimenticato Spartaco? E chi
ricorda invece il console Crasso, che lo vinse? Guevara è infinitamente più
vivo di Mario Monje, che lo tradì, dei vari Arismendi o Corvalán o Giorgio
Amendola che lo derisero, e che tutti hanno dimenticato. Il contributo più prezioso
e insostituibile di Trotskij è appunto l’analisi delle contraddizioni
dell’URSS, del ruolo della burocrazia. Non “demonizzante”, o “speculare a
Stalin” come dicono alcuni ignoranti (alcuni di essi perfino da una cattedra
universitaria), ma un’analisi ricca e dialettica. Anche quando Stalin gli aveva
assassinato i figli, i migliori amici e collaboratori, e lo stava braccando in
ogni parte del mondo, Trotskij non ha mai ceduto a una visione criminalizzante;
casomai ha analizzato la politica di Stalin come suicida, perché non si rendeva
conto che apriva le porte a Hitler. Nonostante questo, anche dopo crimini come
il patto Ribbentrop-Molotov con la brutale spartizione della Polonia, le
annessioni del Baltico, la deportazione in Siberia e lo sterminio di centinaia
di migliaia di polacchi (compresi i soldati e gli ufficiali che sarebbero stati
poi necessari per la lotta contro l’aggressione nazista), Trotskij ribadì
sempre che il movimento comunista e la Quarta Internazionale dovevano
continuare a difendere l’URSS, perché era oggettivamente antagonista a Hitler
anche se Stalin brindava alla sua salute e gli consegnava 2.000 comunisti
tedeschi e austriaci, tra cui molti ebrei, votandoli a sicura morte. Il
contributo di Trotskij al pensiero marxista Ma anche su altre questioni il
contributo di Trotskij è stato prezioso. Ha difeso il patrimonio essenziale del
marxismo in anni in cui la teoria era ridotta a semplice abbellimento a
posteriori delle scelte fatte per ragioni empiriche, e non sempre confessabili.
Ad esempio il “socialismo in un paese solo” era assolutamente inconcepibile per
Marx, Lenin o qualunque teorico marxista; il concetto fu difeso da Stalin,
facendo confusione tra la presa del potere (ovviamente possibile) e la
costruzione del socialismo. Per calunniare chi si opponeva si diceva che “non
voleva il socialismo”, mentre il problema era un altro: se era possibile
costruire il socialismo in un paese isolato, circondato da paesi capitalisti,
con una grande massa contadina arretrata e abituata all’ubbidienza cieca (salvo
esplodere a volta in rivolte disperate). L’esperienza ha confermato che quel
che si è costruito non era socialismo, non foss’altro per le enormi
sperequazioni sociali tra i privilegi della burocrazia e le condizioni delle
masse, private non solo di molti beni essenziali, ma anche di un minimo di
informazioni sulle scelte, per non parlare della possibilità di intervenire su
di esse. Sono soprattutto la miseria e l’arretratezza che facilitano la fine
dell’egualitarismo e la formazione di privilegi per pochi, che si appropriano
di una parte crescente del prodotto del lavoro di tutti. Per questo l’URSS e il
suo sistema sono crollati miseramente e così facilmente. Che poi i regimi
successivi siano ancora peggiori, non dimostra nulla, dato che in tutti i paesi
sorti dal crollo i dirigenti sono gli ex “comunisti”. Bell’allevamento di
vipere e di ipocriti avevano fatto Stalin e i suoi degni successori, da
Chrusciov a Breznev, fino a Gorbaciov e Eltsin… Va precisato inoltre che la
definizione dell’URSS come “Stato operaio degenerato”, tanto rimproverata a
Trotskij anche dalla nuova sinistra, era stata formulata inizialmente già nel
1920 dallo stesso Lenin, che aveva parlato, in polemica con Bucharin di uno
“Stato operaio con due particolarità: una netta maggioranza contadina e una
forte deformazione burocratica”. La formula, come tutte quelle sintetiche, è
discutibile, e io personalmente non la uso da molti anni, per non trovarmi a
litigare sterilmente con chi si indigna per lo “Stato operaio” e chi per il
“degenerato”. Ma era di gran lunga più efficace di quella che la nuova sinistra
ha raccattato dalla socialdemocrazia, che parlava fin dagli anni Venti di
“capitalismo di Stato”. Se fosse stata già capitalistica l’URSS non avrebbe
avuto tutte le difficoltà che ha avuto e che ha nell’instaurare un “normale”
sistema capitalistico funzionante più o meno come da noi. Ma questa è un’altra
questione. Trotskij ha difeso e sviluppato un’analisi marxista quando il
movimento comunista procedeva a sbalzi e zig-zag, passando da un’idea all’altra
con la massima disinvoltura. Negli anni 1929-1934 l’Internazionale comunista
abbandona le sue precedenti analisi del fascismo, e lo considera uguale a
qualsiasi regime borghese (per cui tutti vengono definiti “fascisti”, e diventa
perfino possibile allearsi con i nazisti contro i
socialdemocratici-“socialfascisti” come avvenne in Germania nel 1932, pochi
mesi prima della vittoria di Hitler); Trotskij viene deriso come “allarmista”
anche e soprattutto da Togliatti perché tra il 1929 e il 1932 denuncia il
pericolo fascista in Germania. Subito dopo si passa all’eccesso opposto, e per
fronteggiare Hitler invece del Fronte Unico Proletario rifiutato fino a poco
prima, si propone un Fronte Popolare in cui ci sono, in Francia e in Spagna,
importanti esponenti della borghesia. Il programma è quindi di fatto il loro,
con conseguenze tragiche sulla questione coloniale (le colonie non si toccano e
si affidano anzi a generali conservatori che si riveleranno filofascisti).
Il Fronte Popolare non è l’allargamento del Fronte
unico di classe, ma la sua negazione. Per fare un esempio esopico, è più o meno
come se i topi minacciati da un famelico gatto si coalizzassero... con un altro
gatto. Comunque i risultati sono stati catastrofici sia in Spagna che in
Francia, ma nessuna riflessione è stata mai fatta. I Fronti Popolari sono
evocati nell’immaginario collettivo del popolo comunista come un mito eroico e
basta. Si ripete “No pasarán!” e non ci si domanda come e perché i fascisti
passarono. Negli anni dei Fronti Popolari, inoltre, i partiti comunisti non
parlavano più dell’imperialismo francese o di quello britannico, che Stalin
voleva avere come alleati contro la Germania nazista, dimostrando loro che solo
lui era in grado di fermare i processi rivoluzionari in Europa. Per questo nel
suo linguaggio c’era solo l’imperialismo tedesco.
Ma nel 1939, cambiate le alleanze, l’URSS, e
dietro ad essa tutti i partiti comunisti, denunciarono “l’aggressività
dell’imperialismo franco-britannico” ed elogiarono le “proposte di pace di
Hitler”. Una vergogna indelebile. Anche per essersi opposto a quella politica
sciagurata, che ha portato i partiti comunisti a praticare la collaborazione di
classe non meno dei socialdemocratici da cui si erano divisi vent’anni prima,
Trotskij è stato odiato e calunniato implacabilmente, con la forza di un
apparato mondiale di propaganda paragonabile (per omogeneità e diffusione
capillare nel mondo) solo a quello del Vaticano. La battaglia per ricostruire
un’Internazionale Trotskij scrive negli anni dell’esilio che quel che aveva
fatto in passato poteva essere stato fatto anche da altri, e che il suo ruolo
alla testa dello Stato sovietico e dell’Armata Rossa non è stato il suo
contributo fondamentale al movimento operaio. Egli pensa al contrario che quel
che di più importante ha fatto nella sua vita è stata la difesa del marxismo
mentre veniva prostituito agli interessi contingenti di una burocrazia ottusa e
cinica. Trotskij si dedica soprattutto a costruire una nuova Internazionale, la
Quarta, quando vede nel 1933 che la Terza Internazionale, ormai piegata ai
voleri di Stalin, rifiuta perfino di prendere atto della tragedia rappresentata
dalla vittoria di Hitler (si continua a dire che la situazione è ottima ed
eccellente, e che la rivoluzione in Germania è imminente). Non pensa a
un’Internazionale dei “trotskisti”, ma a quella di tutti quelli che vogliono
ancora combattere il capitalismo e si oppongono allo stalinismo. I primi
tentativi sono fatti con raggruppamenti comunisti e socialisti di sinistra di
varia provenienza. Se i tentativi non vanno in porto, non è mai per ragioni
ideologiche settarie, ma la rottura avviene quando rinunciano a principi
fondamentali, ad esempio quando il POUM spagnolo collabora con forze borghesi
nel governo di Fronte popolare in Catalogna (salvo essere ugualmente accusato
di “trotskismo”, calunniato e perseguitato).
Molti hanno deriso questa difficile battaglia,
magari ironizzando sul modesto numero di coloro che, dopo cinque anni di
tentativi, parteciparono al congresso di fondazione della Quarta
Internazionale. Erano pochi, ma avevano ragione loro e non Stalin, che aveva
subordinato il movimento operaio agli imperialisti francesi e britannici, che
in quello stesso settembre 1938 stavano dando via libera a Hitler in
Cecoslovacchia con gli accordi di Monaco; avevano ragione quei pochi comunisti
controcorrente, e non Stalin, che poco tempo dopo si sarebbe illuso di evitare
la guerra accordandosi con Hitler per la spartizione dell’Europa orientale.
Stalin aveva ridotto la Terza internazionale a un volgare e rozzo strumento di
trasmissione degli interessi della burocrazia sovietica nel mondo, poi l’ha
sciolta nel 1943 per tranquillizzare gli imperialisti statunitensi e
britannici, suoi nuovi alleati. Perché i partiti comunisti non hanno fatto
nulla per ricostituirla in questi decenni, mentre era evidente che gli organi
di centralizzazione politica, militare ed economica dell’imperialismo si sono
rafforzati in un mondo sempre più unificato?
Per questo la Quarta Internazionale, senza
pretendere di essere quel che sarebbe necessario nel mondo di oggi, ha finito
per essere l’unico nucleo che ha mantenuto vivo in anni difficili non solo il
pensiero marxista classico, ma anche un funzionamento internazionale (che impedisce
o riduce il pericolo degli adattamenti alle pressioni locali). Perché i PC
hanno seguito Stalin Sui crimini di Stalin, tranne pochi residuati
“nostalgici”, potrebbero essere oggi d’accordo quasi tutti. Più difficile fare
i conti con quello che l’epoca staliniana ha lasciato nell’eredità degli stessi
partiti comunisti più “antistaliniani”. Prima di tutto nella concezione del
partito, o “forma-partito” come è di moda dire. Ad esempio, ogni volta che si
nomina il “centralismo democratico”, tutti inorridiscono. Eppure sarebbe bello
se nel PRC vigessero le norme democratiche in vigore nel partito bolscevico.
Non solo prima del 1917, ma anche durante tutti gli anni terribili della guerra
civile, quando il potere sovietico era appeso a un filo, nel partito bolscevico
c’era non solo il diritto di tendenza ma perfino quello di frazione.
Vuol dire che nei congressi si potevano presentare
documenti diversi con pari diritto, ed era possibile il raggruppamento pubblico
tra un congresso e l’altro dei sostenitori di una posizione rimasta in
minoranza (che solo così poteva accettare la disciplina, dato che poteva al
tempo stesso lavorare per diventare maggioranza al congresso successivo, e i
congressi erano ravvicinati (tra il 1917 e il 1923, uno all’anno). Pari diritti
voleva dire anche che se il relatore di maggioranza parlava due ore, anche chi
presentava l’altra posizione doveva avere uguale tempo e non un quarto d’ora
come oggi. Nella concezione di Lenin, inoltre, l’organo sovrano era il
Congresso, e tra un congresso e l’altro il Comitato centrale. L’Ufficio
politico doveva solo applicare la linea tra una riunione e l’altra del Cc, non
sostituirsi ad esso, come è accaduto, e ancor meno la Segreteria, che era
allora solo un organo tecnico di esecuzione delle decisioni. Nei partiti
comunisti stalinizzati, invece, si considerava sovrana la Segreteria. Ma come è
stato possibile che tutti i partiti comunisti abbiano accettato una direzione
autoritaria e a volte insensata che decideva tutto da Mosca? Prima di tutto
dobbiamo ricordare come è nata l’Internazionale comunista: sull’onda della
delusione e lo sdegno per il tradimento dell’Internazionale socialista, e dei
principali partiti operai, nascono piccoli gruppi che combattono la guerra e
hanno come punto di riferimento l’atteggiamento coerente del partito
bolscevico.
Ma sono in genere giovani e inesperti, e fanno
molti errori, anche quando nel 1919 nasce finalmente la nuova Internazionale.
La Terza Internazionale nasce molto aperta e non dogmatica: Lenin dice che
bisogna costruirla con tutti quelli che combattono il capitalismo e si
oppongono al riformismo e alla collaborazione di classe, anche se hanno idee
diverse dai bolscevichi. “La stiamo costruendo”, dice nel 1920, “anche con
tendenze semianarchiche e persino anarchiche.” Molti partiti, a partire da
quello italiano e quello tedesco, fanno errori di estremismo e settarismo.
Vengono criticati da Lenin e Trotskij, ma senza la minima misura amministrativa
o imposizione di cambi nel gruppo dirigente. Anche Gramsci, ad esempio,
condivise in quei primi anni il settarismo di Bordiga, Terracini ed altri nei
confronti del partito socialista, e stentava a capire perché dopo essersi
separati da esso dovessero riproporre azioni comuni (il “fronte unico” contro
il fascismo, appunto). Quando la verifica delle conseguenze degli errori fatti
spinse la maggior parte dei partiti comunisti ad accettare – con tre o quattro
anni di ritardo – le critiche dell’Internazionale, questa era mutata
profondamente, e pretendeva ben altro, anche se si dovrà aspettare fino al 1928
perché si arrivi a sostituire una direzione eletta, come avvenne in Germania,
dove fu imposto nuovamente al partito Ernst Thaelmann, che era stato destituito
per gravi mancanze.
Intanto, anche per gli errori del movimento
comunista (e i crimini socialisti), il fascismo aveva trionfato in Italia e
veniva imitato da molti regimi autoritari dai Balcani alla Polonia. I partiti
comunisti, fuori legge quasi ovunque, avevano bisogno sia di aiuti materiali,
sia di certezze gratificanti e si adattarono dunque alle pressioni dei nuovi
dirigenti della Terza Internazionale. Lo fece inizialmente anche Gramsci, ma
quando si accorse di cosa stava accadendo in URSS scrisse già nel 1926 (quando
si era ancora lontani dalle espulsioni, dalle deportazioni, dagli assassinii
degli oppositori) una lettera di severa critica al CC del PC russo, che fu
intercettata e bloccata da Togliatti, che rappresentava il partito a Mosca.
L’episodio è stato sempre minimizzato da quelli che partono dalla radicata
convinzione che tutto quel che è accaduto doveva accadere, e che ogni tentativo
di opporvisi era ovviamente vano, come deducono… dal fatto che è fallito.
Gramsci la pensava diversamente. Nella sua risposta personale a Togliatti, che
aveva sostenuto che i partiti comunisti dovevano limitarsi a “studiare le
questioni russe” e a farle conoscere, senza interferire, Gramsci aveva dato un
giudizio severissimo sull'episodio: “questo tuo modo di ragionare [...] mi ha
fatto un impressione penosissima”, scrive; infatti “tutto il tuo ragionamento è
viziato di burocratismo”.
La frase più dura, tuttavia, che lasciava
intravedere una rottura di rapporti umani e politici, investe alla radice la
mentalità di Togliatti: “Saremmo dei rivoluzionari ben pietosi ed
irresponsabili se lasciassimo passivamente compiersi i fatti compiuti,
giustificandone a priori la necessità”. Così la pensava Gramsci, che rimase
anche per questo isolato in carcere. Non si cercò di ottenere la sua
liberazione con uno scambio di prigionieri tra l’URSS e il Vaticano, che era
possibile; per anni non si parlò di lui, fino a quando la campagna per la sua
liberazione ricominciò … alla vigilia della sua morte e quando ormai era
ridotto a una larva umana, che non avrebbe in nessun caso potuto riprendere
l’attività politica. Dopo la sua morte, Gramsci divenne per Togliatti quel che
Lenin era per Stalin (tra l’altro gli mise in bocca frasi mai pronunciate come
“Trotskij è la puttana del fascismo”). Lo stesso avvenne in quasi tutti i
partiti comunisti nel corso degli anni Trenta: vennero allontanati quelli che
avevano avuto un ruolo nei primi anni, tutti accusati di “trotskismo”. Alcuni
raggiunsero effettivamente il movimento per la Quarta Internazionale, da
.Pandelis Pouliopoulos segretario del PC greco, a Chen Du-tsiu, primo
segretario del Pc cinese. Anche tre su sei membri dell’Ufficio Politico del
PCd’I (il settimo era Gramsci, in carcere, nelle condizioni che abbiamo
descritto) furono espulsi dagli altri tre, che per avere la maggioranza diedero
voto effettivo al rappresentante dei giovani, Pietro Secchia, che in base allo
Statuto lo aveva solo consultivo. I tre espulsi erano Pietro Tresso, Alfonso
Leonetti, Paolo Ravazzoli, di cui quasi nessuno nel PCI del dopoguerra ha
saputo mai nulla, e tanto meno che la loro posizione nel 1929-1930 coincideva –
senza che lo sapessero – con quella di Gramsci in carcere. Ancor meno si sa che
i tre, quando capirono che le loro critiche alla folle politica estremista del
Comintern coincidevano con quelle di Trotskij, si avvicinarono a lui e al
movimento per la Quarta Internazionale. Meno ancora si sa che Pietro Tresso,
catturato dai nazisti mentre era partigiano in Francia, fu “liberato” da un
commando del PCF che assaltò la prigione, e che subito dopo uccise lui ed altri
trotskisti. La vicenda dell’espulsione dei “Tre” è stata ricostruita
egregiamente da Paolo Spriano, militante e dirigente del PCI, ma prima di tutto
storico di grande onestà. Trotskismo e stalinismo: chi deve vergognarsi? La
riscoperta della discriminante antitrotskista da parte di Cossutta (che lascia
spazio a un recupero del vecchio repertorio stalinista) è la conseguenza di un
elemento che avevamo segnalato da tempo. Il PRC non ha mai affrontato una
discussione sulle cause del crollo dell’URSS, che pure figurava tra i suoi
compiti iniziali. Ciò ha permesso la sopravvivenza di sacche di “nostalgici”
che continuano a credere che il sistema sovietico fosse perfetto e sia caduto
solo per il papa o le “manovre della CIA”. È una spiegazione penosa, perché le
manovre della CIA o dei servizi segreti inglesi, ecc. ci sono state fin dal
giorno della vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, e di papi reazionari e
anticomunisti ce ne sono stati tanti (basti pensare al filonazista Pio XII), ma
tutto ciò non è mai riuscito ad avere successo, perché in URSS, soprattutto nei
primi anni, c’era un consenso larghissimo. Anche nelle fasi successive, in cui
la debolezza politica del regime staliniano si manifestava nell’uso sempre più
massiccio di una repressione indiscriminata, c’erano ancora ragioni profonde di
attaccamento a quanto rimaneva delle conquiste dell’Ottobre. Le manovre sono
riuscite quando i dirigenti “comunisti” da Breznev a Gorbaciov a Eltsin, da
Milosevic a Tudjiman, da Zivkov a Ceausescu, da Ramiz Alia a Sali Berisha, non
credevano più a nulla e non venivano più creduti da nessuno, ma pontificavano
in nome del “comunismo”. I nemici del comunismo hanno usato i crimini di quei
personaggi per screditare il progetto grandioso di Marx e di Lenin; anche gli
imbecilli hanno abboccato e… per “difendere il comunismo” hanno difeso i
crimini di quei cinici usurpatori. Così, anche dopo la crisi, tanti compagni si
sono arroccati nella “nostalgia” e trincerati dietro una spiegazione puerile,
che attribuiva tutto alle “manovre” e a singoli traditori. Anche diversi
intellettuali hanno continuato a non riflettere su una delle più grandi
tragedie del nostro secolo – l’involuzione, declino e crollo del movimento
comunista – contìnuando a dare per scontato che chi si diceva comunista lo
fosse. Eppure non si tratta di un caso unico nella storia: basti pensare alla
Chiesa cattolica, che per secoli e secoli è stata rappresentata da papi
spergiuri, assassini, che violavano tutti i comandamenti possibili e
commettevano tutti i peccati immaginabili, ma erano gli unici a poter parlare
in nome di Cristo (chi tentava di farlo riferendosi ai Vangeli, veniva
incarcerato o bruciato vivo). Dal momento che Alessandro VI Borgia, il padre (e
amante) della famosa avvelenatrice Lucrezia Borgia e del duca Valentino si diceva
cristiano, dobbiamo difendere gli avvelenamenti, gli incesti, ecc. e
considerarli la concretizzazione del messaggio evangelico? Alessandro VI e
Stalin sono due usurpatori di un pensiero che usavano cinicamente e con cui non
avevano nulla in comune. Nel corso degli anni ho incontrato nel PCI e anche nel
PRC molti stalinisti (tra cui una macchietta che qui a Lecce continua a
difendere sui giornali locali, nei comizi e in ogni occasione, il regime
albanese e persino quello rumeno).
Tutto quel che si diceva “comunista” li esaltava.
Se fossero stati cristiani sarebbero stati con Alessandro VI, non con i fautori
di un ritorno alle origini evangeliche. A questa gente, in mancanza di altri
argomenti, ha fatto appello Cossutta. Ovviamente questi sono accaniti nell’aggredire
Trotskij e i “trotskisti”, di cui non hanno mai letto una sola pagina. Di fatto
si direbbe che la colpa principale dei trotskisti sia quella di aver capito le
radici profonde della crisi del sistema sorto intorno all’URSS con molti
decenni di anticipo su altri (qualcuno anzi non se ne è ancora accorto...).
Quando Cossutta polemizzava con Berlinguer rimproverandogli la sua timida
dissociazione dall’URSS di Breznev entrata in una fase di decomposizione, i
trotskisti avevano già colto da tempo la dinamica che portava al crollo. E a
Trotskij e al movimento trotskista si è ispirato Che Guevara negli ultimi anni
della sua vita, come ora è stato documentato dal ritrovamento dei suoi appunti
di Bolivia. È rimasto in larga misura inedito, proprio per questo: il regime
sovietico sapeva solo imbavagliare e usare una vana censura, illudendosi di
superare con la violenza repressiva le proprie contraddizioni, e il governo
cubano – per molti anni dipendente dall’URSS per il petrolio, e tutto il
commercio estero – ha dovuto adeguarsi. Il movimento trotskista, che negli anni
Trenta era più forte di quello filosovietico in Vietnam e in molti paesi
dell’America Latina, non ha pagine vergognose da nascondere, ma un lungo
martirologio di compagni assassinati, dai nazisti come dagli stalinisti. Lo
stalinismo invece rappresenta una vergogna permanente per il movimento operaio:
ha allevato tanti dirigenti diventati oggi filocapitalisti, ha cancellato ogni
traccia e ogni ricordo della democrazia interna che vigeva nello stesso partito
bolscevico e nell’Internazionale comunista ai tempi di Lenin e Trotskij, ha
sterminato il 90% dei dirigenti della rivoluzione d’Ottobre e perfino più
comunisti tedeschi di quanti ne abbia assassinati Hitler. Solo l’ignoranza può
lasciare spazio alla nostalgia dello stalinismo, che ha portato alla rovina
tanti gloriosi partiti comunisti, eliminandone i migliori dirigenti e
sostituendoli con docili pedine della burocrazia sovietica. (2-11-1998).