Sul romanzo in
genere, sul romanzo ‘I tre’ in particolare Trotsky (1902) Pubblicato per la
prima volta in “Vostocnoe Obozrenie” (Rivista dell’Est) n.56 il 9 marzo 1902.
Ripubblicato nel Volume XX delle Opere Complete di L. D. Trotsky nel 1926
all'interno del volume “Problemi della cultura. La cultura del vecchio mondo”
(Mosca-Leningrado 1926). Si ringrazia La Giovane Talpa, Novembre 2003 HTML
mark-up per il MIA: mishù, Novembre 2003
Volendo ritornare con
la mente ai capolavori degli ultimi anni, si può giungere alla conclusione, che
il romanzo lento, ricco di contenuto, che ricordava il lungo antico viaggio per
le poste è morto... Prima i lunghi preparativi per il viaggio: il “prologo”.
Quindi una lunga serie di “parti” e di “capitoli” come una fila di soste e di
fermate per un giorno, quando un viaggiatore si ferma, si riscalda con il tè e
fa riposare le sue gonfie membra. E infine l’“epilogo”, il coronamento del
romanzo, e insieme, il tranquillo rifugio per il viaggiatore stanco... Se il
vecchio buon romanzo vedesse un racconto, uno schizzo, un saggio, uno
studio.... rinnegherebbe con spregio questa minuzzaglia letteraria con uno dei
suoi molteplici capitoli. Non so il lettore, ma io non vedo il motivo di
affliggersi per questa “degenerazione”. Io ricordo i racconti e i saggi di
Korolenko, di Čekov, di Gorkij, di Veresaev, di Leonid Andreev, del quale spero
di parlare al più presto, e mi rifiuto di affliggermi. Questi piccoli innocenti
schizzi e studi, come schegge, tal volta rimangono nella coscienza letteraria.
Il piacere artistico ottenuto da un romanzo non può essere mai cosi completo
come quello dato da un racconto o da un saggio. Il romanzo per questo è troppo
ampio, non sta in uno sguardo, non si legge in una sola volta... Esso viene
letto con diversi stati d’animo, una impressione talvolta non si lega con
l’altra e la fisionomia del romanzo, nel complesso, senz’altro sbiadisce. Altra
cosa è un saggio, un racconto. Questa opera viene inghiottita per intero e solo
dopo si espande nella coscienza, assimilando le “dolorose cicatrici” del cuore
letterario. È qualcosa che ci ricorda un tipo di caccia ai lupi estremamente
“inumana”. I lupi vengono attirati con il “baffo della balena” piegato in
cerchio e surgelato. Il lupo che è abituato ad aver che fare con la carcassa
dei bovini inghiottisce l’esca: l’anello scongelandosi all’interno si raddrizza
e il disgraziato animale, paga con la vita. A dire il vero, il lettore
sopravvive, ma per il resto assomiglia a quel lupo... Anche lui considera un
“vero” alimento le grandi carcasse dei romanzi in cinque parti e abbastanza
imprudentemente inghiottisce i prodotti concentrati di arte letteraria... Fa
male! Penetrando nel suo inconscio detti schizzi e saggi si distendono con
un’energia elastica proporzionata - come i baffi di balena nello stomaco di
lupo - e producono grandi ferite nell’anima del lettore... Esiste ancora un
altra ragione che dà al piccolo racconto “concentrato” un vantaggio in
confronto al grande romanzo. Il piacere artistico è completo solo quando lo
scrittore non opprime la vostra immaginazione con una serie di particolari o
con l’abbondanza di materiale preso dalla realtà. Anche voi disponete di una
certa immaginazione che vuole una parte di iniziativa. Lo scopo dell’artista è
di suscitarla, di dargli i motivi per una creatività autonoma dei quadri e
delle immagini. Non bisogna mettere sotto tutela la fantasia del lettore. Ecco
perché su molteplici spettatori i veloci studi di prova del pittore producono
delle impressioni più forti del quadro finito. Ed ecco perché il racconto nel
quale l’eroe viene presentato nei momenti più “patetici” della sua vita produce
un’impressione più completa e definita che nel romanzo, nel quale prima viene
partorito l’eroe quindi viene educato e formato, in un tempo prefissato
introdotto alla luce, e solo dopo di ciò lo si fa passare attraverso una serie
di situazione patetiche allo scopo di farlo infine trapassare con una o con
l’altra morte. Qui l’immaginazione del lettore continua ad essere sempre
“guidata”. E così il romanzo sarebbe morto. No, non è morto ed è ancora presto
scrivere i necrologi. Già ai tempi di Belinskij la novella era passata in primo
piano. Il grande critico scriveva nel 1835 che “il romanzo si è tirato
rispettosamente da parte e si è fatta passare avanti la novella”. Questa giusta
generalizzazione non ha pregiudicato l’uscita dei romanzi di Gončarov,
Turgenev, Dostoevskij, Pisemskij, Tolstoj... E non c’è nessun motivo di
aspettarsi che in un futuro a noi prevedibile la letteratura rinuncerà a quei
quadri sintetici di vita che possono essere concentrati sull’illimitatamente
grande campo del romanzo.
La vita si
complica, la vita si arricchisce... La letteratura è costretta, non a rinnegare
le vecchie forme di personalizzazione artistica, ma a crearne di nuove. Il
romanzo rimane come una cornice sociale per tutte quelle bellezze ed orrori
della vita che nelle immagini e nei quadri isolati ci guardano dalle pagine dei
racconti e dei saggi. Quindi parlando in generale non c’è, e non ci può essere,
antagonismo tra questi due generi letterari. Il romanzo ci affascina per
l’ampiezza di presa sociale mentre il racconto ottiene lo stesso effetto con
l’energia del colpo psicologico. Se il romanzo è morto come forma obbligatoria.
con tutta la sua forma tradizionale rituale di capitoli, di parti, di prologhi
e di epiloghi, esso vive come contemporanea Iliade, come poema della Realtà. *
* * “Per vivere in questa vita, bisogna avere i fianchi di ferro, cuore di ferro...
se no vivere, come tutti... senza pensieri, senza coscienza”... (Gorkij, “I
tre”) Ci è toccato sentire che alcuni trovano una certa delusione passando
dalla lettura dei saggi e dei racconti di Gorkij alle sue opere più voluminose
come “Foma Gordeev” e “I tre”. Gorkij non è colpevole.
Non si può pretendere
che durante la lunga lettura dell’opera il lettore non cambi umore e conservi
sempre lo stesso interesse. Il romanzo non è un saggio e 400 pagine non sono
20. In compenso questi romanzi ci danno una ampia immagine dell’ambiente
quotidiano-sociale che non può dare nemmeno più spiccato saggio. Dell’ultimo
romanzo di Gorkij bisogna parlare o molto oppure molto poco. Io ne parlerò poco
- per diversi motivi... “I tre” è il dramma degli sforzi isolati e vani, della
singolare e disperata lotta con la vita per un pizzico di felicità, per un
sorso di gioia... Ecco il postino Iljia Lunev, con la sua grande forza di
volontà, con la sua mente lucida e pratica... Lui chiede per sé una vita
“limpida”, modesta ma satolla, tranquilla e ordinata, la buona, “vera”
felicità... Ma ahimé! qualche mano invisibile, ma potente, lo spinge sempre là
dove è peggio... «Per tutta la vita finisco nell’immondizia”... si lamenta lui
infuriato. Dov’è e chi è quell’invisibile nemico, tre volte maledetto che “mi
spinge tutta la vita in situazioni oscure, sporche e malvagie?... Mentre quando
è probabilmente vicino a quella “pura” felicità borghesuccia, essa perde per
lui i tratti allettanti, sbiadisce e diventa l’incarnazione della noia, dell’assurdità,
della trivialità... Sforzi vani, il senso della vita perduto. Eccolo il figlio
del taverniere, il sognatore e mistico Jakov Filimonov.
Anche lui vuole poco:
rimanere intangibile sull’isoletta deserta dei suoi interessi chimerici e delle
sue ricerche metafisiche. La differenza fra Iljia e Jakov è evidente nella
seguente conversazione. Jakov, sognatore e pieno di sentimento verso tutto quel
che lo circonda, vede in ogni cosa un mistero, un interrogazione. A lui,
giovanotto così ignorante, come per il grande mistico Carlyle, il fuoco sembra
un miracolo. “Da dove proviene? Un attimo c’è e subito dopo non c’è! Accendi il
fiammifero, e brucia. Dunque - esso c’è sempre... Forse vola in aria
invisibilmente?”. Del tutto diversamente affronta il problema Iljia. Ma più che
affrontarlo egli ci gira intorno. “Dov’è?» esclama egli con irritazione. «Non
so. E non lo voglio sapere. So che mettere la mano sul fuoco non si può, ma
scaldarsi vicino ad esso sì. Questo è tutto”. «... Sarebbe bello andare via da
tutto in qualche parte! - sogna Jakov - Sedersi da qualche parte vicino al
boschetto, sulla riva del fiume e riflettere su tutto”...Ma non ha dove
andare... il bancone della taverna di suo padre lo separa dal resto del
mondo... E lui starnutisce... Mansueto, mite sognatore, lui fin dall’infanzia
“destinato a scomparire dalla vita”... Ed ecco il terzo, il meccanico Pavel
Gracev, dal carattere irruento, spontaneo, “sensuale”. Egli non medita sulla
provenienza del fuoco come Jakov e non si pone davanti a sé determinati scopi
pratico-quotidiani per tutta la vita come Iljia. Egli semplicemente vuole
vivere con tutte le sue fibre e nervi senza “saggi” giudizi e riflessioni
metafisiche. Vivere: e basta. “Io in tutta la mia vita, dall’età di dieci anni,
faccio un lavoro pesante. Ciò mi permette di vivere...” - si rivolge a qualcuno
con astio. Ma questo “qualcuno” non lo permette. “Egli” costringe Pavel a
dividere anche la donna amata con commercianti ubriachi... E quando questa
poveretta fa’ un tentativo di “liberarsi” e ruba al commerciante in sua
compagnia il portafoglio, il nemico sconosciuto la raggiunge con la mano
giustiziera vigilante... Che cosa è la vita per Iljia, per Jakov, per Pavel:
per “i tre”? Un vortice, uno sporco indecente vortice. Il saccheggio, il brigantaggio,
la ladroneria, l’ubriachezza, la fangaglia di qualsiasi tipo e il disordine...
la vita è tutta qui. E non c’è via d’uscita, né spiraglio di luce e non c’è
salvezza...
Non si può uscire da
questo torrente: “navighi nello stesso fiume e ti bagna la stessa acqua...Vivi,
come stabilito per tutti: Non c’è luogo dove nascondersi”. “Qualcuno” con la
sua mano colossale e ruvida deforma i loro corpi, schiaccia, dimena e storpia
loro anime, spezza i loro desideri e infine li getta - come cagnolini - in qualche
stretta, puzzolente crepa..... “«Mi soffoca il destino...» si lamenta Lunev, -
e Pashku soffoca, e Jakov... tutti”. In quella lingua metaforica che inerisce a
tutti i personaggi di Gorjkij, Iljia ricapitola le conclusioni della sua
esperienza di vita: “l’uomo viene circondato dai casi che lo dove vogliono come
fa la polizia con il ladruncolo”. Tutto l’orrore della loro situazione, di
questi “tre” e delle centinaia di migliaia di loro simili consiste nel fatto
che per loro non c’è la possibilità di mettersi faccia a faccia con il nemico
invisibile... Nella loro coscienza la causa delle sventure è il destino, il
caso, l’incontrollabile forza oscura. Questo fatalismo sociale è quella
parentesi comune entro la quale con il segno più o meno entrano senza eccezione
tutti gli eroi di Gorkij, tutti quelli superflui e inutili o semplicemente
ammaccati dalla vita. “...
Il nemico che porta
l’offesa non era evidente - esso era invisibile”. Luniev di nuovo sentiva che
sua rabbia così come la pietà non serve...”. «Io adesso sento che tutto non
vale un ficco secco”, dice Iljia, ma immediatamente riconosce di “non capire
niente”... Quei sentimenti che ha accumulato nella sua esperienza di vita non
sono illuminati da un atteggiamento consapevole verso la realtà e di conseguenza
non trovano posto nel lavoro sociale. Rabbia a se stante, ottusa - ecco il
risultato limite... Ma non è giusto lettore, trarre dal romanzo di Maxim Gorkij
conclusioni pessimistiche e di conseguenza non è bene finire l’articolo
dedicato a questa opera con note afflitte. C’è ancora polvere da sparare nella
vita... E guardate che vista si presento a Iljia Lunev nel cimitero:
“...dappertutto, dalla terra energicamente spuntavano verso la luce cespugli ed
erba nascondendo le triste tombe, e tutto il verde del cimitero era pieno del
desiderio intenso di crescere, svilupparsi, assimilare luce e aria, trasformare
i succhi della terra in colori, in odori e in bellezza che accarezza il cuore e
gli occhi. La vita vince dappertutto, la vita vince sempre...” La vita è la
distruttrice travolgente, la creatrice e innovatrice universale... Gloria alla
giovane, ineluttabile Vita!
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