di Marco
Ferrando
“Gli avvenimenti cileni
sono stati e sono vissuti come un dramma da milioni d’uomini sparsi in tutti i
continenti… ma i combattenti per la causa della libertà e del socialismo non
reagiscono con lo scoramento ma cercano di trarre un ammaestramento…
“Noi abbiamo sempre
pensato – e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che
l’unità dei partiti dei lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione
sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia… Ecco
perché noi parliamo non di un’alternativa di sinistra ma di un’alternativa
democratica, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di
un’intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le
forze popolari d’ispirazione cattolica…
“L’errore principale da cui bisogna guardarsi è
quello di giudicare la DC come una categoria astorica, destinata per sua natura
ad essere o a divenire sempre e ovunque un partito schierato con la reazione…
Noi abbiamo avuto sempre ben presente il legame tra la DC e i gruppi dominanti
della borghesia… Ma nella DC si raccolgono anche altre forze, vaste categorie
di ceto medio, strati popolari e anche operai. Dobbiamo agire perché al suo
interno pesino sempre più, sino a prevalere, le tendenze che con realismo
storico e politico riconoscono la necessità e la maturità di un dialogo
costruttivo e di un’intesa tra tutte le forze popolari, senza che essa
significhi rinuncia alle diversità e distinzioni ideali e politiche…
“Non bisogna credere che il tempo a disposizione
sia indefinito. La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti
di forze reazionarie, la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura
via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e democratico, rendono
sempre più urgente che si giunga a quello che può essere definito il nuovo
grande “compromesso storico” tra le forze che rappresentano la grande
maggioranza del popolo italiano.” (“Rinascita” del 9 ottobre 1973). Con
queste parole Enrico Berlinguer, segretario generale del Pci, lanciava,
trent’anni fa, la proposta politica del “compromesso storico”.
Un dibattito distorto
Su questa proposta si è sviluppata nel tempo,
all’interno del movimento operaio, una discussione vasta ma raramente segnata
dall’onestà intellettuale (e quasi mai dal metodo marxista).
Quali erano le ragioni e i fini della proposta? Quale
bilancio storico trarre dall’esperienza concreta dell’unità nazionale (1976-78)
cui quella proposta apriva la strada? Le risposte a questi interrogativi che si
sono confrontate nella sinistra italiana hanno spesso registrato, al di là
delle divergenze, un comune schema d’approccio: e cioè una rappresentazione del
compromesso storico come astratta proposta politica ideale, come una
particolare concezione della “transizione”, di cui magari leggere criticamente
radici culturali e risultanze politiche, ma tutta mossa in definitiva dalla
tensione morale verso un’altra Italia e realmente ispirata dal dramma del Cile.
Questo approccio “metafisico” al compromesso storico
ha resistito tanto tenacemente nel tempo da unire, su versanti capovolti,
l’interpretazione che ne diedero all’epoca i dirigenti storici del Pci con
l’interpretazione che oggi ne danno i loro epigoni neoliberali. Cos’era il
compromesso storico, nella rappresentazione ideologica interna che ne diedero
Berlinguer e i suoi giovani tenenti degli anni settanta (Occhetto, D’Alema,
Fassino, Veltroni)? Era la concretizzazione strategica della “via italiana al
socialismo” e quindi “la corretta traduzione, nelle condizioni nazionali, di
una linea di classe”. Cos’è il compromesso storico in sede di bilancio nella
rappresentazione storiografica che oggi ne fanno i neoliberali Occhetto,
D’Alema, Fassino e Veltroni? La concretizzazione strategica della via italiana
al socialismo e, quindi, l’espressione di un classismo nobile ma miope, di un
rifiuto generoso ma utopico della modernità, di un incolmabile ritardo storico
che – unito al berlinguerismo degli anni ottanta – avrebbe condannato il Pci al
declino.
La verità è che i dirigenti liberali della maggioranza
diessina avvalorano le mistificazioni della propria gioventù staliniana per
lustrare presso le classi dominanti il proprio attuale liberalismo borghese ed
esaltare l’entità dello “strappo” compiuto. Di converso tanti reduci della
storia del Pci, ancora legati al movimento operaio, proprio per contrastare il
liberalismo DS e il suo cinismo sono portati a rivendicare l’effige di
Berlinguer, a denunciare il tradimento della sua figura, a nobilitare lo stesso
compromesso storico, rappresentandolo al più come “un errore”.
La risultante di questa dinamica di confronto non è
solo il riprodursi, per autoalimentazione, di una mistificazione storica ma,
perciò stesso, un danno politico per il movimento operaio di oggi, per la
comprensione delle sue necessità e dei suoi compiti. Per questo è utile
sottrarre al compromesso storico l’aureola della leggenda e restituirlo alla
sua effettiva realtà.
La mistificazione
ideologica della “via italiana al socialismo”
La proposta del compromesso storico, nella sua
sostanza politica non nasce dal dramma del Cile: nasce dalla tradizione storica
dello stalinismo, ed è sospinta politicamente dall’intera evoluzione della
situazione politica italiana dei primi anni settanta. Il golpe fascista
in Cile fu piuttosto occasione e cornice della sua nuova esplicitazione e
rilancio.
Innanzi tutto il compromesso di governo con la DC non
era un’improvvisazione di Enrico Berlinguer. Era un’esperienza già compiuta
dal Pci di Palmiro Togliatti nell’immediato secondo dopoguerra (1945-1947) e
un’ispirazione strategica di fondo della burocrazia del Pci lungo il corso
tormentato dei decenni successivi. Lo stesso Berlinguer rivendicò apertamente
nello scritto di “Rinascita” la radice antica del compromesso storico, il suo
segno di continuità col passato: “Il nostro partito non ha mai deflettuto
dalla sua linea unitaria verso gli altri partiti di massa, il Partito
socialista, il Partito democristiano… Dopo la Liberazione, dopo l’avvento della
Costituzione, frutto di un accordo tra i grandi partiti di massa (Pci, Psi, DC)
fu il partito democristiano – nel clima di divisione dell’Europa e nel mondo
creato dall’incipiente guerra fredda – il principale artefice della rottura
dell’alleanza di governo con i comunisti…” (9 ottobre 1973).
Parole di verità: ma che nascondono dietro un
riferimento storico notarile ragioni e bilancio della “linea unitaria” verso la
DC.
Dopo la svolta del settimo congresso
dell’Internazionale comunista (1935), con la nuova linea dei “fronti popolari”,
i partiti del Comintern si erano votati ad una prospettiva di governo con la
propria borghesia “democratica e liberale”, secondo gli interessi di fondo
della burocrazia sovietica e della sua diplomazia internazionale, nel nome del
“socialismo in un solo paese”. Così fu in Italia.
Nel 1926 il congresso di Lione del PcdI, sotto la
direzione di Gramsci, aveva finalizzato l’opposizione comunista al fascismo
alla prospettiva strategica del “governo operaio e contadino”: l’unica
prospettiva capace di realizzare l’avvento di un nuovo blocco storico alla
testa dell’Italia e di condurre a soluzione le questioni storiche irrisolte, a
partire dalla questione meridionale. “Non può esservi altra rivoluzione in
Italia che una rivoluzione socialista” scriveva Antonio Gramsci. Ogni
ipotesi di blocco di governo con forze borghesi liberali, ogni concezione del
PcdI come “ala sinistra” dell’opposizione unitaria antifascista, veniva
esplicitamente respinta come capitolazione alla socialdemocrazia e al
liberalismo (vedi Tesi di Lione n. 26).
Ciò non significava affatto escludere, in termini di
previsione storica, la possibilità che un futuro crollo del fascismo potesse
aprire le porte, nell’immediato, ad una soluzione democratico-borghese. Ma
quella soluzione avrebbe avuto precisamente lo scopo di bloccare la rivoluzione
proletaria. E i comunisti pertanto, non solo non dovevano subordinarsi a tale
prospettiva, ma dovevano battersi, con tutte le proprie forze, per costruire
l’egemonia proletaria sull’opposizione di massa antifascista, in alternativa al
liberalismo e nel nome della propria prospettiva indipendente. Solo a partire
da questa politica di classe, un’eventuale soluzione democratico liberale, se
anche si fosse realizzata, avrebbe potuto costituire obiettivamente un breve
passaggio intermedio sulla via della conquista proletaria del potere.
Lo stalinismo italiano, sotto la guida di Togliatti,
capovolse esattamente questa impostazione. L’intera linea del Pci durante la
resistenza si ispirò al blocco strategico con la borghesia liberale italiana.
La ribellione operaia antifascista, a partire dal marzo 1943, e il grosso del
movimento partigiano furono subordinati nei Cln all’alleanza “paritaria” con la
DC e il Partito liberale. La nuova prospettiva strategica fu esplicitata
solennemente nella cosiddetta svolta di Salerno: “lo scopo del nostro
partito non è oggi la rivoluzione socialista ma la ricostruzione democratica
dell’Italia” (Togliatti). Dentro la cornice di quella divisione del mondo
in aree di influenza che Stalin avrebbe pattuito con gli imperialismi vincitori.
Su queste basi “tricolori”, il “partito nuovo” di
Togliatti prese parte ai governi di “unità nazionale” con la DC che si
susseguirono dal 1945 al 1947. I ministri staliniani, a braccetto con la DC,
reintrodussero i capitalisti cacciati dai lavoratori nei loro posti di comando,
ripristinarono la disciplina nelle fabbriche, concordarono la liberalizzazione
dei licenziamenti, gestirono il disarmo del movimento partigiano, decretarono
un’ampia amnistia per i fascisti, diressero la repressione di movimenti di
disoccupati. Era il programma della ricostruzione del capitalismo italiano e
dell’apparato borghese dello Stato, usciti a pezzi dell’avventura del fascismo
e della guerra. Solo il Pci forte del proprio controllo sulle masse, poteva
garantire alla borghesia italiana il ritorno indolore alla sua
democrazia: contro il movimento operaio e le aspirazione più profonde della
resistenza. Ma la borghesia “democratica” rimessa in sella dallo stalinismo non
mostrò gratitudine verso il Pci: non appena i rapporti di forza lo consentirono
e la svolta internazionale della guerra fredda lo suggerì, la Democrazia
cristiana di De Gasperi cacciò il Pci all’opposizione e inaugurò la lunga
stagione anticomunista che percorse tutti gli anni cinquanta contro i lavoratori
e la Cgil.
Significativa fu la protesta di Palmiro Togliatti,
dalla tribuna dell’assemblea costituente. Per questa imprevista estromissione
dal governo: “Cosa si rimprovera alla classe operaia?… Gli operai, avvenuta
la liberazione, hanno compreso la situazione, dando prova di un mirabile senso
politico e nazionale. Essi hanno capito che l’aver salvato le fabbriche non li
autorizzava a porre il problema di un’immediata trasformazione socialista della
società… Sappiamo bene che per la ricostruzione nazionale sono necessari i ceti
produttori capitalistici e infinite volte abbiamo detto loro “collaboriamo”… Ma
gli operai hanno fatto di più: hanno moderato il loro movimento, l’hanno
frenato, l’hanno contenuto nei limiti in cui era necessario contenerlo per non turbare
l’opera della ricostruzione. Hanno accettato la tregua salariale senza che vi
fosse la sospensione dell’aumento dei prezzi… hanno dimostrato capacità di
direzione politica ed economica della vita del paese. Nulla si può rimproverare
agli operai e i partiti che li rappresentano non possono essere oggetto della
manovra (d’esclusione dal governo).” (20 giugno 1947). Non poteva
esservi confessione più autorevole e penosa del tradimento della classe operaia
e della Resistenza da parte della burocrazia del Pci. Né poteva esservi
un’invocazione tanto pietosa della riammissione del Pci nel governo della
borghesia.
Nei successivi trent’anni di opposizione, tutta la
politica dell’apparato del Pci fu finalizzata a riaprire il varco di quella
collaborazione di governo con la DC, che quest’ultima aveva affossato nel 1947.
La cosiddetta “via italiana al socialismo” fu per trent’anni l’involucro
ideologico di questa prospettiva. Non una ingenua illusione, ma una consapevole
mistificazione.
Dal primo al secondo compromesso
storico
Trent’anni dopo il compromesso storico si ripresentò
in condizioni storiche molto diverse. Ma la dinamica della sua realizzazione
presenta anche alcune significative analogie.
Nell’immediato secondo dopoguerra il Pci era approdato
al governo non solo in ragione dell’aspirazione governista della sua
burocrazia, ma in virtù del combinarsi di due fattori di fondo: l’ascesa della
classe operaia, nei termini allora di una dinamica insurrezionale, e la crisi
profonda della direzione politica borghese, entro un processo di disgregazione
dell’apparato statale. Solo in queste condizioni eccezionali il capitalismo
italiano fu costretto ad appoggiarsi su un partito staliniano per organizzare
la propria rinascita. E solo in queste condizioni un apparato staliniano poteva
realizzare quel compromesso di governo che il Cremlino gli aveva commissionato.
Il secondo compromesso storico promosso nel 1973 da
Berlinguer vedeva un Pci sensibilmente diverso da quello degli anni quaranta.
Il suo apparato burocratico aveva approfondito la propria integrazione nella
società borghese. Le sue radici materiali nelle istituzione dello Stato, nelle
amministrazioni locali, nel sistema cooperativo si erano enormemente estese. I
suoi canali di comunicazione con le classi dominanti si erano moltiplicati.
Sotto molti aspetti la base materiale della burocrazia Pci era divenuta assai
simile alla base materiale di una socialdemocrazia classica. E ciò dava, di
riflesso, un diverso fondamento alla sua stessa aspirazione di governo: nel
1945 la vocazione di governo di un apparato staliniano uscito dalla
clandestinità dopo vent’anni di fascismo rifletteva prevalentemente gli
interessi di Mosca e della sua burocrazia; alla soglia degli anni settanta la
vocazione di governo dell’apparato del Pci, dopo trent’anni di democrazia
borghese, rifletteva gli appetiti della propria burocrazia: del suo ceto
dirigente, dei suoi amministratori, del suo ceto parlamentare.
E tuttavia il Pci di Berlinguer conservava nonostante
tutto un tratto strutturale che lo differenziava da un ordinario partito
socialista: il perdurante legame col Cremino. Certo, questo legame si era
allentato nel tempo entro un processo di graduale autonomizzazione che
rifletteva l’integrazione del Pci nella società borghese (la dissociazione del
Pci dall’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, a differenza del sostegno
fornito nel 1956 alla repressione degli operai ungheresi misurava questa
evoluzione). Ma per quanto indiretto il legame con l’Urss permaneva ben saldo:
e non solo come eredità residuale e simbolica di una tradizione passata ma come
legame materiale (anche finanziario) e come rapporto politico diplomatico
legato a una geografia bipolare del mondo, figlia indiretta della rivoluzione
d’Ottobre, che era ancora lontana dal dissolversi.
Questa peculiare diversità del Pci era, agli occhi
della borghesia, il principale ostacolo alla sua integrazione di governo: non
le sue radici di massa, tanto meno i suoi programmi riformisti, entrambi
affini a quelli di altri partiti socialisti in Occidente; ma le specifiche
relazioni del Pci con l’altro blocco internazionale, con i suoi interessi
diplomatici, con la sua potenza statuale. Il “Corriere della sera” in un
celebre editoriale del 1975 lo chiamò il “fattore K” (K come Kremlino) e lo
additò come un impedimento organico all’ingresso al governo del Pci.
Berlinguer era ben consapevole dell’ordine dei
problemi e degli ostacoli, anche internazionali che si frapponevano
all’accoglimento di un nuovo compromesso storico. Ma coglieva perfettamente che
altri fattori, non meno potenti, aprivano al Pci una potenzialità nuova. Questi
fattori, tra loro combinati, erano essenzialmente due: la nuova ascesa della
classe operaia e la nuova crisi di direzione politica della borghesia. In forme
e con intensità profondamente diverse erano non a caso gli stessi fattori che
avevano sospinto il primo compromesso storico del dopoguerra.
Ascesa operaia e avanzata
del Pci: una relazione contraddittoria
La ripresa della classe operaia, dopo una fase di dure
sconfitte aveva segnato, seppur in modo non lineare, il corso degli anni
sessanta. La rivolta di massa contro il governo Tambroni nel luglio 1960 fu il
primo segnale del disgelo. Una nuova generazione faceva progressivamente il
proprio ingresso nelle lotte sindacali e politiche. La crescita quantitativa e
la concentrazione di massa della classe operaia industriale – prodotta dallo
sviluppo capitalistico del dopoguerra – dava a questa lenta ripresa una
robusta base materiale d’appoggio. L’autunno caldo del ’69 fu il punto
d’approdo di questo processo e al tempo stesso la leva e il motore di una
svolta profonda nei rapporti di forza tra le classi in Italia. Le vecchie
politiche sindacali, a lungo difese dal Pci (dalla conservazione di commissioni
interne sclerotizzate al moderatismo salariale) furono nei fatti travolte
dalla pressione operaia. Gli aumenti salariali uguali per tutti, l’unità tra
operai e impiegati, il potere di contrattazione in fabbrica, nuove forme di
rappresentanza democratica dei lavoratori si affermarono come rivendicazioni
egemoni a livello di massa. La nascita dei consigli di fabbrica dava la misura
della nuova forza operaia e delle potenzialità della svolta. Una svolta che
non si fermava ai cancelli della fabbrica, ma investiva profondamente la
società italiana: si intrecciava con l’ascesa della mobilitazione studentesca;
spostava gli orientamenti di vasti settori di piccola borghesia, di masse
popolari del sud, di forze intellettuali; trascinava una nuova sensibilità
democratica e una potente domanda di cambiamento.
L’apparato del Pci lavorò a contenere questa spinta:
da un lato cavalcandola, dall’altro smussandone tutte le potenzialità anticapitalistiche.
Il cavalcamento dei nuovi consigli di fabbrica e la loro successiva subordinazione
“istituzionale” al nuovo patto interconfederale del 1972 furono al riguardo
emblematici; non meno – su un altro piano – della linea di attacco frontale e
di “clima rovente” (Cossutta 1972) nei confronti della neonata “sinistra
extraparlamentare”. Peraltro tutta la credibilità del Pci agli occhi della
borghesia era affidata alla sua capacità di contenere l’ascesa di massa dentro
gli argini della società borghese.
Ma il Pci sarà anche il beneficiario politico, alla
lunga, della nuova stagione sociale. Nel 1974-75 il riflesso politico di anni
di lotte di massa si espresse nella clamorosa vittoria sul tema del divorzio,
nella grandezza e radicalità delle mobilitazioni antifasciste, ma soprattutto
nell’ascesa elettorale impetuosa del Pci; che nelle elezioni amministrative del
15 giugno 1975 conquistava le grandi città del nord e del sud rompendo i
confini tradizionali del proprio insediamento storico e incamerando ovunque
nuove forze e nuove domande.
L’apparato del Pci dirà a lungo, per tacitare il
dissenso interno, che questa avanzata del partito esprimeva un consenso di
massa alla linea del compromesso storico. Era falso. Le masse non votano linee
politiche, esprimono bisogni e domande attraverso i canali di cui dispongono.
L’avanzata del Pci nel 1975 esprimeva una gigantesca domanda di svolta dopo
trent’anni di dominio democristiano: una domanda che si incanalava, come era
naturale, verso quella forza di opposizione che per consistenza, insediamento,
tradizione appariva agli occhi della masse come l’unico possibile strumento
della svolta.
Il paradosso storico – ricorrente nella relazione
dinamica tra lotta di classe e direzioni riformiste – è che proprio la linea di
compromesso storico con la DC che confliggeva con la domanda di svolta, uscì
rafforzata dall’ascesa di massa: accrescendo enormemente il peso negoziale
dell’apparato staliniano nei confronti della borghesia e della DC.
La crisi economica e
politica del capitalismo italiano
Congiuntamente all’ascesa operaia e al rafforzamento
del Pci, si manifestava una crisi profonda delle classi dominanti. Con la crisi
economica internazionale del 1974-75 e i suoi pesanti riflessi in Italia, la
lunga fase del boom post-bellico, già da tempo in progressivo esaurimento,
poteva dirsi definitivamente conclusa. Nel capitalismo italiano si apriva una
fase nuova. Una serie di distorsioni strutturali legate ai caratteri della DC e
del suo blocco di potere iniziavano a rivelarsi ostacoli sempre più ingombranti
per la competitività capitalistica nazionale. Il peso eccezionale del
capitalismo di Stato, la consistenza della rendita, il clientelismo
parassitario, il carattere pletorico dell’amministrazione pubblica entravano
nel mirino della campagna borghese. L’anomalo tasso d’inflazione (sino a soglie
del 20%), la crisi di competitività industriale sul mercato internazionale
(nonostante i ripetuti crolli della lira), l’innalzamento abnorme del saggio di
sconto (alzato dall’8% al 12% nel solo 1974) apparivano sempre più a vasti
settori di grande capitale come il prezzo insostenibile delle “anomalie
strutturali”. Era uno degli aspetti del cosiddetto “caso italiano”.
Ma, soprattutto, in quel contesto, si rivelavano sempre
più onerose per il capitale le conquiste strappate dall’ascesa operaia. Le
concessioni considerevoli che la borghesia aveva fatto alla pressione di massa
sino alla metà degli anni settanta (dallo Statuto dei lavoratori al punto unico
di scala mobile) avevano avuto come fine quello di disinnescare il rischio di
una precipitazione rivoluzionaria in Italia: le riforme furono strappate non
“dal Pci” (come a lungo si disse) ma dalla minaccia di un conflitto sociale
ingovernabile che proprio il Pci si era prodigato ad evitare. Tuttavia sullo
sfondo della nuova crisi economica il peso strutturale di quelle concessioni
divenne progressivamente insostenibile per il capitalismo italiano. La crescita
dei livelli salariali, la forza operaia in fabbrica, la rigidità del posto di
lavoro a partire dalle grandi aziende, ponevano alla borghesia l’esigenza di
una controffensiva. Arretrare non si poteva più. E si doveva innestare, nelle
condizioni date, una decisa inversione di marcia.
L’interrogativo era: con quale strategia politica? Una
linea di scontro frontale col movimento operaio era – dentro i rapporti di
forza dati – improponibile. Dal punto di vista sociale avrebbe significato
un’avventura, capace di favorire un ulteriore radicalizzaione dello scontro e
quindi di trascinare nuove obbligate concessioni. Non di meno dal punto di
vista politico: l’avanzata del Pci, erodendo la base di consenso del Psi e
influenzando settori popolari cattolici si accompagnava ad una crisi sempre più
netta del centrosinistra che aveva da tempo esaurito ogni forza propulsiva; e
chiedere a quel centrosinistra e alla stessa DC una linea di scontro col Pci
significava votarlo alla disfatta. Peraltro il tentativo di svolta a destra
intrapreso nel 1972 col varo del governo DC-Pli (Andreotti-Malagodi) era durato
lo spazio di un mattino. A maggior ragione suggestioni reazionarie e golpiste
– che pur aleggiarono più volte in settori dell’apparato statale, a misura
della gravità della crisi, e che avevano alimentato la cosiddetta strategia
della tensione – non solo non ebbero mai alcuna credibilità politica nei
circoli decisivi del capitale finanziario: ma apparvero ai loro occhi come
corresponsabili del processo di radicalizzazione politica a sinistra delle
classi subalterne.
Vi era dunque un solo modo per la borghesia di uscire
dall’impasse e riprendere in mano la situazione: aprire ad una progressiva
integrazione e corresposabilizzazione del Pci nell’ambito degli equilibri di
governo.
La borghesia italiana apre
al Pci
Contrariamente a un diffuso luogo comune, il
compromesso storico, nei suoi termini reali, non fu solo una proposta del Pci
alla DC, ma anche una proposta della borghesia italiana al Pci. Anzi, la forza
della proposta berlingueriana stava esattamente nella sua rispondenza con la
speculare apertura borghese.
Berlinguer coniò la sua proposta alla fine del 1973
con parole significative “la DC ha dovuto abbandonare la linea e la
prospettiva del centrodestra. Essa avverte che può essere gravido di avventure
fatali, per tutti o per se stessa, giocare la carta della contrapposizione e
dello scontro. Ma non è giunta ancora ad intraprendere con coerenza una strada
opposta…” (“Rinascita” del 20 ottobre 1973). La strada appunto del
compromesso di governo con lo stalinismo.
Con un perfetto parallelismo, all’inizio del 1974,
Guido Carli prestigioso governatore della Banca d’Italia, in un celebre
articolo sull’”Espresso” indicava per la prima volta l’opportunità di
coinvolgere il Pci nell’area di governo, come possibile fattore di “stabilità
sociale e politica” e di “risposta al disordine sociale”. La
grande borghesia italiana aveva scelto. La Confindustria nel 1975 aprì alla
Cgil di Lama e al Pci con la concessione del punto unico di contingenza:
l’ultima riforma concessa al movimento operaio chiedeva come contropartita non
solo la fine delle rivendicazioni salariali ma l’avvio del coinvolgimento
politico del Pci nel processo di stabilizzazione sociale. Non a caso fu Gianni
Agnelli – come presidente di Confindustria – l’artefice diretto del messaggio.
A sua volta l’apertura borghese dislocò in termini nuovi l’intera dialettica
politica nazionale. Il Pri di Ugo la Malfa, portavoce chimicamente puro della
linea confindustriale, divenne il principale propositore del coinvolgimento
governativo del Pci. Dentro tutti i partiti borghesi si rafforzò giorno dopo
giorno la linea aperturista verso lo stalinismo (persino nel Pli).
Ma fu soprattutto nella DC, architrave della
rappresentanza politica borghese, che maturarono rapidamente, pur in un quadro
contraddittorio, dinamiche nuove. Aldo Moro e Giulio Andreotti, da versanti
diversi, compresero meglio e prima di altri dirigenti democristiani che un
equilibrio politico era finito: e che non vi era altra strada per tentare di
uscire dalla drammatica crisi del capitalismo italiano (e in parte della stessa
DC) che aprire al compromesso storico.
La partita di scambio del
compromesso
Dopo le lezioni politiche del 20 giugno 1976 – che
avevano registrato il miglior risultato elettorale del Pci di tutto il
dopoguerra – il compromesso storico iniziò a conoscere una concreta traduzione
politica. La sua linea di attuazione tra il 1976 e il 1978 fu progressiva e
graduale. Nel 1976 nasceva il governo Andreotti come “governo delle
astensioni”: il Pci non aveva formalmente una integrazione al governo e neppure
in maggioranza, ma per la prima volta dopo trent’anni rimuoveva la propria
opposizione, dichiarando la “non sfiducia”. Nel 1977 nasceva un secondo governo
Andreotti, chiamato il governo delle “convergenze programmatiche”: il Pci non
era formalmente incluso in maggioranza ma aveva discusso ufficialmente per la
prima volta il programma di governo, nei fatti corresponsabilizzandosi
apertamente. Il 16 marzo 1978 un terzo governo Andreotti teneva a battesimo
l’ingresso organico del Pci nella maggioranza politica di governo.
La gradualità del processo rispondeva solo in parte a
preoccupazioni elettorali della DC sul versante del tradizionale elettorato
anticomunista. Rispondeva invece essenzialmente alla natura di fondo dello
scambio pattuito, che era poi la vera natura del compromesso storico. La
burocrazia staliniana aveva usato la spinta di massa del movimento operaio per
aprirsi la strada del governo con la borghesia. La borghesia, e il suo
principale partito,usarono l’apertura al Pci come leva della normalizzazione
sociale contro le conquiste del 1969-75. Questo compromesso doveva essere
vigilato e alimentato in un gioco di pressioni, garanzie, contropartite reciproche
e richiedeva dunque gradualità. Per tre anni l’apparato del Pci rivendicò
l’accelerazione del proprio ingresso diretto nell’esecutivo, condizionando le
proprie disponibilità antioperaie all’avanzamento degli equilibri politici. Per
tre anni i vertici della DC condizionarono l’avanzamento progressivo di quegli
equilibri all’impegno antioperaio del Pci, alle prove della sua affidabilità
sul versante delle politiche borghesi.
La storiografia del Pci degli anni ottanta tese spesso
a distinguere il compromesso storico proposto da Berlinguer dall’unità
nazionale del 1976-78: presentando quest’ultima come una traduzione imperfetta
da parte del partito dell’“alto disegno” di trasformazione – “purtroppo
incompreso dalla base” – che Berlinguer aveva concepito. Era il tentativo
di salvare il compromesso storico (e Berlinguer) dal bilancio del suo
fallimento.
In verità, l’unità nazionale fu esattamente il
compromesso storico reale, liberato dall’alone propagandistico e illusionista
che dal 1973 aveva accompagnato la proposta.
Austerità e sacrifici
“Austerità e sacrifici”: questi due termini più di
altri incardinarono l’intera esperienza dell’unità nazionale. Per lungo tempo,
da più parti, si è rappresentata la parola d’ordine berlingueriana
dell’austerità come una critica al “modello capitalista”, una denuncia della
sua irrazionalità, una proposta di società più libera e più umana: addirittura
un “socialismo” per il nostro tempo.
Questa rappresentazione lirica capovolge precisamente
la realtà. L’austerità fu nei fatti la cornice ideologica della nuova politica
antioperaia del Pci in subordine alle esigenze del capitalismo italiano. Questa
politica non solo cancellava definitivamente ogni traccia residuale del vecchio
propagandismo togliattiano di opposizione degli anni cinquanta e sessanta
(“riforme di struttura”, “nazionalizzazione di alcuni monopoli”, ecc.); non
solo cancellava ogni eredità del sindacalismo tradunionista, tardivo e
strumentale, del 1969-70; ma metteva apertamente in discussione conquiste,
istituti, rapporti di forza realizzati dalla classe operaia dal 1969 al 1976,
lungo una linea di progressione inequivoca.
Nell’ottobre del 1976, appena varcata la linea
dell’astensione, il Pci difese le misure del governo Andreotti dagli scioperi
spontanei dei lavoratori (indirizzati in particolare contro il rincaro dei
prezzi e l’aumento della benzina), lanciando la nuova campagna del rigore
contro la crisi: la classe operaia doveva iniziare a farsi carico delle
difficoltà nazionali, moderare le proprie rivendicazioni, mostrare “spirito
responsabile e costruttivo” verso il padronato. In poche parole doveva
accettare un ridimensionamento della propria condizione.
Nel luglio del 1977, in corrispondenza col varo della
“convergenza programmatica” tra DC e Pci, la “proposta di progetto a medio
termine” varato dal comitato centrale del partito dava alla nuova linea del
rigore una confezione ideologica impegnativa. Il testo dichiarava come proprio
proposito “il concreto collegamento tra l’impegno, i sacrifici, il rigore,
che si venivano sollecitando come condizione indispensabile per il superamento
della crisi e la prospettiva di una trasformazione della società.”
(dall’introduzione di Giorgio Napoletano). Ma l’intero testo – che si apre con
l’elogio dell’austerità – assume come proprio terreno di riferimento il
programma a “medio termine” della borghesia italiana. Nei “successivi
tre-cinque anni” il progetto a medio termine del Pci rivendicava “lo
spostamento di risorse dai consumi agli investimenti” (leggi: contrazioni
salariali in cambio di maggiori profitti alle imprese); “una vera e propria
guerra allo spreco non solo nella sfera dei consumi privati ma nella sfera
della spesa pubblica” (leggi: contenimento delle spese sociali in
nome di maggiori risorse per l’accumulazione capitalistica); “la lotta
all’inflazione come condizione di recupero della competitività nazionale e il
rifiuto dell’assistenzialismo e dell’occupazione improduttiva” (leggi:
salario e posto di lavoro coma variabile dipendente del capitale). In
definitiva la “trasformazione della società” progettata dal Pci voleva
assicurare alla borghesia la piena restaurazione del controllo capitalistico.
Ma fu nel 1978 che il nuovo corso economico sociale
del partito conobbe la traduzione più “provocatoria”, con pesanti ricadute
sulla lotta di classe. In perfetto parallelismo con l’ingresso del Pci nella
maggioranza politica di governo la burocrazia della Cgil sotto la guida di
Luciano Lama inaugurò all’Eur una svolta profonda di indirizzo del principale
sindacato italiano. Questa svolta non stava nella trasformazione di un
“sindacato di classe anticapitalista” in un sindacato collaborazionista, come
spesso si è affermato in ambienti centristi di estrema sinistra. Stava nel
passaggio della burocrazia riformista della Cgil da una funzione
tradunionistica di scavalcamento e contenimento della spinta di massa,
connessa alla collocazione di opposizione del Pci, ad una funzione di svendita
delle conquiste operaie, connessa alla nuova collocazione di governo dello
stalinismo. Il significato di questa svolta la diede lo stesso Lama in una
storica intervista al giornale “la Repubblica” (24 gennaio 1978). Lama criticò
apertamente “gli eccessi e gli errori sindacali” del 1969-76. Condannò
definitivamente la concezione rivendicativa del salario come variabile
indipendente annunciando l’“austerità salariale”. Aprì inoltre una campagna
sindacale per la crescita della produttività del lavoro affermando che l’orario
reale di lavoro medio in Italia era molto più basso che in altri paesi
capitalistici concorrenti e che la Cgil sarebbe stata disponibile a negoziare
il suo allungamento. Infine fece propria la tesi padronale dell’“esuberanza” di
mano d’opera nelle fabbriche riconoscendo la legittimità della sua riduzione. “La
Cgil è pronta ad impegnarsi per sacrifici sociali non formali, ma sostanziali”
dichiarò Lama. Il messaggio era inequivoco: la burocrazia Cgil, per conto
dello stalinismo italiano provava a presentarsi alla borghesia come garante
delle rinunce operaie e della normalizzazione nelle fabbriche. In buona
sostanza della chiusura della stagione del 1968-69.
La classe operaia “si fa
Stato”: il Pci baluardo dell’ordine
Al tempo stesso l’accesso all’area di governo si
combinava con un nuovo corso del partito sul terreno più strettamente politico.
La classe operaia non era solo chiamata a
identificarsi negli interessi nazionali del capitalismo in crisi. Era chiamata
a identificarsi nello Stato borghese, a “farsi Stato”. La domanda di potere che
in qualche modo era emersa, con molte contraddizioni, nella dinamica di massa
del 1969-76 e nella coscienza dell’avanguardia proletaria veniva in qualche
modo capovolta e sublimata nella partecipazione subalterna al potere
avversario. La classe operaia che “si fa Stato” doveva perciò spesso dissolvere
il proprio interesse di classe nell’interesse generale dell’ordine borghese.
Doveva assumere essa stessa in prima persona la difesa dell’ordine avversario.
Migliaia di funzionari e attivisti fedeli di partito furono arruolati nel nuovo
compito di tutori dell’ordine e del governo di unità nazionale: nelle
fabbriche, nei quartieri, nelle manifestazioni.
La campagna contro l’estrema sinistra e l’opposizione
di classe conobbe in quegli anni un deciso salto di qualità, con un ruolo
diretto dell’apparato staliniano. L’esplosione del terrorismo delle Brigate
rosse e di Prima linea, alimentato dalla disgregazione della vecchia estrema
sinistra, non solo contribuì a distorcere e compromettere l’idea stessa di
rivoluzione nella percezione di vasti settori di massa, ma incoraggiò la
repressione dello Stato contro l’avanguardia di classe. Settori di estrema
sinistra che nulla avevano a che vedere col terrorismo furono duramente colpiti
nell’isteria generata dalla nuova legislazione d’emergenza sospinta a coperta
dal Pci. E, al di là delle dirette misure repressive, ampi strati di lavoratori
d’avanguardia ostili all’unità nazionale subirono un effetto obiettivo di
intimidazione, una restrizione reale degli spazi di opposizione.
La repressione non fu generale ma selettiva. Non colpì
direttamente le masse organizzate e sindacalizzate, di cui il governo – tramite
il Pci – cercava anzi, in qualche modo, il sostegno: ma tutti quei settori
d’avanguardia delle classi subalterne che, al di là delle loro specifiche
posizioni, apparivano fuori e contro l’unità nazionale. La verità è che
l’apparato staliniano del Pci voleva valorizzarsi agli occhi della borghesia
non solo come l’insostituibile garante dei sacrifici sociali, ma anche come
l’insostituibile baluardo dell’ordine e della stabilità, contro ogni resistenza
e insorgenza ribellistica.
Eurocomunismo e stalinismo
A questa politica interna corrispose,
significativamente, la politica estera del compromesso storico. Era questo un
terreno delicatissimo per le speranze di ingresso organico del Pci
nell’esecutivo. Il “fattore K” continuava ad ostacolare in modo decisivo questo
sbocco. Nell’impossibilità di rimuoverlo, occorreva nuovamente ridimensionarlo
e diluirlo. Il lancio propagandistico nel 1976, su spinta del Pci, del
cosiddetto “eurocomunismo” (Pci, Pcf, Pce) serviva a questo scopo.
Sulla natura dell’eurocomunismo sono prosperate le più
diverse interpretazioni e letture. Il gruppo dirigente del Pci si sforzò di
presentarlo come una sorta di “rifondazione democratica del comunismo europeo”.
Settori di estrema sinistra finirono con l’avallare, magari criticamente,
questa rappresentazione propagandistica. Ancora oggi, un compagno come Livio
Maitan rappresenta retrospettivamente l’eurocomunismo come espressione di una
“contraddizione dei partiti stalinizzati” tra il condizionamento
“decisivo” dei gruppi dirigenti dell’Urss e l’impossibilità di “crescere e
acquistare un’influenza duratura senza rispondere ai bisogni delle masse
operaie e popolari delle società capitalistiche” (vedi Livio Maitan in La
strada percorsa.
La realtà fu di segno opposto. L’eurocomunismo nella
sua breve stagione (1976-79) coincise esattamente con il massimo impegno
dell’apparato burocratico del Pci nell’intimidazione delle lotte e nella
contrapposizione “ai bisogni delle masse operaie e popolari”. E questo per una
ragione molto semplice. Esso non rifletteva affatto una pressione “democratica
e sociale” della base del partito o del movimento operaio. Rifletteva al
contrario l’enorme pressione della borghesia italiana e, indirettamente, dei
circoli dominanti dell’imperialismo Usa per una netta recisione dei rapporti
del Pci con Mosca quale condizione di ogni sua piena legittimazione di governo.
Con la conferenza eurocomunista di Madrid del 1976, a
fianco di Pcf e Pce, Enrico Berlinguer volle dunque inviare al capitalismo
italiano un segnale preciso: il Pci è disposto a fare un nuovo passo avanti sul
terreno dell’autonomizzazione dalla burocrazia del Cremino e della propria
integrazione nell’occidente capitalistico. Il 15 giugno del 1976, a pochi
giorni dal voto nelle elezioni politiche Berlinguer rilasciava sul “Corriere
della sera” una dichiarazione clamorosa: “Mi sento più sicuro sotto
l’ombrello della Nato che altrove”. Era il definitivo seppellimento della
tradizione antiatlantica del partito e una dichiarazione di fedeltà piena al
quadro capitalistico e imperialistico.
In realtà Berlinguer gettava il cuore oltre
l’ostacolo: i legami con l’Urss non potevano essere recisi entro le condizioni
storiche del bipolarismo internazionale e infatti si protrarranno ancora per
oltre dieci anni sino alla soglia dello scioglimento del partito. Ma certo lo
slancio occidentale dell’apparato del Pci era quanto mai significativo. Al
punto da incontrare, non a caso, il cauto interessamento dell’imperialismo
Usa (come ormai risulta pubblicamente dai materiali d’archivio della Cia) e la
speculare resistenza della burocrazia di Mosca. Se il primo compromesso storico
aveva avuto il consenso e il mandato del Cremino, il compromesso storico di
Berlinguer, trent’anni dopo, trovò Mosca diffidente e ostile. Era uno dei metri
di misura del progressivo approfondimento delle contraddizioni interne dello
stalinismo internazionale e del loro carattere potenzialmente esplosivo.
Contraddizioni e declino
dell’unità nazionale
Ma l’ostentata fedeltà di Berlinguer alla borghesia
italiana, al suo Stato, al suo campo internazionale non fu sufficiente a
garantire il successo al disegno politico del compromesso storico.
Per alcuni aspetti concorse paradossalmente alla sua
crisi: e infatti la vicenda del compromesso storico reale tra il 1976 e il 1978
è in larga parte la storia del progressivo esaurimento delle sue basi
d’appoggio.
In primo luogo, sul piano sociale, la politica
dell’Eur fece fatica ad affermarsi, trovò significative resistenze e produsse
numerose contraddizioni a livelli diversi.
Settori importanti dello stesso apparato sindacale,
soprattutto nelle categorie dell’industria, si trovarono nell’impossibilità di
applicare in modo coerente la nuova linea di Luciano Lama: sia sul terreno
dell’impostazione delle piattaforme contrattuali, sia sul terreno della
gestione delle lotte.
Lo sciopero nazionale e la grande manifestazione della
Flm nel dicembre 1977 – nettamente critica verso il governo Andreotti,
sostenuto dal Pci – rivelava bene la contraddizione interna della Cgil e del
partito. Berlinguer “usò” quella manifestazione come leva di pressione sulla DC
per chiedere ancora una volta il proprio ingresso diretto nel governo. Ma nel
sentimento operaio quella manifestazione rifletteva disorientamento e distacco
dall’unità nazionale. Non a caso Luciano Lama riconoscerà dieci anni dopo che
la resistenza operaia nelle grandi fabbriche alla politica dell’Eur aveva
costituito “un grosso problema” per lo stesso Pci (vedi L. Lama, L’intervista
sul sindacato, 1987).
La politica del compromesso storico non riportò certo
risultati migliori nel rapporto con la gioventù.
Nel 1977 un consistente movimento giovanile a base
studentesca e semiproletaria si sviluppò in collisione frontale col quadro
politico di unità nazionale, le sue politiche sociali, i suoi risvolti
repressivi, misurando un processo di rottura profonda tra l’apparato del Pci e
la sensibilità di una parte rilevante della gioventù italiana. La cacciata di
Lama dall’università di Roma (al di là di ogni specifica considerazione
sull’avvenimento in sé) così come la grande manifestazione di massa contro la
repressione a Bologna nel settembre del 1977 registrarono questo clima generale
e contribuirono ad amplificarlo.
Infine, in questo contesto, si moltiplicarono nella
base del Pci ed anche in settori del suo quadro intermedio, scossi dal nuovo
clima, segni di disorientamento e incomprensione verso il nuovo corso
governista del partito.
In secondo luogo i programmi sociali di “austerità e
sacrifici” al di là dell’annuncio, registrarono risultati contraddittori e
comunque ben inferiori alle attese della borghesia italiana. Una prima
manomissione del meccanismo di contingenza con lo scorporo di alcune voci del
paniere e la sterilizzazione del calcolo di scala mobile sulle liquidazioni
furono materialmente il principale trofeo che il Pci poté esibire agli occhi di
Confindustria: era un colpo reale ai lavoratori, ma del tutto insufficiente
agli occhi di un padronato gravato dalla crisi. Peraltro la gestione
consociativa DC-Pci sul terreno dell’occupazione dello Stato, delle nomine
negli enti pubblici, della definizione quotidiana dell’equilibrio di
compromesso su ogni singola scelta (a livello di parlamento, di amministrazione
pubblica, di giunte locali) sembrò ingigantire nella percezione borghese quei
fenomeni di dispendioso parassitismo burocratico e di “ingerenza partitica” che
da tempo la classe dominante aveva denunciato e di cui chiedeva il superamento.
I circoli del capitale finanziario che avevano
investito realmente sul compromesso storico iniziarono dunque a manifestare
inquietudine e delusione.
La demoralizzazione delle
masse
Ma se l’unità nazionale deludeva le aspettative della
borghesia, rappresentava un colpo mortale per il movimento operaio e la
dinamica della lotta di classe.
E’ vero, il grosso delle conquiste operaie,
nell’immediato, resse alla svolta. Nell’immediato il padronato non sfondò sul
terreno materiale dei rapporti di forza. Ma il morale delle grandi masse,
quello sì, conobbe una rapida e drastica inversione di segno. Milioni di
lavoratori e lavoratrici, giovani e donne che avevano intrapreso dal 1969 una
grande ascesa sociale segnata da una domanda centrale di svolta vedevano “i
propri” dirigenti predicare la rinuncia alle conquiste strappate e la fine
della mobilitazione sociale. Un ampio settore di base del Pci che aveva a lungo
lottato per l’alternativa alla DC vedeva i vertici del proprio partito
teorizzare e praticare l’abbraccio con l’avversario politico di sempre; e
sentiva crescere attorno al “proprio” partito un clima di distacco, estraneità,
contestazione diffusa lungo un processo di segno opposto a quello dei primi
anni settanta.
Più di ogni arretramento materiale fu questo il
fattore decisivo di demoralizzazione e ripiegamento. Fu questo il punto di
svolta che segnò l’inizio della lunga pagina del riflusso operaio: un riflusso
dei livelli di combattività e mobilitazione che da lì a qualche anno avrebbe
consentito al padronato di passare direttamente alla rivincita sociale e alla
distruzione reale delle conquiste sociali del 1968-69. Da questo punto di vista
il piano inclinato delle sconfitte sociali degli anni ottanta ha la sua radice,
senza alcun dubbio, nella svolta del compromesso storico alla metà degli anni
settanta.
Paralisi e crollo del
compromesso storico
L’unità nazionale si trovò presto arenata sullo stesso
terreno direttamente politico. Sul piano internazionale, l’amministrazione
americana, pur interessata all’aperturismo occidentale di Berlinguer,
consigliò alla DC una cautela obiettivamente paralizzante. Sul piano interno il
compromesso consociativo DC-Pci marginalizzava i partiti borghesi minori
producendo un insofferenza crescente. Ma soprattutto determinava un
contraccolpo profondo nel partito socialista. Col 1976 l’avvento di Craxi alla
guida del Psi poneva termine progressivamente alla lunga stagione frontista
Pci-Psi e inaugurava un corso politico segnato da un autonomismo marcato del
Partito socialista.
L’autonomizzazione del Psi e lo sviluppo da parte di
Craxi di un incursione spregiudicata e sistematica su tutti i punti di
difficoltà dello stalinismo italiano (sul rapporto con Mosca, sul rapporto col
sindacato, persino sul rapporto con l’estrema sinistra e sulla lotta al
terrorismo) costituì da subito un fattore di profondo indebolimento del peso
politico del Pci nei confronti della DC e della borghesia. E parallelamente
incoraggiò nella DC e negli altri piccoli partiti borghesi, tutti gli elementi
di resistenza all’avanzata politica della burocrazia del Pci.
Curiosamente, l’ingresso formale del Pci nella
maggioranza politica di governo – ingresso sospinto dal rapimento di Aldo Moro
e dal clima emergenziale che né scaturì – coincise con un logoramento già
avanzato di tutti i fattori che avevano sospinto l’unità nazionale. Il massimo
punto di avanzamento del Pci sul terreno degli equilibri politici coincise così
con la massima accelerazione del declino e della crisi del compromesso storico.
E l’anno di sostanziale paralisi politica che ne seguì vide non a caso il
crollo di quella esperienza..
Alla vigilia delle elezioni politiche del 1979, dopo
il mancato accoglimento dell’ennesima rivendicazione di ingresso diretto al
governo, Enrico Berlinguer sanciva pubblicamente l’uscita del Pci dalla
maggioranza, con l’intento in realtà attraverso questo atto di drammatizzazione
di rilanciare in prospettiva con più forza la propria candidatura a
governare.
Ma l’insieme della situazione politica aveva ormai
un’altra direzione di marcia. Dopo tre anni di unità nazionale il Pci era
uscito pesantemente penalizzato dalla prova delle elezioni politiche con la
perdita del 4% dei voti. Il nuovo Psi di Craxi iniziava lentamente una rimonta
che avrebbe consolidato il nuovo corso autonomista ai danni del Pci. Nella DC
la crisi della cosiddetta sinistra morotea (drammaticamente accentuata dalla
scomparsa di Moro) favorì in poco tempo l’emergere di una nuova leadership
(Forlani) che puntava apertamente sul rapporto privilegiato con Craxi per
isolare e ridimensionare il Pci. Ma soprattutto l’inizio degli arretramenti
della classe operaia e la crisi del blocco sociale che si era raccolto attorno
ad essa nella precedente fase di ascesa, privò la burocrazia stalinista della
sua principale leva di pressione sulla borghesia italiana.
Come spesso accade nella storia, il riformismo è la
vittima fisiologica della sua stessa politica fallimentare.
Un bilancio di fondo, una
lezione per il futuro
L’esperienza reale del compromesso storico smentisce e
capovolge, su ogni piano, tutta l’impostazione ideologica della proposta del
compromesso storico del 1973.
L’incontro con la DC non è stato ricercato – come
affermava Berlinguer – in virtù del suo cosiddetto carattere “popolare” e
“nonostante” i suoi rapporti “con i gruppi dominanti della borghesia”:
all’opposto è stato ricercato e realizzato proprio per il fatto che la DC era
il partito centrale, storicamente dato, della borghesia italiana; l’unico
partito abilitato pertanto a legittimare il Pci come forza di governo di fronte
alle classi dominanti, sul piano interno e internazionale.
Così l’unità nazionale non è stata l’alleanza del Pci
(fosse pure infruttuosa) con la masse popolari cattoliche, quale leva del
condizionamento “a sinistra” della DC: è stata l’alleanza della burocrazia del
Pci con la rappresentanza politica della borghesia contro le masse comuniste,
socialiste, cattoliche.
Fu una disfatta per il Pci. Ma soprattutto una
disfatta per il movimento operaio che sarebbe pesata decenni. Perciò stesso fu
un successo politico della borghesia italiana che, grazie alla ciambella
dell’unità nazionale, riuscì a salvarsi dall’acuta crisi sociale e politica
apertasi con il 1969, a dispiegare la rivincita degli anni ottanta, a porre le
premesse della caduta a destra della prima repubblica negli anni novanta.
A trent’anni di distanza, Piero Fassino e Massimo
D’Alema, grazie al crollo dello stalinismo internazionale, hanno potuto
coronare sulle ceneri del vecchio Pci il sogno di governo, rimasto incompiuto,
della sua burocrazia. Non debbono più mendicare un posto nel governo borghese
quali controllori del movimento operaio. Possono aspirare direttamente alla
rappresentanza politica centrale della borghesia, alla costruzione della DC
della seconda repubblica: eventualmente fondendosi in unico partito con forze
eredi della DC e del craxismo e al tempo stesso proponendo, dal versante
borghese, un ... nuovo compromesso alle forze eredi del movimento operaio
(sinistra dei DS, Pdci, Prc, Cgil)
Sta oggi al movimento operaio respingere un nuovo
compromesso storico con il partito borghese ulivista in gestazione, difendere
la propria autonomia, costruire la propria prospettiva anticapitalistica.