mercoledì 30 giugno 2021

LEV KAMENEV IL RIVOLUZIONARIO

 



 

Quando si parla di bolscevichi famosi, il pensiero corre veloce verso Lenin o Trotsky, sono loro i rivoluzionari che si associano all’immaginario collettivo della Rivoluzione Russa. Tuttavia, il Partito Bolscevico era formato anche da altre personalità, da un gruppo di persone valide con grandi qualità, ed è all’interno di queste che si trova Lev Kamenev.

L’estrema sinistra, da sempre, ha visto come un elemento negativo Lev Kamenev. Il suo continuo oscillare tra Stalin e Trotsky lo ha, nei fatti, incasellato nei dirigenti ambigui, poco affidabili, di quelli che non è necessario ricordare. Kamenev fa parte ufficialmente del gruppo dei “deboli” politicamente, travolti dal potere, ma le cose nella realtà storica non stanno esattamente così, perché più di un merito gli va riconosciuto.

Sicuramente Kamenev è stato un rivoluzionario complesso, diviso tra luci ed ombre, ma alla fine della sua vita politica credo ci sia qualcosa da salvare. A quasi centoquarant’anni dalla sua nascita merita di essere ricordato.

La bussola del buonsenso storico per Kamenev è stata rimossa per far posto alla presunzione di colpevolezza. Kamenev ha tradito l’Opposizione a Stalin? Kamenev ha tradito Stalin? Come se la lotta tra rivoluzione (Trotsky) e controrivoluzione (Stalin) non fosse priva, almeno per chi è stato protagonista, di questioni personali, emozioni e sentimenti.

Eppure dovremmo capire che la verità, quando si tratta di grandi personalità segnate dai grandi avvenimenti della storia come Kamenev, può avere tante sfaccettature, e sarebbe il caso di imparare a conoscerle. Dovremmo provare a metterci nei panni di questi rivoluzionari che hanno cambiato il mondo. Compagni come Kamenev meritano un giudizio ulteriore e più approfondito, una sorta di supplemento d’indagine. Dobbiamo concedergli il beneficio del dubbio, dobbiamo dargli qualche attenuante per i suoi errori e dargli una valutazione più attenta e meno superficiale.

 

Lev Borisovič Kamenev (pseudonimo di Rozenfel'd) nasce in Russia, il 18 luglio 1883 da una famiglia di origine ebraica con simpatie rivoluzionarie. La madre aveva frequentato i corsi di laurea preposti per il genere femminile presso l’istituto Bestužev, a San Pietroburgo, il padre, invece era un ingegnere meccanico delle ferrovie. Il padre del futuro ambasciatore sovietico a Roma, durante i suoi studi universitari, ebbe tra i suoi compagni di studi il Populista russo Grinevickij (l’attentatore di Alessandro III vicenda che indubbiamente incise nella vita di Kamenev). Nel 1896 la famiglia Kamenev si stabilisce a Tbilisi, Lev frequenta il liceo e si avvicina alle posizioni radicali, una delle sue prime letture fu “il Programma dei lavoratori” di Ferdinand Lassalle. La repressione zarista è all’apice e sta travolgendo il movimento studentesco, nel 1900 molti studenti vengono arrestati e Kamenev, sospettato di simpatie rivoluzionarie, viene espulso dalla scuola a Tiblisi e gli viene precluso l’accesso universitario nella città georgiana. Successivamente Kamenev decide di trasferirsi a Mosca ove frequenta l’università di legge, ben presto la sua vena rivoluzionaria torna a battere e diviene uno dei leader del gruppo studentesco Zemljačestva.

La sua attività politica tra gli studenti gli vale, questa volta, l’arresto. Kamenev rimane in prigione un paio di mesi e poi viene rispedito a Tbilisi dove continua la sua attività di propaganda rivoluzionaria tra i ferrovieri. In questo periodo Kamenev fa la conoscenza di quello che sarà il suo futuro cognato, Lev Trotsky. Nell’Autunno del 1902 Kamenev, con Olga Davidovna (sorella di Trotsky e sua futura moglie) si trasferisce a Parigi. Nella capitale francese conosce Lenin ed entra a far parte del gruppo Iskra. La conoscenza di Lenin influenzerà notevolmente la vita di Kamenev, lui stesso definisce l’incontro con Lenin "il primo fattore determinante per il suo destino e le sue attività future". 1

La sua vita politica intanto si avvia verso la maturazione. Durante il secondo congresso del Partito Socialdemocratico Russo, nello scontro tra Lenin (Bolscevichi) e Martov (Menscevichi) si schiera con il primo con cui condividerà la politica, salvo rare eccezioni, per tutta la vita.

Dopo la “spaccatura” tra bolscevichi e menscevichi, Kamenev fa ritorno a Tiblisi dove è tra gli animatori dello sciopero ferroviario della transcaucasiatica, questo gli vale l’arresto (5 mesi di detenzione). Successivamente si recherà a Mosca. Kamenev oramai è un quadro e un leader riconosciuto del movimento rivoluzionario sovietico, la polizia zarista lo controlla ma nonostante la pressione “polizesca” continua a militare e a scrivere per i giornali bolscevichi. Lev Kamenev è un rivoluzionario molto apprezzato, in particolar modo da Lenin, per le sue capacità propagandiste. Proprio in quegli anni fa la conoscenza di un altro rivoluzionario che segnerà la sua vita (e la sua morte): Josif Stalin.

Nel 1908 viene arrestato nuovamente e dopo la sua scarcerazione si reca a Ginevra e diviene parte integrante del Comitato Editoriale del quotidiano il proletario. Troviamo Kamenev come delegato ai congressi della socialdemocrazia sia di Copenaghen (1910) che di Basilea (1912). Proprio in questi anni si dedica alla lotta contro i menscevichi. Nel 1914 il Partito invia Kamenev a San Pietroburgo per guidare la fazione bolscevica della IV Duma e la Pravda (organo ufficiale dei bolscevichi). Viene nuovamente arrestato ed esiliato in Siberia. Torna ancora a Pietrogrado dopo la Rivoluzione di febbraio del ‘17 che vede al potere il governo di centro sinistra guidato da Kersenskij.  Kamenev è il rappresentante dei bolscevichi nel Comitato Esecutivo del Soviet di Pietrogrado e in contemporanea iniziano le sue divergenze con Lenin.

L'influenza di Kamenev e Stalin, allora unici dirigenti di rilevo presenti in Russia durante il governo Kerenskij, porta il Partito bolscevico ad essere più l'ala sinistra della democrazia borghese che una forza rivoluzionaria, tanto che Lenin il 6 marzo telegrafa da Stoccolma a Pietroburgo alla sede della Pravda: «La nostra tattica è completamente suicida, nessun appoggio al governo Kerenskij... " Nelle sue memorie Suchanov scrive:" Nei bolscevichi in questo periodo, oltre a Kamenev, compare Stalin... Durante il tempo della sua modesta attività nel comitato esecutivo (egli) produceva - non su me solo - l'impressione di una macchina grigia, che a volte dava una luce smorta senza conseguenze. Di lui in sostanza non c'è più nulla da dire". Insomma un organizzatore dedito agli espropri e rapine con tendenze al riformismo, questo è stato Stalin.

L’opposizione di Kamenev a Lenin riguarda anche i Soviet e il loro ruolo. Per Lenin i Soviet sono un vero e proprio contropotere e rischiano di rovesciare da un momento all'altro il regime borghese di Kerenskij, Kamenev al contrario ha fiducia del governo provvisorio. Il ritorno di Lenin dall’esilio e la pubblicazione delle Tesi d'aprile non fanno che ribaltare l'impostazione politica del gruppo dirigente bolscevico presente in Russia. La "Pravda" diretta da Kamenev e Stalin si era rifiutata di pubblicare tre delle quattro "lettere da lontano" scritte da Lenin in esilio, secondo il quale non bisognava sostenere il governo provvisorio, ma occorreva preparare la rivoluzione proletaria, trasformare la guerra imperialista in guerra civile e rifiutarsi di cadere in un atteggiamento "socialpatriottico".
Con le Tesi d’aprile Lenin sostiene che bisogna passare alla rivoluzione socialista. I bolscevichi devono condurre l'agitazione tra le masse per convincerle della necessità della rivoluzione proletaria per fermare la guerra, assicurare il pane e dare la terra ai contadini. Le tesi di Lenin prevalgono nel partito dopo un serrato dibattito dai vertici alla base [2]. Kamenev non comprende immediatamente l’evoluzione di Lenin, non comprende il cambio di passo del vecchio rivoluzionario, non comprende il perché Lenin abbia improvvisamente sostenuto (in modo implicito) la “teoria della rivoluzione permanente” di Trotsky.

Nel 1917 - alla vigilia dell'insurrezione - scoppia tra i bolscevichi il caso "Zinoviev-Kamenev". Quando, nella metà del mese di settembre, Lenin propone al Comitato Centrale del Partito di orientarsi verso l'insurrezione armata, i soli a votare contro la proposta di Lenin sono Zinoviev e Kamenev. Ma la lotta dei due bolscevichi non si ferma qui - come sarebbe giusto in un partito comunista centralizzato democraticamente - e va oltre. Zinov'ev e Kamenev tentano la "destrutturazione" dell'azione bolscevica, guidata da Lenin e Trotsky, pubblicando su una rivista dal nome "Nova Zizn" (distante dai bolscevichi e diretta da Gorkij) tutte le loro avversità, considerando l'insurrezione "un atto disperato”. È così che a meno 10 giorni dalla presa del palazzo d'Inverno, Zinoviev e Kamenev svelano al mondo intero la tattica dei bolscevichi! Lenin reagisce deciso a questa presa di posizione definendoli "crumiri" e ne chiede l'espulsione, al contrario Stalin li difende [3].

Questa vicenda, il tradimento di Kamenev nei confronti della Rivoluzione Russa e nei confronti di Lenin ha segnato la vita politica di Kamenev, ne ha macchiato la sua fedina politica in modo quasi indelebile, lo stesso Lenin nel suo celebre testamento menziona l’avvenimento. Certo questo fu un errore ma al tempo stesso va ricordato l’impegno che Kamenev profuse durante e dopo la rivoluzione mettendosi al servizio del partito.

All'inizio del 1918 fu ambasciatore in Francia del Partito Bolscevico e negli anni, forse per farsi perdonare il vecchio scontro con Lenin sulla presa del potere si trasforma in un silenzioso esecutore della linea “leninista” del partito per il quale riceve incarichi di governo. Insomma un buon bolscevico, almeno sino alla fine del 22, quando con Zinoviev e Stalin, apre il fuoco contro Trotsky, dando il via alla lotta per l’egemonia nel partito.

certificato di morte di Lev Kamenev
Alla fine del 1922 Kamenev e Zinoviev spinsero nel partito affinché la nomina di segretario generale, fosse affidata a Stalin. Il segretariato di Stalin rappresentava la stanza dei bottoni del nuovo stato, conferendo a Stalin quegli immensi poteri di cui aveva già dato prova come ad esempio “nell’affare georgiano”, quando decretò l’annessione delle Georgia imponendo le sue decisioni al partito georgiano che era poco propenso ad allinearsi alle scelte di Mosca. Siamo alle origini dei metodi di Stalin..

In questa fase dobbiamo fermarci un momento e porci alcune domande. Come è stato possibile che un uomo mite come Kamenev si sia fatto trascinare in una lotta così dura e violenta nel partito? Come è stato possibile che Kamenev, cognato di Trotsky, abbia potuto lanciare una lotta spietata fatta di accuse personali e menzogne verso il fondatore dell’Armata Rossa?

Nel 1956, Solomon Asch, psicologo polacco, decise di studiare come le nostre decisioni possano essere influenzate dalle compagnie che frequentiamo [4]. Questo, forse, ha inciso un po’ nella vita politica di Kamenev, ovvero le “cattive compagnie”[1] . La frequentazione e lo stretto legame che aveva con Zinoviev furono probabilmente decisive. Zinoviev era convinto di poter dominare Stalin e di essere investito quasi in modo messianico dalla “successione” di Lenin, e non avendo dei metodi propriamente democratici decise di raggiungere tale obiettivo eliminando politicamente la personalità più influente del bolscevismo dopo Lenin, ovvero Trotsky. Kamenev probabilmente, come spesso accade in politica, si è fatto convincere da Zinoviev o meglio dall’affetto che nutriva per Zinoviev più che dalla giustezza delle sue posizioni, forse questo è stato l’errore di Kamenev, un errore, se così lo possiamo definire, di leggerezza.

Si crea quindi nel 1923 una sorta di direttorio a tre formato da Zinoviev, Kamenev e Stalin con due obbiettivi strettamente connessi tra loro: il primo è stabilizzare e gestire il potere nel partito, il secondo è limitare il ruolo di Trotsky all'interno dei PCbR. In particolar modo per arginare l'enorme influenza di quest'ultimo nella società sovietica Kamenev e gli altri hanno bisogno di un pretesto politico e lo trovano nel passato del loro antagonista... il menscevismo.

Si apre così un vero e proprio fuoco incrociato contro Trotsky. Una vera e propria ondata di calunnie diffamatorie nei confronti del fondatore dell'Armata Rossa.

La situazione politica comunque è in evoluzione, non dura a lungo e la Troika si sfalda. La teorizzazione del "Socialismo in un solo paese" fatta dal Stalin (che sappiamo imboccato dalla destra buchariniana) e la galoppante burocratizzazione del partito, fanno cambiare a Kamenev e a Zinoviev posizione. Sia Kamenev e Zinoviev capiscono di non essere stati in grado di controllare Stalin anzi di essere stati proprio da lui manovrati. A questa difficoltà di gestione del partito si somma anche la “formalizzazione” del processo burocratico del partito. Il socialismo in un paese solo rappresenta la tomba dell’internazionalismo e del bolscevismo, Kamenev ne è lucidamente cosciente. Kamenev e Zinoviev decidono di allearsi  questa volta con Trotsky  per combattere Stalin e danno vita nel 1925 a quella che fu poi definita “l’Opposizione Unificata”.

Kamenev - con infantile ottimismo - si rivolge a Trotsky poco prima di iniziare la battaglia contro l'apparato stalinista: "Basta che voi vi mostriate con Zinov'ev sulla stessa tribuna; il partito troverà subito il suo comitato centrale" [5].

Contemporaneamente, davanti al partito, Zinoviev fa retromarcia su Trotsky ammettendo di aver denunciato e inventato il trotskismo come campagna strumentale di accusa politica nel 23 e nel 24. "Ricominceremo il movimento di Zimmerwald" questo era l'ottimismo di Zinoviev dai ricordi di Serge. Ma la storia non perdona e l’opportunismo ideologico in politica si paga sempre, Stalin finisce per vincere, la burocrazia prende il sopravvento e Kamenev capitola.

Dopo aver perso la battaglia politica contro Stalin e aver visto fallire la rivoluzione Cinese, Kamenev a poco più di 10 anni dalla rivoluzione russa cede a Stalin e alla controrivoluzione politica. Sarà sino alla sua morte un politico senza anima nelle mani Stalin. L’opposizione unificata viene cancellata prima politicamente e poi fisicamente. Kamenev viene accusato di essere un traditore, di essere un terrorista, di aver voluto attentare alla morta di Stalin e di essere colpevole della morte di Kirov. Kamenev, forse per la paura di perdere i suoi famigliari, o per le torture subite, decide di confessare tutti gli assurdi crimini di cui venne accusato. 

Kamenev lo vediamo così tra i protagonisti nell'agosto del 1936 del "processo dei Sedici. Kamenev e altri vengono accusati di aver dato vita ad un'organizzazione terroristica, detta "centro trockista-zinovievista", che oltre ad aver ucciso Kirov, progettava anche di assassinare Stalin ed altri leader sovietici. Durante tutto il processo, Kamenev e gli altri imputati continuarono a confessare questi crimini con una docilità che lascia a bocca aperta. Il linguaggio del processo era macchinoso, quasi recitato in una farsa nella quale si contrapponeva il bene contro il male, Naturalmente il male era nutrire dei dubbi nei confronti della politica “infallibile” di Stalin.

 

Riportiamo alcuni stralci del processo:

 

Vyshinskij (procuratore del processo, ex menscevico): confermate, dunque, che esisteva questo piano mostruoso (costruzione di un centro terroristico trotskysta-zinovievista)?

Kamenev: Si, questo piano mostruoso esisteva.

V: Riconoscete, adesso, di avere elaborato tale piano?

K: Si, lo riconosco.                                                                                                                                                                          

Nel corso dell’interrogatorio di Reingold risultò poi che egli[2]  ha avuto da Kamenev e Zinoviev una serie di mandati di fiducia, soprattutto quello di costruire all’estero un fondo speciale per il finanziamento dell’organizzazione terroristica, nell’eventualità che Kamenev e Zinoviev fossero espulsi all’estero.

V: Imputato Kamenev, questo incontro ha avuto luogo?

K: Fu nel ’29 quando io e Zinoviev pensavamo di poter essere esiliati come Trotsky e per questo giudicavamo indispensabile la costruzione all’estero di un fondo per sostenere e continuare il lavoro che facevamo in patria [6]

Tra gli osservatori del processo molti dubbi venivano sollevati, possibile che i più stretti collaboratori di Lenin fossero in combutta con i nazisti? Possibile dopo aver criticato per tutta la vita il terrorismo individuale si siano dedicati ad esso? Come poteva fare questo Kamenev? Tutto questo si sommava a grossolani errori come quando venne dichiarato alla corte che il figlio di Trotsky (Lev Sedov) aveva ordinato gli omicidi in una riunione tenutasi, negli anni ’20, presso l’Hotel Bristol in Danimarca, peccato che quell’Hotel era stato demolito nel 1917. Insomma una farsa dilettantistica.

 

LA FUCILAZIONE

Il 25 agosto del 1936 Kamenev e Zinoviev vennero presi dalle loro celle e condotti giù dalle scale della Lubijanka, con loro vi erano Jagoda ed Ezov i capi della polizia politica sovietica. Tutto era pronto per l’esecuzione, Zinoviev era molto agitato stando da quanto riportato da alcuni testimoni [7], si gettò ai piedi delle guardie sovietiche implorando pietà «Vi prego compagni, chiamate Iosif Vissarionovich, aveva promesso di risparmiare le nostre vite!». Kamenev invece rimase impassibile: «È quanto ci meritiamo per l’atteggiamento meschino che abbiamo avuto durante il processo». Disse a Zinoviev di mantenere la calma, invito che cadde nel vuoto. Zinoviev fu trascinato in un’altra stanza e subito fucilato, Kamenev poco dopo. Si dice che Jogoda, allora capo della polizia politica sovietica, estrasse i proiettili dai corpi di Zinoviev e Kamenev e li conservò come macabre reliquie etichettandoli con i lori nomi.

LA FAMIGLIA

La prima moglie di L. B. Kamenev è la sorella di L. D. Trotsky, Olga Davidovna Bronstein (1883-1941), fu fucilata nella foresta di Medvedev vicino a Orel insieme ad altri rivoluzionari e oppositori al regime di Stalin. Entrambi i loro  figli - Alexander Kamenev pilota e Yuri Kamenev - furono fucilati, colpevoli di essere i figli di Kamenev, nipoti di Trotsky e di aver espresso il proprio dissenso per la morte del padre.

La seconda moglie, Tatyana Ivanovna Glebova, fu anche lei fucilata. Il figlio nato dalla loro unione, Vladimir Lvovich Glebov , finì prima in un orfanotrofio per poi essere arrestato nel 1950 e condannato a 10 anni di prigionia. Fu rilasciato nel 1956 durante la destalinizzazione e in seguito ebbe una discreta carriera universitaria. Morì nel 1994.

 

HANNO DETTO DI LUI

Il 28 ottobre (15) ho parlato in uno dei corridoi dello Smolny con Kamenev, un uomo basso di statur,a con una barba rossastra e delle movenze vivaci. Non era del tutto sicuro che ci sarebbero stati abbastanza delegati per la convention. "Se il congresso avrà luogo", ha detto, "rappresenterà lo stato d'animo principale del popolo. Se la maggioranza, come credo, andrà dai bolscevichi, allora chiederemo che il governo provvisorio si dimetta e trasferisca tutto il potere ai Soviet. "

John Reed Dieci giorni che fecero tremare il mondo

 

Di per sé, non è una persona assetata di potere, bonaria e piuttosto "borghese". È vero, è un vecchio bolscevico, ma non un vigliacco...

È un uomo intelligente, colto, con le doti. Se non ci fosse stato il comunismo in Russia, sarebbe un buon ministro socialista in un paese capitalista.

B. G. Bazhanov Memorie dell'ex segretario di Stalin

Sia Zinoviev che Kamenev erano teoricamente e politicamente superiori a Stalin, anche se mancava loro quello piccola cosa che si chiama carattere.

Lev Trotsky  La mia Vita

 

IL GIUDIZIO FINALE

Il giudizio su Lev Kamenev è complesso da dare, difficile da definire, ma come migliaia di comunisti uccisi e colpiti dallo stalinismo merita la sua riabilitazione. Certamente la sua visione di centro sinistra (dentro le correnti del Partito bolscevico) non era una linea politica vincente. Si è sempre appoggiato al centro di Stalin o alla sinistra di Trotsky, tuttavia Kamenev era ed è stato un rivoluzionario che non ha accettato il socialismo in un paese solo, non ha accettato l’evoluzione stalinista, seppur all’inizio ne sia stato uno dei maggiori sponsor.

Kamenev ha dedicato la sua vita alla rivoluzione e la rivoluzione non divora i suoi figli come credono i borghesi, se li pappa tutti purtroppo la controrivoluzione. Kamenev è stato tra i primi a morire perché ha pagato oltremisura i suoi errori. Proprio per questo merita il nostro rispetto e il giusto posto nella nostra storia.

Eugenio Gemmo

 

 

 

1 https://it.wikipedia.org/wiki/Lev_Borisovi%C4%8D_Kamenev

2 http://trotskysmo.blogspot.com/search?q=rivoluzione+russa

3  http://trotskysmo.blogspot.com/search?q=zinoviev

4 https://www.psicofaber.it/quanto-ci-facciamo-condizionare-dagli-altri/

5 Broue La Rivoluzione Perduta

6 I Grandi processi di Mosca. Rusconi

7 Gli Uomini di Stalin. S. Montefiore



giovedì 10 giugno 2021

LE ELEZIONI PERU'

 


Contro i partiti borghesi e reazionari che vorrebbero annullare il voto, ma senza la minima illusione nel nuovo Presidente Castillo

TRATTO DAL SITO https://www.pclavoratori.it/
pedrocastillo


Mentre scriviamo è ancora in corso il conteggio dei voti delle elezioni presidenziali in Perù. Il partito reazionario di Fuerza Popular, guidato da Keiko Fujimori, figlia del golpista Alberto, contesta la vittoria di stretta misura di Pedro Castillo, chiede l’annullamento di 200000 voti, mobilita la piazza di Lima contro la “frode comunista”. Soprattutto spera che il conteggio delle schede del voto estero possa ribaltare il risultato. Ma appare improbabile che ciò avvenga.

Probabile è invece che una presidenza Castillo possa trascinare con sé una radicalizzazione dello scontro di classe in Perù. In un quadro latino-americano segnato nell’ultima fase dalla crisi rivoluzionaria in Colombia, dall’ascesa del movimento di massa in Ecuador, dalla ripresa della mobilitazione in Cile.


UN PAESE SACCHEGGIATO DALL’IMPERIALISMO

La vittoria di Pedro Castillo è un portato della grande crisi politica e sociale che il Perù attraversa.

Il paese è stato spogliato dal lungo corso delle politiche liberiste, inaugurato da Alberto Fujimori. Eletto nel ‘90 quale Presidente del Perù, Fujimori attuò un colpo di Stato nel ‘92, sciogliendo il Parlamento, cambiando la Costituzione, concentrando nelle proprie mani tutte le principali leve del potere. Iniziò così la lunga stagione dell’austerità, delle privatizzazioni al servizio degli interessi imperialisti, della precarizzazione selvaggia del lavoro, dei tagli alle pensioni in omaggio al pagamento del debito pubblico peruviano. Fu anche la stagione degli squadroni della morte contro militanti comunisti, attivisti sindacali, capi delle comunità indigene. La sterilizzazione forzata delle popolazioni indigene fu uno degli atti più brutali della dittatura Fujimorista.

Fujimori cadde nel 2000, travolto dagli scandali per corruzione e dalle incriminazioni giudiziarie. Ma la Costituzione da lui varata nel ‘93 è tuttora intatta. Riconosce il diritto all’evasione fiscale dei grandi capitalisti, attraverso il sistema dei “contratti privati” con lo Stato, privilegia gli investimenti privati riservando allo Stato un ruolo puramente sussidiario, prevede una forte limitazioni delle libertà sindacali. Tutti i governi borghesi che si sono alternati in Perù negli ultimi trent’anni hanno custodito gelosamente questa eredità di Fujimori, a tutela della borghesia nazionale e dell’imperialismo, americano ed europeo.

L’economia capitalistica peruviana ha conosciuto tassi di crescita molto alti sino a tempi recenti, con un tasso medio superiore alla media del continente latino-americano (+5,9% nell’ultimo decennio), ma in un quadro di estrema polarizzazione tra ricchezza e povertà. Tra il relativo benessere sociale di un settore rilevante della classe media urbana e l’immiserimento progressivo della popolazione povera delle periferie, delle campagne, delle comunità indigene.

L’irruzione della pandemia e della recessione mondiale ha precipitato la crisi sociale a livelli mai conosciuti. Sei milioni di posti di lavoro distrutti, una popolazione attiva ridotta al 39,5%, precarizzazione totale del lavoro con il completo scardinamento della contrattazione, un divario sempre più abissale tra città e campagna. Mentre il Covid ha falcidiato 186000 persone su una popolazione di 32 milioni di abitanti, con un tasso di mortalità del 10% dei contagiati, il più alto al mondo. Riflesso dell’assenza di un sistema sanitario in molte regioni del paese, in particolare nelle regioni rurali.


DUE BLOCCHI SOCIALI CONTRAPPOSTI

Il crollo della società peruviana ha sospinto nell’ultimo anno una forte instabilità politica, col rapido succedersi di diversi governi, ogni volta travolti dagli scandali, ogni volta oggetto di vaste contestazioni di massa. Ciò in un quadro di progressiva frammentazione della rappresentanza politica borghese, che il primo turno del voto presidenziale ha ben documentato. La borghesia si è divisa tra Keiko Fujimori (14,5%), un partito ultraliberista (10,7%), una formazione di estrema destra (“Porky”, 12,2%). Ciò ha consentito a Pedro Castillo di primeggiare con il 18,1% dei voti.

La polarizzazione del secondo turno tra Fujimori e Castillo ha visto contrapposti due blocchi sociali.

Keiko Fujimori ha raccolto attorno a sé la piccola e media borghesia urbana legata alle professioni liberali, alla piccola impresa, al commercio. Una classe che esercita una egemonia maggioritaria su ampi settori popolari nelle città. Keiko ha ottenuto a Lima ben il 65% dei voti. La sua campagna elettorale è stata di tono maccartista contro il “pericolo comunista” (Castillo). Ma anche smaccatamente populista, nelle migliori tradizioni di famiglia: sino a promettere la redistribuzione sociale dei profitti delle grandi compagnie. Il vero fine di Keiko era quello di vincere per tirar fuori il padre di galera, e con lui i clan affaristici e faccendieri che aveva protetto.

Pedro Castillo ha polarizzato attorno a sé il voto popolare contro Fujimori e la loro dinastia. Ha vinto con larghissimo margine nelle 6 regioni più povere con l’80% dei voti, spopolando nelle campagne e nei centri minerari. Nelle città ha raccolto il voto della maggioranza dei salariati, in particolare nel settore pubblico. La sua vittoria porta il segno della volontà di rottura della classe operaia e della maggioranza della popolazione povera con le politiche dominanti dell’ultimo mezzo secolo. Come tale va salutata positivamente dai marxisti rivoluzionari, che in Perù non a caso hanno dato indicazione di voto per Castillo al secondo turno.

Giustamente però si è trattato di un appoggio elettorale critico, senza nessuna identificazione in Castillo, senza abbellire il suo profilo politico, senza tacere sulla realtà effettiva del suo programma.


IL PROGRAMMA REALE DI CASTILLO

Pedro Castillo è un sindacalista che diresse nel 2017 un importante sciopero degli insegnanti per ottenere aumenti salariali. Uno sciopero che scavalcò la burocrazia sindacale ottenendo l’appoggio dell’opposizione sindacale interna. L’emersione della sua figura come difensore dei lavoratori ha avuto questa origine, sicuramente progressiva. La sua estraneità al circo politico tradizionale gli ha permesso inoltre di intercettare la domanda di cambiamento e di svolta contro “i vecchi politici corrotti” espressa dalle mobilitazioni dell’ultimo anno. La sua provenienza rurale ha familiarizzato l’immagine di protettore delle campagne contro gli affaristi e gli affamatori delle città, rivestendolo dei panni di leader contadino. Il 50,2% è la risultante di tutto questo.

Ma tutto questo non fa di Castillo ciò che non è: un presidente “comunista”. Solo chi confonde la realtà con le finzioni strumentali della propaganda reazionaria può prendere un simile abbaglio.

Il programma sociale originario di Perù Libre di Castillo è un onesto programma antiliberista nel quadro del capitalismo peruviano, fondato su nazionalizzazioni con indennizzo del settore minerario ed energetico. Una versione peruviana della politica di Morales in Bolivia. Il suo programma politico prevede una Assemblea costituente che cambi la Costituzione del ‘93, obiettivo sicuramente democratico. Nulla sul debito estero, nulla sui corpi repressivi dello Stato, nessuna reale riforma agraria. Terreni su cui già il programma iniziale Perù Libre confermava la continuità strutturale della politica borghese peruviana.


IL PASSO DEL GAMBERO DI PERÙ LIBRE

Oltretutto questo programma riformista è stato progressivamente edulcorato da Castillo nel corso della campagna elettorale. L’8 giugno il portavoce economico di Perù Libre, Pedro Francke, ha tranquillizzato la borghesia peruviana e i circoli imperialisti con queste parole:

Rispetteremo la proprietà privata scrupolosamente... Rispetteremo l’autonomia della Banca Nazionale Peruviana e i suoi rapporti con gli investitori... Ripetiamo che non abbiamo previsto nel nostro programma economico statizzazioni, espropri, confische, controllo dei cambi, controllo dei prezzi... Rispetteremo tutti gli impegni di pagamento del debito pubblico peruviano... Vogliamo il dialogo aperto con tutti gli imprenditori onesti, il cui ruolo nella industrializzazione e nello sviluppo del paese è fondamentale”.

Un programma di collaborazione di classe in piena regola. Il classico passo del gambero dei partiti riformisti quando passano dall’opposizione al governo: archiviazione degli stessi propositi riformisti, assunzione pura e semplice delle compatibilità capitaliste.

Peraltro, Castillo non si è mai riferito alla classe lavoratrice. Tutta la sua campagna elettorale si è sviluppata attorno al richiamo del “popolo”, della “gente”, della “patria”, in chiave classicamente populista. Mentre sul terreno dei diritti civili Castillo ha esibito il lato più regressivo e imbarazzante: rifiuto del diritto d’aborto e più ingenerale delle rivendicazioni femministe, rifiuto di ogni riconoscimento dei diritti degli omosessuali, difesa ostentata della famiglia patriarcale. Un omaggio alla cultura diffusa delle sue zone rurali di provenienza, che erano e sono il suo principale bacino elettorale.


LA POSIZIONE DEI MARXISTI RIVOLUZIONARI

Vedremo se Castillo consoliderà la propria vittoria e formerà un proprio governo. Di certo non sarà un governo dei lavoratori, cioè di rottura con l’ordine capitalista e imperialista. I marxisti rivoluzionari peruviani saranno in prima fila nel contrastare i disegni della reazione borghese di contestare e annullare il voto popolare. Ma non daranno un appoggio politico a un governo borghese “di sinistra”. Come non lo diedero i bolscevichi a Kerensky, neppure nel momento in cui era minacciato da Kornilov. Come non l’abbiamo dato a Chavez o a Morales, pur opponendoci alle minacce dell’imperialismo. Come non l’abbiamo dato ai governi Prodi, Tsipras, Sanchez, anche quando erano appoggiati da partiti che si autodefiniscono “comunisti”.

La questione del governo, come la questione della guerra, segna una rigorosa linea di demarcazione tra marxismo rivoluzionario, riformismo, centrismo, in tutta la lunga storia del movimento operaio. La socialdemocrazia prima, lo stalinismo poi (a partire dal VII Congresso dell’Internazionale Comunista del 1935, col varo dei governi di Fronte Popolare) hanno cancellato questa linea di demarcazione inaugurando la lunga stagione dei governi di coalizione con “la borghesia democratica”. Ma questa demarcazione è riproposta ciclicamente nella sua attualità a tutte le latitudini del mondo. Tanto più in un contesto storico segnato dal crollo dell’Unione Sovietica e dalla crisi del capitalismo internazionale.

Recuperare il principio dell’opposizione comunista a tutti i governi della borghesia, non significa porre un segno di equivalenza tra tutti i governi borghesi, ciò che sarebbe ed è una posizione di estremismo settario e infantile. Significa semplicemente difendere una elementare collocazione di classe. Che è la precondizione di una politica rivoluzionaria.

Partito Comunista dei Lavoratori

giovedì 20 maggio 2021

Proposte per una nuova politica del PCL nella fase attuale


Il governo Draghi a più di tre mesi dal suo insediamento non ha ancora sciolto il nodo del Recovery Plan, mentre la popolazione sta soffrendo più che mai la crisi pandemica innescata un anno fa dalla comparsa del Covid e giunta ora a un punto di non ritorno. Draghi sicuramente ha messo bene in chiaro la sua politica, e seppur la genesi è simile a quella del governo Monti, sia i contesti che l’indirizzo politico sono diversi.


Compito arduo si prospetta per Draghi, ovvero quello di avviare una fase di stabilità politica. Il fatto che la crisi pandemica imporrebbe, in questo caso, di far circolare moneta e non misure repressive (austerity) ne sono un’indicazione. Il che non vuol dire che arriveranno soldi al proletariato, a parte le solite briciole assistenziali magari in misura maggiore. Questo è quello che lascia intendere la stampa borghese per invitare tutte le forze sociali, burocrazie sindacali in primis, ad abbracciare calorosamente l’unità nazionale. I soldi arriveranno ancor più copiosamente alla borghesia, rimandando a un secondo tempo, verosimilmente al prossimo governo e quindi alle prossime elezioni, le grane di un debito pubblico che andrà a crescere.

Il governo avrà il sostegno economico, di non poco conto, dello strumento RRF (Recovery and Resilience Facility). Il fatto che l’Europa e la borghesia italiana chiedano un investimento “sano” e che il denaro venga distribuito in modo funzionale al capitale rappresenta il canovaccio in cui si muoverà il Premier Draghi. La possibilità che il futuro economico del paese sarà caratterizzato da misure in deficit in modo maggiore rispetto agli anni passati è più di una semplice probabilità. Insomma si prospetta uno scenario inverso rispetto a quello di Monti, ovvero nessuna immediata politica “lacrime e sangue”, ma una politica del debito con alimentazione di denaro.

«Trattandosi di un governo che farà investimenti e spese, e non austerità», Goldman Sachs ritiene che l’esecutivo Draghi si reggerà «su basi più solide rispetto a quelle di qualsiasi altro governo tecnico che lo ha preceduto nel recente passato».

Naturalmente per fare questo Draghi avrà bisogno di “riforme strutturali di cui l’Italia ha bisogno per facilitare l‘allocazione e l’utilizzo dei fondi europei”, quindi si procederà ancora sulla strada della compressione dei diritti per il mondo del lavoro che saranno sacrificati in nome della crisi per permettere un “miglioramento” del sistema sanitario italiano.

La realtà per il mondo del lavoro e per la povera gente sarà ancora più dura. Questa alleanza trasversale dei partiti non fa che aumentare il peso dei padroni e del grande capitale. Questo governo, in stretta sintonia con la BCE, avrà il compito di far accettare una serie di misure liberali in nome della pandemia, comprimendo i diritti della povera gente. Non avrà un minimo di resistenza da parte delle organizzazioni operaie.

La classe operaia negli ultimi decenni ha subito e vissuto il mercimonio ideologico da parte delle loro rappresentanze politiche e sindacali (PRC, CGIL ecc.) sempre più prone alla politica del compromesso in cambio della sopravvivenza del proprio apparato (che, tra l’altro, non sempre è riuscito). Il fallimento del gruppo dirigente della sinistra ha creato un cortocircuito politico nella propria base di riferimento favorendo l’ascesa, da prospettive diverse, del grillismo (come partito antisistemico) e del salvinismo (lasciando terreno libero al proliferare del populismo becero). Sul versante sindacale, la CGIL invece di chiamare alla lotta il mondo del lavoro contro il massacro operato da Renzi, si è genuflessa ad esso, seppellendo in alcuni casi anche la dignità.

In questo contesto, di fronte a questo governo reazionario, la risposta della sinistra e della sinistra rivoluzionaria deve essere chiara e all’altezza dei compiti, partendo dal rilancio di un ampio fronte delle sinistre politiche, sindacali e di movimento in opposizione al governo Draghi. La politica tradizionale, il vecchio gioco di ruolo del ‘bravo rivoluzionario’, deve essere messo da parte e definitivamente archiviato. Le forme organizzate, di fronte unitario, atte puramente a delimitare e a mettere steccati ideologici devono essere abbandonate e sostituite da un reale fronte unitario che comprenda tutte le forze della sinistra che si oppongono al governo delle Banche.

Ladini e la CGIL di fronte a questo ennesimo salasso di diritti e turbo-liberismo non riescono a prenderne atto e agire di conseguenza (almeno ora), sono accecati dalla voglia di concertazione che nelle forme (zero nella sostanza) Draghi pare concedergli. La sinistra di opposizione a questo governo deve lavorare per uno sciopero generale, va avanzata e proposta un'azione di massa ininterrotta, con l'obiettivo di chiudere nel caveau Draghi e suoi sgherri politici.

Se la Cgil e la burocrazia non seguirà, come altamente probabile, questa politica, la sinistra ha il dovere di andare avanti comunque con chi è della partita. In più si deve far promotrice di una grande assemblea nazionale delle forze di opposizione di classe e stilare una piattaforma di lotta generale che dia una prospettiva alla mobilitazione di massa.

Dandoci come obiettivo quello di tentare di penetrare non solo nei settori di avanguardia ma anche nelle aziende a noi più vicine per poter cercare di risvegliare le coscienze di quei lavoratori e lavoratrici che ancora credono e sperano di salvarsi dal braccio armato della crisi.

È di fondamentale importanza ritornare a presidiare i cancelli delle fabbriche per cercare di rilanciare una delle principali rivendicazione della lotta operaia e cioè la nazionalizzazione delle aziende che licenziano e chiudono sotto il controllo dei lavoratori senza indennizzo ai grandi gruppi del capitale per far capire che il padrone ha bisogno dei lavoratori, ai lavoratori invece il padrone non serve. Tutto questo in un quadro unitario a partire dalla necessità e dalle tante opportunità che può rappresentare, in questo contesto storico-politico, un coordinamento organizzato di forze che si richiamano alla rivoluzione proletaria.


UNIRE I RIVOLUZIONARI UNA NUOVA VIA POLITICA

Il compito storico immediato della classe operaia consiste quindi nello strappare questi apparati dalle mani delle classi dirigenti, nell’infrangerli, nel distruggerli, e nel sostituirli con nuovi organi di potere proletari. Nello stesso tempo, lo stato maggiore rivoluzionario della classe operaia è straordinariamente interessato ad avere i suoi portavoce nelle istituzioni parlamentari della borghesia per facilitare questo compito di distruzione. Ne risulta con estrema chiarezza la differenza radicale fra la tattica del comunista che entra nel parlamento con obiettivi rivoluzionari e la tattica del parlamentare socialista. Questi parte dal presupposto di una relativa stabilità, di una durata indefinita del regime attuale, si pone il compito di ottenere con ogni mezzo delle riforme ed è interessato a che ogni conquista delle masse sia da queste considerata un merito del parlamentarismo socialista (Turati, Longuet, ecc) [1].

Il compito dei leninisti è partecipare, salvo in una situazione rivoluzionaria, alle elezioni borghesi, utilizzando tale tribuna per le rivendicazioni della classe operaia. Su questo punto le organizzazioni rivoluzionari serie non possono esimersi. Chiudersi dietro l’inutilità delle elezioni borghesi da parte dei comunisti spesso cela la propria incapacità nell’incidere nelle dinamiche politiche e/o il proprio settarismo misto ad autoconservazione (da Dungeon of Dragon della politica marxista rivoluzionaria).

Lenin sul tema è stato molto chiaro e il suo metodo, il metodo del bolscevismo, non ammette distorsioni come quando alla V conferenza del PSDR votò con gran parte dei menscevichi sull’uso della tribuna parlamentare (uno delle rarissime volte che Lenin si trovò in accordo con i menscevichi).

«I comunisti, [...] denunciano e rivelano agli operai e alle masse lavoratrici la pura e semplice verità: di fatto, la repubblica democratica, l'Assemblea costituente, il suffragio universale, ecc. sono la dittatura della borghesia, e per emancipare il lavoro dall'oppressione del capitale non c'è altra via che la sostituzione di questa dittatura con la dittatura del proletariato. Solo la dittatura del proletariato può emancipare l'umanità dall'oppressione del capitale, dalla menzogna, dalla falsità, dall'ipocrisia della democrazia borghese, che è la democrazia per i ricchi, e instaurare la democrazia per i poveri, cioè rendere effettivamente accessibili agli operai e ai contadini poveri i benefici della democrazia, che restano oggi (pesino nella repubblica - borghese - più democratica) inaccessibili di fatto alla stragrande maggioranza dei lavoratori» [2].

La lotta sull’utilizzo della tribuna elettorale non è importante solamente come puntualizzazione storica, ma deve essere assimilata anche come metodo.

Trotsky e il movimento trotskista hanno rappresentato e rappresentano il meglio del movimento marxista rivoluzionario, rappresentano il potere dei consigli, l’internazionalismo, la democrazia operaia, testimoniano la resistenza all’oppressione burocratica stalinista.

Non ci si può definire marxisti rivoluzionari senza ricollegarsi al bolscevismo (lotta per il potere dei soviet, dell’internazionalismo contro il tradimento della socialdemocrazia). Allo stesso modo oggi non possiamo definirci veri comunisti se non rivendichiamo il trotskysmo come base per il rilancio della lotta di classe contro i rigurgiti stalinisti, contro la ‘deificazione’ della Korea del Nord ecc...

Riprendere il meglio del marxismo rivoluzionario non è una semplice dichiarazione di intenti ma esige delle responsabilità politiche verso la classe operaia. La ripetizione acritica dello schema “dell’Ottobre”, del programma comunista nella prassi non si coniuga con la difesa degli interessi storici della classe operaia. Alcuni gruppi dirigenti, anche del trotskysmo, nei fatti hanno preso le distanze dal marxismo rivoluzionario, non tanto dal punto di vista formale, ma dal punto di vista sostanziale rifiutando nei fatti l’opposizione allo stalinismo, rifiutando il comunismo e la rivoluzione socialista mondiale e preferendo a questo la chiusura nel proprio recinto fatto di settarismi e idiosincrasie (già sconfitte dalla storia).

Noi, come tendenza CQI del PCL, ci rivolgiamo alla base di queste organizzazioni e gli diciamo: «Compagni federiamoci per dare in Italia una proposta marxista rivoluzionaria, per dare un’alternativa alla classe operaia italiana, per opporci al rossobrunismo stalinsta. È un nostro dovere, una nostra responsabilità»
È un nostro dovere rispondere a questa nuova ondata reazionaria (Governo Draghi) e per farlo dobbiamo cambiare tattica.

Possiamo avere un peso nella lotta di classe, in questo paese, se ci lasciamo dietro le spalle le scelte politiche sbagliate, non più in linea con l’oggi e affrontiamo i prossimi appuntamenti politici in modo serio e non pregiudizievole.

Il “soli contro tutti” (come, di contro, essere la componente di sinistra di un ennesimo “agglomerato riformista”) non premia. Il chiudersi dietro i nostri simboli e le nostre tradizioni tattiche non ci ha aiutato sino ad ora e non crediamo possa farlo in futuro.

Le scelte politiche sino a qui seguite dalle forze che si richiamano al trotskysmo e il loro relativo orientamento tattico di fronte alle elezioni, ha disarmato a vari livelli i propri militanti e li ha lasciati impreparati al fatto compiuto, ha creato in loro false aspettative su risultati (non solo elettorali ma anche di sviluppo) che sistematicamente non ci sono stati. Ora dobbiamo parlare tra noi e insieme costruire un patto federativo sotto un unico simbolo, un coordinamento permanente.

Dobbiamo opporci alle illusioni tipicamente centriste che il partito rivoluzionario possa essere il risultato di un processo storico “inevitabile” e “immutabile”, ove ‘entrismo’ e ‘indipendenza politica’ (fuori dalla logica del fronte rivoluzionario) siano verità assolute e di per sé immutabili.

I marxisti rivoluzionari dovrebbero sapere, e sicuramente sanno, che un intervento corretto all’interno delle dinamiche di classe (a seconda del momento storico) può permettere a noi anche una capitalizzazione in termini di crescita e consenso. Vi è un momento per la presentazione elettorale indipendente, vi è un momento per l’entrismo, vi è un momento, come ora, per raggrupparsi sotto un cartello elettorale e costruire un coordinamento permanente delle forze rivoluzionarie.

Facciamo come in Argentina ove le forze marxiste si sono unite di fronte alle elezioni sotto una unica sigla, senza sciogliersi, in un progetto a lungo periodo e sono riusciti a portare la voce dei marxisti rivoluzionari nel Paese e a stimolare le lotte come è successo per la grande vittoria pro-aborto. Usciamo dai vecchi schemi e mettiamo a disposizione le nostre avanguardie per un progetto fattibile, possibile e chiaro. Se non lo vogliamo fare per noi facciamolo almeno per la classe operaia.


RICOSTRUIRE LA QUARTA INTERNAZIONALE

IL 22 Marzo del 1932 Trotsky scriveva «Se le organizzazioni più importanti della classe operaia tedesca continueranno con la loro attuale politica, credo che la vittoria del fascismo sarà quasi automatica e assicurata, e in un lasso di tempo relativamente breve».

La costruzione della Quarta Internazionale è il baricentro della politica marxista, il baricentro del PCL. La Quarta internazionale è l’unica strada che ha rappresentato e rappresenta per storia, programma e battaglia la possibilità di dotare la classe operaia di una direzione internazionale che guidi al superamento del sistema capitalistico. Oggi più che mai la battaglia per rifondare la Quarta Internazionale significa battersi per costruire una direzione internazionale all’altezza dei compiti; non è più procrastinabile, una vera e propria organizzazione basata sulla discussone, lontana da scorciatoie frazionistiche.

Quando Trotsky, dopo l’avvento del nazismo e la definitiva mutazione dell’internazionale stalinizzata, diede l’impulso per la fondazione della Quarta lo fece non solo per l’incombente esplosione della Seconda Guerra mondiale ma anche e soprattutto perché voleva assicurare l’eredità del bolscevismo attraverso un’avanguardia e un programma.

Trotsky e l’Opposizione di Sinistra [3] diedero vita al “blocco dei quattro” (il Socialistische Arbeiterpartei SAP tedesco e con due partiti olandesi – il Revolutionair Socialistische Partij RSP e l’Onafhankelijke Socialistische Partij OSP) a Parigi il 27-28 agosto del 1933 attorno ad un nuovo progetto politico, la costruzione di una nuova internazionale. Trotsky stesso scrisse il testo “Dichiarazione sulla necessità e sui principi di una nuova Internazionale”. Questa “dichiarazione dei quattro” nasce come una sorta di polo marxista di sinistra con lo scopo di attrarre verso l’Opposizione di Sinistra formazioni centriste come l’Independent Labour Party (ILP) britannico o lo Sveriges Kommunistiska Parti (SKP) svedese. La prospettiva di allargare il “blocco dei quattro” ad altre organizzazioni non andò in porto e se da un lato si denunciava il “fallimento della politica e delle organizzazioni della Seconda e della Terza Internazionale”, dall’altra faceva appello “a ricreare il movimento internazionale della classe operaia e a ricercare l’unità internazionale dei lavoratori su di una base socialista rivoluzionaria”. Queste posizioni sostenute dal SAP e dall’OSP che erano sicuramente il risultato del compromesso, evidenziavano i limiti dei centristi ma permisero a Trotsky di continuare il suo progetto di ricostruzione dell’Internazionale.

Trotsky e l’Opposizione di Sinistra non hanno mai voluto, nei fatti, rilanciare la nuova Internazionale con organizzazioni centriste ma hanno cercato tatticamente di strapparne la base. Volevano, insomma, rovesciare la logica erronea a cui il movimento trotskysta veniva assimilato, ovvero il settarismo.

Trotsky dal novembre del 1938, ovvero due mesi dopo la fondazione della nuova Internazionale, si dedicò alla chiarificazione delle idee della Quarta Internazionale (In difesa del marxismo) [4]. Non lo fece prima. In Trotsky il processo di unificazione dei marxisti rivoluzionari non avvenne tramite una sorta di radiografia politica delle singole organizzazioni, ma tramite la discussione e il programma.

Ora si tratta di ripartire da questo metodo. Cercare di unire il variegato mondo dei trotskysti conseguenti senza analisi chimiche. Insomma pensare oggi che i grantisti siano meglio dei lambertisti, dei morenisti o viceversa non solo non è utile ma ci allontana dall’obiettivo che dovrebbe essere comune, ricostruire la Quarta.

Le formazioni politiche che oggi precludono un processo fusionistico, ad esempio criticando la tattica opinabile dell’entrismo del movimento morenista nei sindacati peronisti, sono semplicemente dei settari senza prospettiva. Nessuno pensa sia stato giusto fare entrismo nel sindacato peronista, così come nessuno dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) pensare che l’assenza quasi totale di centralismo democratico dei lambertisti (e dei suoi addentellati) lo sia, nessuno dovrebbe pensare che sia stato utile l’entrismo strategico di Ted Grant nel Labour Party e infine nessuno dovrebbe sostenere che il menscevismo di Trotsky sia stata una pecca indelebile nella sua fedina politica; di sicuro non lo è stato per Lenin. Questo metodo non ci appartiene. Il distinguo si fa sui programmi e la democrazia.

IL PCL, per parte sua, ha indirizzato e deve continuarlo a fare (raggruppando) i propri sforzi verso la costruzione di un’organizzazione di quadri rivoluzionari educati e orientati alla rifondazione della Quarta Internazionale. Su questa strada si sono commessi naturalmente degli errori (abbiamo appreso - almeno una parte – dall’esperienza del CRQI, ad esempio, che il concetto di democrazia interna non è un aspetto secondario) ma da questa strada non si è mai usciti, fino ad ora, per imboccare scorciatoie che poi si rivelano e si sono sempre rivelate nella storia come dei vicoli ciechi. Anzi l’esperienza ci ha insegnato quanto questo impegno, aperto e senza mascherature strumentali sia intimamente connesso alla lotta di classe, come la costruzione del partito internazionale sia un tutt’uno con la preparazione della rivoluzione comunista. Le forze e i sedimenti ci permettono di entrare in una nuova fase, quella del rilancio dell’Internazionale.

La Rifondazione della Quarta è un lavoro necessario; non può avvenire come semplice sommatoria delle singole organizzazioni ma deve essere il frutto di una sana discussione basata sul centralismo democratico e sull’unità d’intenti, gli “appelli-boutade” alla unificazione di alcune organizzazioni sono poco convincenti e appaiono chiaramente strumentali, e altrettanto poco convincenti sono i tentativi di “inglobare” nella loro internazionale di riferimento altre organizzazioni, internazionali-frazione, che agiscono come se fossero i detentori della verità assoluta.

Crediamo, come Tendenza CQI del PCL, che sia importante ripartire dalla UIT. La UIT non è il fine ma il mezzo, tra le organizzazioni rivoluzionarie è una delle poche (per non dire l’unica) a non autoproclamarsi Quarta Internazionale, è tra le poche a funzionare in modo centralista democratico. La UIT ha saputo leggere bene, inoltre, le dinamiche delle società, le nuove relazioni come l’imperialismo cinese ; ha saputo avanzare parole d’ordine corrette come “il governo dei lavoratori”. Come Unità Internazionale dei Lavoratori Quarta Internazionale (UIT-CI) lavora attivamente e pratica attivamente la lotta di classe internazionale come è nella campagna “No ai brevetti per i vaccini Covid-19”. Vaccini per tutti. Lavora per un piano di emergenza e sostegno dei lavoratori travolti dalla crisi Covid, patrimoniale per i grandi capitali, espropriazione e nazionalizzazione delle multinazionali.
La UIT, al contrario di tutte le altre, qui sta la differenza di non poco conto, è uscita dal metodo di costruzione per gemmazione dal proprio ascendente (morenismo, lambertismo, healysmo, grantismo ecc).


CONCLUSIONE

IL PCL oggi è l’unica alternativa di classe rivoluzionaria in Italia ove si può dibattere, dissentire e proporre. Invitiamo tutte le compagne e i compagni presenti in Italia e “senza patria” a entrare nel PCL e, con noi, rilanciare questo progetto rivoluzionario.

Certo, per fare questo è necessario una chiarificazione politica, una chiarificazione strettamente connessa al programma. L’esperienza ci insegna che in mancanza di una chiara base di principio si costruisce nel vuoto.
Il trotskysmo è stato sempre accusato di “ideologismo” e di assenza di pragmatismo. Ecco, noi diciamo che la realtà è esattamente capovolta, il trotskysmo non ha nulla di ideologico (nel senso di schematico), l’astrattismo lo ha chi pensa che la Korea del Nord o la Cina siano paesi socialisti, chi ha pensato e pensa sotto altre forme che il “bertinottismo” rappresentasse l’innovazione del marxismo rivoluzionario; ecco questi aspetti sono la rimozione della storia e della lotta di classe. Il vero pregiudizio ideologico sta nel rimuovere questo patrimonio di esperienza: magari per promuovere sostegni critici o acritici a governi pentastellati.

Proprio per questo il rilancio dell’opposizione comunista richiede il recupero del trotskysmo come asse politico. Il recupero e l’attualizzazione dei principi programmatici come l’opposizione ai governi borghesi, il rilancio della conquista del potere da parte dei lavoratori, dei soviet, di un programma di transizione che colleghi le lotte immediate ad una prospettiva socialista e dell’internazionalismo. Senza questo metodo si è votati alla sconfitta e al dimenticatoio.


Note

1 - II Congresso I.C. Introduzione di Trotsky: "La nuova epoca e il nuovo parlamentarismo"
2 - Lenin, "Democrazia e Dittatura" (1918)
3 - Opposizione di Sinistra: termine che viene utilizzato dal movimento trotskista dall’aprile 1930 al settembre 1933.
4 - Testo di Trotsky

Portogallo: a 50 anni dalla rivoluzione dei garofani

Riportiamo un articolo pubblicato dalla UIT perché ci sembra un contributo utile per la comprensione storica degli avvenimenti in questione ...