Trotsky e
l'opposizione italiana
Lettera a
degli oppositori russi sull'espulsione dei "tre" compagni italiani
(...)
Anche nel Partito
italiano si sono verificati di recente seri mutamenti. Voi siete già a
conoscenza dell'espulsione dal Partito, sotto l'accusa di solidarizzare con
Trotsky, del compagno Bordiga, che era recentemente tornato dal confino.
I compagni italiani ci
hanno scritto che Bordiga, essendo venuto a conoscenza delle nostre ultime
pubblicazioni, ha fatto una dichiarazione, sembra, in accordo con le nostre
posizioni.
Allo stesso tempo, nel
Partito ufficiale si è verificata una spaccatura, in gestazione ormai da vario
tempo.
Dei membri del
Comitato Centrale, che erano di alcuni dei più importanti settori di lavoro del
Partito, hanno rifiutato di accettare la teoria e la pratica del "terzo
periodo".
Essi sono stati
dichiarati "deviazionisti di destra", ma in realtà non hanno nulla in
comune con Tasca, Brandler e i suoi amici.
Il loro disaccordo sul
"terzo periodo" li ha indotti a riprendere in considerazione tutte le
discussioni e le differenze degli ultimi anni, ed essi hanno dichiarato il loro
pieno accordo con l'Opposizione di sinistra internazionale.
Questo è un
ampliamento delle nostre file di eccezionale valore! (...)
Lettera ai
"tre" [edita in La Lutte de classes, n°23, 1930]
Cari compagni, ho
ricevuto la vostra lettera del 5 maggio.
Vi ringrazio molto per
questo studio del comunismo italiano in generale e delle diverse tendenze che
vi esistono in particolare.
Mi era molto
necessario e mi è stato di grande utilità. Sarebbe ingiusto dare al lavoro,
così profondo, il valore d'una semplice lettera.
Con qualche modifica o
qualche piccolo ritaglio, questa lettera potrebbe senz'altro trovare posto
nelle colonne de La Lutte de classes.
Se me lo consentite,
comincerò con una conclusione politica generale: io penso che nel futuro la
nostra collaborazione reciproca sarà perfettamente possibile ed anche
estremamente augurabile.
Nessuno di noi
possiede o può possedere delle formule politiche prestabilite, che possono
servire in ogni occasione della vita.
Ma credo che il metodo
con il quale voi cercate di determinare le formule politiche necessarie, è
quello corretto.
Mi domandate che cosa
penso di tutta una serie di gravi problemi. Ma prima di cercare di rispondere a
qualcuno di essi, devo esprimere una riserva molto importante.
Io non ho mai
conosciuto da vicino la vita politica italiana perché non sono stato in Italia
che pochissimo tempo, leggo assai scorrettamente l'italiano e durante il
periodo che sono stato all'Internazionale Comunista non ho avuto l'occasione di
penetrare più in profondità nell'esame degli affari italiani.
Del resto voi già
sapete questo fatto, perché altrimenti come spiegare che avete intrapreso un
lavoro così dettagliato per mettermi al corrente delle questioni italiane?
Ancora una volta vi
esprimo la mia riconoscenza.
Risulta da ciò che
precede che le mie risposte nella maggior parte dei casi devono avere un valore
assolutamente ipotetico.
In nessun caso
considero le riflessioni che seguono come definitive, è possibile e perfino
probabile che esaminando questo o quel problema io perda di vista alcune
circostanze concrete di luogo e di tempo moto importanti.
Aspetterò dunque le
vostre obiezioni, delucidazioni supplementari e correttive. Poiché, come spero,
il nostro metodo è identico, arriveremo alla soluzione giusta.
Voi mi ricordate che
ho criticato a suo temo la formula "Assemblea repubblicana sulla base dei
Comitati operai e contadini", formula lanciata a suo tempo dal Partito
comunista italiano.
Voi mi dite che questa
formula non aveva avuto che un valore del tutto episodico e che attualmente è
stata abbandonata.
Voglio tuttavia dirvi
perché reputo questa formula come sbagliata o almeno equivoca in quanto formula
politica. L'"Assemblea repubblicana" costituisce innegabilmente un
organismo dello Stato borghese.
Che cosa sono invece i
"Comitati operai e contadini"? è evidente che in qualche modo sono un
equivalente dei Soviet operai e contadini.
Allora bisogna dirlo.
In quanto organismi di
classe delle masse povere operaie e contadine -sia che voi li chiamate Soviet o
Comitati- costituiscono sempre delle organizzazioni di lotta contro lo Stato
borghese per diventare poi organismi insurrezionali e trasformarli, infine,
dopo la vittoria, in organismi di dittatura proletaria.
Come è possibile in
queste condizioni, che un'Assemblea repubblicana -organo supremo dello Stato
borghese- abbia come base degli organismi di Stato proletario? Tengo a
precisare che nel 1917, prima di ottobre, Zinov'ev e Kamenev, quando entrambi
si proclamavano contrari ad un'insurrezione, erano del parere di attendere che
l'Assemblea Costituente si fosse riunita per cercare uno "stato
combinato" mediante la fusione dell'Assemblea Costituente con i Soviet
operai e contadini. Nel '19 vedemmo Hilferding proporre di iscrivere i Soviet
nella Costituzione di Weimar.
Come Zinov'ev e
Kamenev, Hilferding chiamava tale operazione lo "stato combinato".
Nella sua qualità di nuovo tipo piccolo-borghese, egli doveva, nel momento
stesso della più brusca svolta storica, "combinare" un nuovo tipo di
Stato sposando, sotto il segno costituzionale, la dittatura della borghesia
alla ditta del proletariato. La formula italiana esposta più sopra mi pare sia
una variante di questa tendenza piccolo-borghese.
A meno ch'io l'abbia
mal compresa.
In tal caso, però,
essa porta in sé il difetto incontestabile di prestare il fianco ad equivoci
pericolosi.
Approfitto di questa
occasione per correggere un errore veramente imperdonabile commesso dagli
epigoni nel 1924; essi avevano trovato in Lenin un passaggio in cui è detto che
noi saremmo stati forse portati a combinare l'Assemblea Costituente con i
Soviet.
Un passaggio del
genere può essere scoperto ugualmente nei miei scritti.
Ma di che esattamente
si trattava?
Noi ponevamo la
questione di un'insurrezione che avrebbe trasmesso il potere al proletariato
sotto forma dei Soviet.
Alla domanda circa
quello che avremmo fatto in questo caso dell'Assemblea Costituente,
rispondevamo: "Si vedrà: forse la combineremo con i Soviet";
sottolineando naturalmente l'eventualità in cui l'Assemblea Costituente,
convocata sotto il regime dei Soviet, avesse dato una maggioranza sovietica.
Poiché così non fu, i
Soviet cacciarono l'Assemblea Costituente.
In altri termini: la
questione che ci eravamo posta era quella di sapere se fosse stato possibile di
trasformare l'Assemblea Costituente e i Soviet in organismi di una sola e
stessa classe, ma niente affatto di "combinare" un'Assemblea
Costituente borghese con i Soviet proletari.
Nell'un caso (secondo
Lenin) il problema era la formazione di uno Stato proletario, la sua struttura,
la sua tecnica. Nell'altro (secondo Zinov'ev, Kamenev e Hilferding) si trattava
di una combinazione costituzionale di due Stati di classi nemiche nell'intento
di evitare una insurrezione proletaria che avrebbe preso il potere.
La questione che
stiamo per esaminare è intimamente legata a un'altra che voi analizzate nella
vostra lettera: quale carattere sociale assumerà la rivoluzione antifascista.
Voi negate la
possibilità in Italia di una rivoluzione borghese. In questo avete
perfettamente ragione.
La storia non può
tornare indietro di tutta una serie di pagine ciascuna delle quali vale un
periodo di anni.
Il Comitato centrale
del Partito comunista italiano aveva già tentato in precedenza di eludere la
questione proclamando che la rivoluzione non sarà né borghese né proletaria, ma
"popolare".
Si tratta d'una
semplice ripetizione di quello che dicevano i populisti russi all'inizio di
questo secolo quando si domandava loro quale carattere avrebbe avuto la
rivoluzione contro lo zarismo.
Ed è ancora questa
stessa risposta che dà attualmente l'Internazionale Comunista per quanto
riguarda la Cina e l'India.
Si tratta
semplicemente di una variante sedicente rivoluzionaria della teoria
socialdemocratica di Otto Bauer e di altri e secondo la quale lo Stato può
elevarsi al di sopra delle classi, vale a dire può non essere né borghese né
proletario.
Questa teoria
è nefasta tanto per il proletariato quanto per la rivoluzione.
In Cina essa ha
trasformato il proletariato in carne da cannone per la controrivoluzione
borghese.
Ogni grande
rivoluzione si trova ad essere popolare nel senso ch'essa trascina nel suo
solco il popolo tutt'intero.
E la grande
Rivoluzione francese e la Rivoluzione d'Ottobre furono assolutamente popolari.
Ciononostante la prima
era borghese perché istituiva la proprietà privata.
Soltanto qualche
rivoluzionario piccolo-borghese, disperatamente arretrato, può ancora sperare di
una rivoluzione che non sia né borghese né proletaria, ma "popolare"
(vale a dire piccolo-borghese).
Ora, in periodo
imperialista, la piccola borghesia è non soltanto incapace di dirigere una
rivoluzione, ma perfino di prendervi una parte determinata. Di modo che la
formula d'una "dittatura democratica del proletariato e dei
contadini" costituisce ormai una semplice copertura d'una rivoluzione di
transizione e d'uno Stato di transizione, vale a dire di una rivoluzione e di
uno Stato tali che non possono essere realizzati non solo in Italia ma neanche
nell'India arretrata.
Una rivoluzione che
non abbia preso una posizione netta e chiara sulla questione della dittatura
democratica proletaria e contadina, è destinata a sbandare di errore in errore.
Per quanto
concerne il problema della rivoluzione antifascista, la questione italiana è
più di ogni altra intimamente legata ai problemi fondamentali del comunismo
mondiale, vale a dire alla teoria della rivoluzione permanente.
A ciò che precede fa
seguito la questione del periodo di "transizione" in Italia.
Innanzitutto
bisogna stabilire con chiarezza: di transizione da che cosa a che cosa?
Periodo di
transizione dalla rivoluzione borghese (o "popolare") alla
rivoluzione proletaria, è una cosa. Periodo di transizione dalla dittatura
fascista alla dittatura proletaria, è un'altra cosa.
Se si pensa alla prima
concezione, la questione della rivoluzione borghese si pone in primo luogo e si
tratta allora di inserirvi il ruolo del proletariato, dopodiché soltanto si
porrà la questione del periodo di transizione verso una rivoluzione proletaria.
Se si pensa alla
seconda concezione viene allora ad essere posta la questione di una serie di
battaglie, sconvolgimenti, rovesciamenti di situazioni, brusche svolte, che
costituiscono nell'insieme le diverse tappe della rivoluzione proletaria.
Queste tappe potranno
essere numerose.
Ma esse non possono in
alcun modo contenere nel loro seno una rivoluzione borghese o il suo feto
misterioso: la rivoluzione "popolare".
Ciò vuol dire che
l'Italia non può per un certo periodo di tempo tornare ad essere uno Stato
parlamentare o diventare una "Repubblica democratica"?
Ritengo -in perfetto
accordo con voi, penso- che questa eventualità non è esclusa.
Ma allora
essa non risulterà come un frutto d'una rivoluzione borghese, ma come un aborto
d'una rivoluzione proletaria insufficientemente matura o prematura.
Nel corso d'una crisi
rivoluzionaria profonda e di combattimenti di massa nel corso dei quali
l'avanguardia proletaria non fosse all'altezza di prendere il potere, accadrà
che la borghesia ristabilisca il suo potere su basi "democratiche".
Si può dire, ad
esempio, che l'attuale Repubblica tedesca costituisca una conquista della
rivoluzione borghese?
Una tale affermazione
sarebbe assurda.
Ci fu in Germania nel
1918-19 una rivoluzione proletaria che, privata di direzione, fu ingannata,
tradita e schiacciata.
Ma la
controrivoluzione borghese si vide costretta ad adattarsi alle circostanze
risultanti da questa sconfitta della rivoluzione proletaria, e da ciò nacque
una Repubblica parlamentare "democratica". La stessa eventualità -più
o meno- è esclusa per l'Italia? No, non è esclusa.
La vittoria
del fascismo fu il risultato della nostra sconfitta nella rivoluzione
proletaria del 1920.
Soltanto una
nuova rivoluzione proletaria può rovesciare il fascismo.
Se anche questa volta
essa non fosse destinata a trionfare (debolezza del Partito comunista, manovre
e tradimento dei socialdemocratici, dei massoni, dei cattolici) lo Stato di
transizione che la controrivoluzione borghese si vedrà allora costretta a
stabilire sulle rovine del suo potere sotto forma fascista, non potrà essere
altro che uno Stato parlamentare e democratico.
Perché, qual è in
definitiva lo scopo della Concentrazione antifascista? Prevedendo la caduta
dello Stato fascista per una sollevazione del proletariato e, in generale, di
tutte le masse oppresse, la Concentrazione si appresta a fermare questo
movimento, a paralizzarlo e a privarlo della sua vittoria per far passare la
vittoria della controrivoluzione rinnovata per una sedicente vittoria d'una
rivoluzione borghese democratica.
Se si perde, anche per
un solo istante, di vista questa dialettica delle forze sociali viventi, si
rischia di imbrogliarsi irrimediabilmente e di uscire dalla strada maestra.
Credo che non può
esserci alcuna malinteso tra noi su questo punto.
Ma ciò significa che noi,
comunisti, respingiamo a priori ogni obiettivo democratico, ogni parola
d'ordine di transizione o di preparazione, fermandoci rigorosamente alla sola
dittatura proletaria? Sarebbe dar prova di un vano settarismo dottrinario.
Non crediamo neanche
per un istante che un semplice salto rivoluzionario sia sufficiente a saldare
ciò che separa il regime della dittatura proletaria.
Non neghiamo affatto
la fase di transizione con le sue esigenze transitorie, ivi comprese le
esigenze della democrazia.
Ma è precisamente con
l'aiuto di queste parole d'ordine di transizione dalle quali scaturisce sempre
la via della dittatura del proletariato, che l'avanguardia comunista dovrà
conquistare la classe operaia tutta intera e che questa ultima dovrà unificare
attorno a sé la classe sfruttate della nazione.
E qui non escludo
neanche l'eventualità di una Assemblea Costituente che in certe circostanze
potrebbe essere imposta dagli avvenimenti, o, più precisamente, dal processo di
risveglio rivoluzionario delle masse oppresse.
Certamente,
su scala storica e per tutto un periodo, i destini dell'Italia si ridurranno
incontestabilmente alla seguente alternativa: fascismo o comunismo.
Ma pretendere
che la nozione di questa alternativa è penetrata fin a ora nella coscienza
delle classi sfruttate del popolo, sarebbe una pura fantasia e vorrebbe dire
che si considera come già risolto il problema più gigantesco la cui soluzione,
invece, resta tutta di fronte a un partito comunista ancora debole.
Se la crisi
rivoluzionaria dovesse scoppiare, per esempio, nel corso dei prossimi mesi
(sotto la spinta della crisi economica da una parte, e sotto l'influenza
rivoluzionaria venuta dalla Spagna), le grandi masse lavoratrici sia operaie
che contadine farebbero certamente seguire le loro rivendicazioni economiche da
parole d'ordine democratiche (quali la libertà di stampa, di coalizione
sindacale, di rappresentanza democratica al Parlamento e nei Comuni).
Ciò significa
che il Partito comunista dovrà respingere queste richieste? Al contrario.
Dovrà
imprimere loro l'aspetto più audace e più categorico che sia possibile.
Perché non si può
imporre la dittatura del proletariato alle masse popolari. Non si può
realizzarla che conducendo la battaglia -la battaglia a fondo -per tutte le
rivendicazioni, le esigenze e i bisogni transitori delle masse, e alla testa di
queste masse.
Bisogna poi
ricordare che il bolscevismo non è affatto arrivato al potere con l'aiuto
dell'astratto obiettivo della dittatura proletaria.
Noi abbiamo combattuto
per l'Assemblea Costituente ben più arditamente di tutti gli altri partiti.
Dicevamo ai contadini:
"Voi rivendicate la divisione in parti uguali della terra? Il
nostro programma agrario va molto al di là. Ma nessuno all'infuori di noi vi
aiuterà, contadini, a realizzare il godimento egualitario della terra. è per
questo motivo che dovete sostenere gli operai".
Per quanto concerneva
la guerra dicevamo ancora ai contadini:
"L'obiettivo
dei comunisti è la guerra a tutti gli sfruttatori. Ma voi non siete maturi per
vedere così lontano. Voi avete fretta di sottrarvi alla guerra imperialista.
Nessuno all'infuori di noi, bolscevichi, vi aiuterà ad arrivarci".
Non affronto qui la
questione di quali devono essere le parole d'ordine centrali del periodo di
transizione in Italia in questo anno 1930.
Per determinarle e per
stabilirne l'opportuna successione bisognerebbe conoscere molto meglio di me la
vita interna dell'Italia e stare molto più vicino alle masse lavoratrici.
E qui, oltre a un
metodo corretto, bisogna possedere l'arte di saper comprendere le masse.
Voglio dunque indicare
qui soltanto i tratti comuni alle rivendicazioni transitorie nella lotta del
comunismo contro il fascismo e contro la società borghese in generale.
Ciononostante, pur
aderendo a questa o a quella parola d'ordine democratica, dobbiamo avere molta
cura di lottare senza tregua contro tutte le forme di ciarlatanismo
democratico.
La
"Repubblica democratica dei lavoratori", obiettivo della
socialdemocrazia italiana, è una perla di questo ciarlatanismo di bassa lega.
Una Repubblica
democratica non è che una forma mascherata di Stato borghese.
L'alleanza dell'una
con l'altro non è che un'illusione piccolo borghese delle masse
socialdemocratiche alla base (operai, contadini), e una impudente menzogna dei
socialdemocratici al vertice (di tutti questi Turati, Modigliani e via
dicendo).
E a questo
proposito, lo ripeto ancora, se mi sono opposto e mi oppongo ancora alla
formula della "Assemblea nazionale sulla base dei comitati operai e
contadini", è precisamente perché questa formula si avvicina troppo alla
parola d'ordine della "Repubblica democratica dei lavoratori" dei
socialdemocratici e potrebbe nuocerci moltissimo nella lotta contro la socialdemocrazia.
L'affermazione fatta
dalla direzione ufficiale che la socialdemocrazia in Italia non esisterebbe più
, non è che una consolante teoria di burocrati ottimisti che vogliono vedere le
conquiste avvenute laddove, invece, ci sono difficili obiettivi da conseguire.
Il fascismo
non ha liquidato la socialdemocrazia, ma, al contrario, l'ha conservata.
Essa non porta agli
occhi delle masse la responsabilità del regime di cui essa stessa è
parzialmente caduta vittima. è così ch'essa conquista nuove simpatie e conserva
quelle vecchie.
E arriverà il momento
in cui la socialdemocrazia farà tesoro dl sangue di Matteotti così come la Roma
antica fece del sangue di Cristo.
E non resta dunque
escluso che nei primi tempi della crisi rivoluzionaria la direzione si trovi ad
essere principalmente concentrata nelle mani della socialdemocrazia.
Se masse considerevoli
saranno trascinate nel movimento, e se il Partito comunista resterà sulla via
maestra, potrà accadere che la socialdemocrazia in breve tempo sia annullata.
Ma questo sarà un
obiettivo da raggiungere e non una conquista già realizzata.
Non serve a
nulla saltare il problema: bisogna saperlo risolvere.
Qui voglio ricordare
che Zinov'ev, e dopo di lui Manuilsky e i vari Kuusinen, avevano già chiarito a
due o tre riprese che anche la socialdemocrazia tedesca di fatto non esisteva
più.
Nel 1925
l'Internazionale Comunista, nella sua dichiarazione scritta per mano di
Losowsky al partito francese, aveva egualmente decretato che il Partito
socialdemocratico francese aveva definitivamente abbandonato la scena.
L'Opposizione di
sinistra ha sempre energicamente protestato contro questa leggerezza di
giudizio.
Soltanto dei poveri
sciocchi e dei traditori possono voler far credere all'avanguardia proletaria
d'Italia che la socialdemocrazia italiana non potrà più giocare il ruolo che
aveva avuto la socialdemocrazia tedesca nei riguardi della rivoluzione del
1918.
Ma si può affermare
che la socialdemocrazia non riuscirà ancora una volta a tradire e a portare il
proletariato italiano al fallimento come essa fece già una volta nel 1920.
Sono ormai
finite queste illusioni ingannatrici e questi errori!
Troppe volte
nel corso della sua storia il proletariato si vide ingannato innanzitutto dal
liberalismo, poi dalla socialdemocrazia.
Inoltre non si può
perdere di vista che dal 1920 sono passati dieci anni pieni, e otto anni dopo
l'avvento del fascismo.
I ragazzi che avevano
10-12 anni nel '20-'22 e che hanno visto in questi anni che cosa è l'opera del
fascismo, costituiscono ora la nuova generazione operaia e contadina che
lotterà eroicamente contro il fascismo, ma che però mancherà di esperienza
politica.
I comunisti non
verranno in contatto con le vere masse che durane la rivoluzione stessa, e, nel
migliore dei casi, avranno bisogno di molti mesi per arrivare a demolire e a
rovesciare la socialdemocrazia che il fascismo -ripeto- non ha affatto
liquidato, ma, al contrario, conservato.
Non dirò di più
per oggi.
Ho appena ricevuto la
ricca documentazione che mi avete inviato e di cui non ho ancora preso completa
conoscenza.
Tutto ciò che precede
non è basato che su quanto è detto nella vostra lettera.
Come convenuto, mi
riservo il diritto di apportare correzioni al seguito della mia esposizione.
Per finire, qualche
parola concernente una importante questione sulla quale non possono esserci,
tra noi, due pareri diversi.
I comunisti di
sinistra devono e possono deliberatamente dare le loro dimissioni dai posti
ch'essi occupano nel partito, e dal partito stesso? Non ci possono essere
dubbi.
Tranne qualche
rarissima eccezione -e che furono errori- nessuno di noi l'ha mai fatto.
Ma io non comprendo
bene in quale misura e con quale mezzi i compagni italiani possono conservare
il tale o il tal altro posto in seno al partito nelle attuali circostanze.
Non posso dire nulla
di concreto a questo proposito, se non che nessuno di noi saprebbe ammettere
che ci si possa accodare in una posizione politica falsa o equivoca agli occhi
del partito o delle masse, allo scopo di evitare l'espulsione.
Vi stringo la mano,
vostro Leone Trotsky
giovedì 10 febbraio 2011
martedì 7 dicembre 2010
A SETTANTANNI DALL' ASSASSINIO DI LEON TROTSKY
A settanta
anni dall’assassinio di Leone Trotsky
Il 21 agosto 1940 moriva il grande rivoluzionario, compagno di Lenin nell’ “assalto al cielo”
del 1917 in Russia, fondatore dell’Armata Rossa e della Quarta internazionale; vittima di un sicario del “più grande assassino di comunisti della storia”, Giuseppe Stalin.
Riproduciamo qui di seguito l’intervento che ha svolto il compagno Franco Grisolia all’iniziativa in ricordo di Trotsky svoltasi a Carrara il 6 agosto Settanta anni fa, il 20 agosto del 1940, l’agente stalinista Ramon Mercader, infiltratosi con l’inganno nella casa messicana di Trosky, colpiva a morte il grande rivoluzionario, il compagno di Lenin nella direzione della rivoluzione russa, il fondatore dell’Armata Rossa, il dirigente della Internazionale comunista alle sue origini, il principale teorico e leader della neonata IV Internazionale.
Trotsky sarebbe spirato il giorno dopo.
Pochi mesi prima le truppe tedesche avevano travolto la Francia, l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo, portando anche qui ad un dominio fascista ormai quasi generale in tutta l’Europa continentale; con l’eccezione dell’URSS, dominata da una burocrazia stalinista che aveva realizzato un’alleanza di fatto con la Germania nazista attraverso il patto Hitler-Stalin, che aveva dato il via libera alla guerra.
Questo dopo aver massacrato nelle “purghe” degli ultimi anni ’30 intere generazioni di dirigenti e militanti comunisti, in URSS (ma anche in altri paesi si pensi alla Spagna della guerra civile contro il franchismo), di tutte le nazionalità dello stato sovietico o rifugiati nel “paese del socialismo”.
Era veramente, come si è detto, “la mezzanotte del secolo”. L’assassinio di Trotsky, come si è sempre saputo e come è ormai conosciuto anche nei dettagli, era stato deciso direttamente da Stalin ed organizzato con la supervisione del suo fido compare Beria.
Giocava naturalmente in questa scelta l’odio del dittatore rinnegato contro il suo grande avversario, ma c’era qualcosa di più.
Era la paura del ruolo che Leone Trotsky avrebbe potuto giocare, alla testa della IV Internazionale, sul piano internazionale e, in particolare, in riferimento all’URSS.
Perché infatti, nonostante il massacro dei militanti comunisti (anche quelli che non si erano schierati con Trotsky e con gli altri oppositori negli anni ’20 o nei primi anni ’30) la burocrazia stalinista, e Stalin al suo vertice, temeva la possibilità che,malgrado tutto, nel quadro della nuova situazione mondiale, Trotsky potesse rappresentare il punto di riferimento per una ribellione contro il suo dominio totalitario.
Pochi mesi dopo l’assassinio di Trotsky, Molotov e Ribbentrop, che erano stati i firmatari materiali del Patto di fine agosto ’39 (che permise tra l’altro la suddivisione fraterna tra stalinismo e nazismo della Polonia con incontri, abbracci e scambi tra i due eserciti sulla frontiera determinata dagli accordi), si incontrarono a Berlino per delimitare un’ipotesi di zone d’influenza ulteriori nell’Est Europa.
Non trovarono l’accordo e fu uno degli elementi (non l’unico, perché solo un cieco, come Stalin, poteva non vedere che la spinta del nazismo era in ogni modo, presto o tardi, alla guerra contro l’Unione Sovietica) che determinarono le decisioni temporali dell’attacco nazista, che avvenne nel giugno 1941.
Molotov e Ribbentropp non riuscirono a trovarsi d’accordo su questioni come il petrolio della Romania o cose del genere.
Questo basta a delineare la natura politica e morale della burocrazia stalinista. In riferimento a questo, spesso i difensori (anche quelli “critici”) della storia del movimento operaio quale è stata scritta dalla sua “maggioranza”, ci parlano del “fine che giustifica i mezzi” e affermano che, del resto, questo è un principio del leninismo, del comunismo: se il fine è buono si può fare ogni cosa.
Trotsky aveva risposto preventivamente a queste affermazioni in un libro, che oggi viene criticato come amorale da tanti benpensanti piccolo-borghesi compresi dei revisionisti del trotskismo, e che fu ripubblicata nel nostro paese alcuni anni fa con la prefazione di Marco Ferrando .
Si tratta di La loro morale e la nostra.
Io credo che sia importante citare quanto afferma Trotsky, perché esprime un concetto di metodo che valse per lui e credo debba sempre valere per i rivoluzionari tutti, in termini di morale e in termini di azione politica.
Dice dunque Trotsky ne La loro morale e la nostra
“Il materialismo dialettico non tiene separato il fine dai mezzi, il fine viene dedotto, in tutta naturalezza, dal divenire storico, i mezzi sono organicamente subordinati ai fini. Il fine immediato diventa il mezzo del fine ulteriore[…]"
Ferdinand Lassalle fa dire, nel dramma Franz von Sickinger, a uno dei personaggi:
“Non mostrare solo la meta, mostra altresì il cammino/ giacchè la meta e il cammino sono talmente uniti/ che l’uno cambia con l’altro e si muove con lui/ e che un nuovo cammino rivela un’altra meta”.
Questo concetto, che poi si traduce nella formula della “interdipendenza dialettica del fine e dei mezzi”, è un concetto fondamentale di politica e di etica rivoluzionaria.
Non l’ipocrisia è buona per il nostro fine, ma dal nostro fine devono essere determinate le vie che politicamente noi scegliamo per la nostra battaglia politica.
Chi distingue queste due cose, oppure parla di un fine lontano e dice
“Però oggi quella via dritta non è possibile, bisogna prendere un’altra strada, poi un giorno ci torneremo”, in realtà dimostra non di volere quel fine ma, indicando un’altra via, di essere su un altro terreno.
Diversi si richiamano al comunismo o al socialismo, ma, nei fatti, con il cammino che intraprendono giorno per giorno, dimostrano che il loro fine non è quello che affermato.
Del resto prima del testo di Trotsky, e contemporaneamente a lui, a Lenin e ad altri (uniti prima del 1914 in una battaglia internazionale nella II° Internazionale) lo scriveva Rosa Luxemburg, affermando che, rispetto al gradualismo pacifista dei riformisti della socialdemocrazia, non c’era solo una differenza di metodo, c’era anche una differenza di fine; e che, negando il problema della rivoluzione e della violenza rivoluzionaria di massa, i riformisti negavano non un metodo, sostituendolo con un altro più o meno valido, ma che negavano in realtà, e sempre di più, il suo fine, cioè il socialismo.
Ritornando al momento storico dell’uccisione di Trotsky si videro le conseguenze di questo “fine che giustifica i mezzi” da parte dello stalinismo con l’aggressione hitleriana nel giugno del ’41; con le truppe naziste che arrivarono a meno di 100 km da Mosca; con un esercito impreparato a causa dei massacri del gruppo dirigente, con l’eliminazione del geniale maresciallo Tukacevsky e della grande maggioranza dei comandanti dell’esercito.
Colpevoli in molti, ma non tutti, di aver magari votato con Trotsky nel lontano 1923.
Ciò che costituiva un pericolo, perché potevano pensare che, in definitiva, il loro ruolo avrebbe dovuto essere, a un certo punto, quello di liberare dal dominio totalitario di Stalin e della burocrazia l’Unione Sovietica.
Come livello aneddotico ma significativo: dagli ormai aperti archivi sovietici si vede quanto può la stupidità burocratica.
Nelle prime ore dell’attacco all’Unione Sovietica i generali del comando in capo di Stalin continuavano, su suo ordine, a ordinare alle truppe sovietiche di non reagire perché avrebbe potuto trattarsi di una provocazione dei militari tedeschi contro Hitler per… spingerlo alla guerra contro l’Unione Sovietica.
Questo oggi è chiaro, documentato, e dimostra l’ironia tragica per cui è passato alla storia come grande vincitore del nazismo (sulla base di decine di milioni di morti sacrificati per la difesa dell’Unione Sovietica) il “grande leader” che preparò le condizioni per una quasi vittoria del nazismo; che solo la grande forza del popolo russo, dei lavoratori, dei combattenti, cioè di chi ancora restava legato alla sua patria socialista e alle sue conquiste, permise di bloccare.
Trotsky - a differenza di tutti i burocrati, i carrieristi, i frazionisti ,nel senso vero, di tutte le specie- fu, tutta la sua vita, conseguente con una frase contenuta nella sua autobiografia (del 1929) La mia vita.
Credo che sia molto bella e che dia il senso dell’impegno che dev’essere proprio di tutti i marxisti rivoluzionari.
Essa dice: “Mi sono abituato a non considerare la prospettiva storica dal punto di vista del mio destino personale. Comprendere la sequenza causale degli avvenimenti e trovare il proprio posto in questa sequenza è il primo dovere di un rivoluzionario e contemporaneamente è la massima soddisfazione possibile per un uomo che non limiti i propri compiti alle esigenze quotidiane”.
Questo è il senso della soddisfazione della vita che si sceglie con la militanza rivoluzionaria.
Trotsky espresse nella propria scelta di vita il riferimento a una volontà cosciente di non subire la storia, ma di intervenire in essa,da ateo materialista, realizzando appieno le proprie potenzialità di essere umano.
Credo che questa sia la lezione grande, drammatica, bella, della vita di Trotsky. Ciò a partire dalla sua gioventù rivoluzionaria, che lo portò rapidamente a conoscere il carcere.
Perché ha 19 anni, nel 1898, quando viene scoperto dalla polizia il piccolo gruppo clandestino, prima socialista rivoluzionario“populista” poi marxista, in cui milita.
Quindi appunto il carcere, la Siberia, la fuga dalla Siberia, la grande arena del socialismo internazionale, fin dall’inizio, com’era per tutti i militanti socialisti allora.
Può essere interessante, scevri da ogni nazionalismo sia ben chiaro, ricordare che Trotsky ci dice che l’autore che lo spinse dal “populismo” (nome che aveva in Russia il movimento variegato di socialisti rivoluzionari che volevano “andare verso il popolo”, in particolare i contadini) al marxismo fu il filosofo marxista italiano Antonio Labriola.
Quindi lo studio della dialettica, la acquisizione del materialismo dialettico come elemento centrale della comprensione del mondo, della natura, dell’azione politica.
E ha un certo significato, credo, che l’inizio della vita politica di Trotsky sia un po’ incerto, perché inizia col populismo.
Ciò che succede per molti, in termini odierni, col movimentismo, anche se non è esattamente la stessa cosa; poi c’è la comprensione che la politica rivoluzionaria è altra cosa, non è semplicemente dire no e cercare di partecipare a un movimento, o, parlando di allora, “andare verso il popolo”, o, come per esempio i giovani di Lotta Continua 40 anni fa “andare verso i proletari”; ma è costruire un’analisi scientificamente corretta della realtà e dello scontro sociale e politico, individuando su questa base un programma una strategia ferma ed una tattica flessibile, ma sempre derivante da programma e strategia.
Per Trotsky questo salto di qualità parte dalla comprensione del materialismo dialettico, e non casualmente la sua vita si chiude politicamente con una battaglia sul materialismo dialettico, a partire da un problema concreto: la difesa dell’Unione Sovietica.
Rispetto a quei
settori della IV Internazionale che di fronte alle mostruosità del patto
Hitler-Stalin, , volevano abbandonare il riferimento alla difesa delle Unione
Sovietica, la polemica di Trotsky fu incentrata proprio sulla difesa del
materialismo dialettico, della comprensione dialettica della natura delle
situazioni e dei compiti dei rivoluzionari, rivendicando la difesa dello stato
operaio, nonostante la sua degenerazione, non per Stalin, ma malgrado e contro
di lui, mantendo indipendenza e contrapposizione politica (si veda la raccolta
di testi intitolata “In difesa del marxismo” ).
In questo senso in tutta la sua vita Trotsky è stato, come costruttore del movimento marxista rivoluzionario, e quindi non come “filosofo”,, un elaboratore e difensore del metodo materialistico dialettico che lo aveva spinto a fare da giovane, a 18 anni, il salto dal populismo al marxismo rivoluzionario.
I passaggi successivi della sua vita videro, nei primi anni del ‘900, la lotta contro l’economicismo, cioè quella parte della socialdemocrazia (nome che, come è noto, avevano allora i comunisti) che pensava giusto concentrarsi sulle pure rivendicazioni operaie, disdegnando le battaglie politiche generali.
Battaglia che svolge accanto a Lenin (che la espresse magistralmente nel suo “Che Fare?”). E poi,nel 1903, - dopo essere stato definito per un periodo, come ricorda lui stesso ne La mia vita, il “martello di Lenin” per la forza che metteva nella battaglia politica contro l’economicismo- Trotsky compie l’errore di non comprendere la chiarezza leninista sulla questione del Partito; da qui lo schierarsi con il menscevismo per breve periodo; poi il suo percorrere dal 1904 al 1917 la vita della socialdemocrazia rivoluzionaria russa come militante indipendente, alla testa di una piccola frazione, cangiante in molti dei suoi componenti.
Un allearsi a volte ai bolscevichi, a volte ai loro avversari tra i marxisti russi, circondato dal grande prestigio per le sue capacità teoriche e giornalistiche e per il suo ruolo centrale nella fallita rivoluzione del 1905, come presidente del soviet di San Pietroburgo. Io credo che ci siano lezioni in questo errore di Trotsky: perchè a volte non si comprende che la perfezione, in politica non esiste. Non è esistita per Lenin, non è esistita per Trotsky, non esiste nemmeno per noi ovviamente, a maggior ragione.
Il problema è saper tirare le lezioni giuste dai propri errori e affrontare la realtà sulla base di quello che ci viene dalla storia, cioè dall’esperienza della storia.
Noi possiamo costruirci su quella che è l’esperienza che altri, più grandi di noi, hanno fatto e in questo senso non ripetere i loro errori, perché traiamo le lezioni della loro esperienza.
E’ certamente Trotsky inizialmente non comprese le ragioni di Lenin rispetto la costruzione del Partito, come partito chiaro nelle sue strutture, in funzione delle sue prospettive generali, che pure Trotsky condivideva pienamente, in rottura politica netta con chi manteneva ambiguità rispetto i rapporti con le forze “progressiste” (anche se non bisogna confondere il menscevismo con ciò con cui noi abbiamo a che fare oggi: c’è un abisso, un abisso di classe, tra il menscevismo originario e la politica che i riformisti, pretesi “comunisti”di oggi portano avanti).
Però, nel contempo, nonostante la sua chiarezza su questo punto, nel conflitto nella socialdemocrazia russa e malgrado superi i menscevichi e la loro concezione della “rivoluzione a tappe” , (concezione secondo la quale la Russia è matura solo per una rivoluzione democratico-borghese, per cui i rivoluzionari debbono appoggiare contro lo Zarismo i liberali) Lenin non comprende fino in fondo le dinamiche potenziali di una rivoluzione in Russia. Ed è di Trotsky - con i suoi errori sul partito, con la sua scelta dell’indipendente che ha un piccolo gruppo di sostenitori e che cerca di federare tutti, dai più moderati ai più radicali all’interno del marxismo russo - la comprensione dei processi possibili, la teoria della “rivoluzione permanente” (cioè senza soluzioni di continuità,”tappe” o “fasi” storiche, nel suo percorso).
Ciò che del resto non è un’invenzione di Trotsky; ma che è propria del dibattito già nel movimento operaio tedesco prima della metà dell’800 e che poi Marx ed Engels indicano chiaramente con l’Indirizzo alla Lega dei Comunisti del 1850. Ma è di Trotsky la comprensione che - per lo sviluppo diseguale ma combinato del capitalismo internazionale da un lato e d’altro canto per le particolarità dello sviluppo del capitalismo in Russia (grande industria con concentrazione della classe operaia pur in un paese largamente contadino) - la rivoluzione poteva non fermarsi a uno stadio democratico-borghese; eventualmente ,come pensava Lenin, con una forma di controllo da parte della classe operaia attraverso la dittatura democratica degli operai e dei contadini. E’ Trosky che indica come essa poteva arrivare fino alla presa del potere da parte della classe operaia, alla realizzazione della dittatura del proletariato e all’apertura sul piano nazionale della prospettiva socialista. Solo apertura sul piano nazionale perché quello che era chiaro a Trotsky è che lo sviluppo del socialismo sarebbe stato possibile solo su un piano internazionale.
Concetto che sarà da lui difeso contro quelli che lo accusavano, quando proponeva la rivoluzione permanente, di andare oltre le potenzialità russe. Gli stessi che, una volta arrivati al potere, avrebbero ritenuto possibile realizzare il “socialismo in un solo paese” (quindi “Lasciateci tranquilli governare il nostro Paese, non parlate di rivoluzione internazionale”). Invece Trotsky, d’accordo pienamente con Lenin, sostenne sempre la palese verità, dimostrata poi, a negativo, dalla storia, che il compimento di un processo rivoluzionario socialista può avvenire solo su scala mondiale. E’ da questa dialettica di posizioni che nasce l’incontro del 1917 tra Lenin e Trotsky.
Lenin che, alla luce della guerra imperialista, rivede e supera le posizioni sulle prospettive della rivoluzione del proprio partito (che era il partito più rivoluzionario in Russia ma che aveva questo limite di comprensione); accetta nei fatti la prospettiva della rivoluzione permanente e si incontra con Trotsky. Il quale, a sua volta, capisce - di fronte al tradimento della socialdemocrazia, alle divisioni dei menscevichi (che non sono tutti socialpatrioti, alcuni sono internazionalisti ma inconseguenti, semipacifisti e via dicendo) che Lenin aveva ragione sul Partito.
Lenin stesso ricordò successivamente che da quando Trotsky aveva capito di avere avuto torto sul Partito non c’era stato miglior bolscevico di lui.
E così Trotsky fu il grande dirigente, con Lenin, della Rivoluzione.
Il principale dopo Lenin, agli occhi di tutti, agli occhi del mondo.
Così si parlava allora: Rosa Luxemburg diceva “Lenin e Trotsky e la loro rivoluzione”. (C’è sempre un limite nell’individualizzazione di grandi fenomeni, perché la rivoluzione è un processo di massa, di milioni di persone, e anche la sua avanguardia è di migliaia o di decine di migliaia di persone; però c’è un ruolo di direzione di questo processo, da qui l’identificazione; e allora si diceva “La rivoluzione di Lenin e Trotsky”).
Gli oppositori lo dicevano e anche Stalin affermava in un articolo: “Il più grande realizzatore della rivoluzione russa dopo Lenin è stato il compagno Trotsky”.
(ovviamente ciò non fu ripetuto nei successivi articoli e nelle successive opere di Stalin sulla rivoluzione, e tale articolo fu rapidamente cancellato).
Perché ,dopo la vittoria e il consolidamento della rivoluzione - grazie anche grande opera di Trotsky come dirigente dell’Armata Rossa nella guerra civile e di costruttore dello stato operaio- era iniziato lo scontro mortale tra i militanti fedeli alla prospettiva rivoluzionaria, con Trotsky alla testa, e la burocrazia.
Non Trotsky contro Stalin, ma l’Opposizione di Sinistra capeggiata da Trotsky contro la burocrazia, che si cristallizzò sulla base del fallimento o insuccesso della rivoluzione internazionale (le sconfitte nei paesi dell’Europa Centro-Occidentale che non estendono la rivoluzione), sullo sviluppo dei privilegi dell’ apparato statale e di partito di un paese arretrato, di un paese impoverito dalla guerra prima e dalla guerra civile dopo; apparato che sempre di più si allontanava dalla prospettiva su cui era nata la rivoluzione e dal marxismo.
E’ importante ricordare che questa battaglia non riguardava solo la questione, che pure è centrale, del dominio burocratico.
Questo fu il punto di partenza: prima con il tentativo di Lenin malato di costruire un blocco con Trotsky contro Stalin e la nascente burocrazia ( nella sua ultima lettera al comitato centrale del partito Lenin, passata alla storia come “Il testamento di Lenin”, scriveva testualmente: “Stalin è troppo brutale e questo difetto diventa intollerabile nella sua funzione di segretario generale.
Perciò io propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico”); tentativo frustrato dal collasso finale della sua salute.
Poi alla fine del ’23 e all’inizio del ’24, con la grande battaglia di quel 10-15% del partito bolscevico che nell’ultimo dibattito aperto e libero (dibattiti aperti ce ne furono ancora per alcuni anni ma non furono certamente liberi) nel Partito, quello per la Conferenza del gennaio ’24, si schierò con le posizioni dell’Opposizione di Sinistra.
Ma questa battaglia contro il dominio burocratico era intersecata col dibattito sulle questioni internazionali: con la critica all’Internazionale Comunista per il suo ruolo inconseguente, frutto in questo caso non di volontà, ma d’incapacità politica.
Così rispetto al processo rivoluzionario che stava sviluppandosi in Germania nel’23 dopo la perdita dell’occasione del’19 (imputabile alla socialdemocrazia che massacrò Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht per difendere il dominio borghese).
E il fallimento della rivoluzione nel 1923 fu dovuto in gran parte non all’incapacità del Partito Comunista Tedesco ma dell’Internazionale che stava dietro a questo partito.
Così rispetto alla rivoluzione cinese del ‘25-27, con la lotta contro la capitolazione alla borghesia nazionale del Partito Comunista Cinese; politica neomenscevica imposta ai dirigenti cinesi: infatti i massimi dirigenti del PCC erano contrari tale linea. Io ho avuto l’onore, di conoscere nella mia gioventù quello che era stato il compagno più importante ,dopo il Segretario, nell’Esecutivo del Partito Comunista Cinese negli anni ’20,- in esilio in Europa, perché, dopo esser stato per anni in prigione sotto il regime del Guomindang, ci sarebbe certamente finito anche durante il regime maoista: il dirigente della IV Internazionale Peng Shu-tse.
Egli e insieme a lui quello che era il Segretario e il fondatore del movimento comunista cinese Chen Duxiu (anche lui passato al trotskysmo nel 1929 e successivamente dirigente della IV Internazionale) furono obbligati a mantenere un blocco con la borghesia da Stalin e dall’Internazionale Comunista e quindi costretti a una disfatta. Una battaglia, quella dell’opposizione di sinistra che è continuata, per citare solo i punti essenziali, contro le teorie e le pratiche dello stalinismo successive a queste sconfitte. Contro l’avventurismo burocratico dello stalinismo. Infatti nella storia dello stalinismo c’è anche questa deviazione; espressa in primo luogo quando si individuava, in particolare nella Germania dei primi anni ’30, il nemico principale nella socialdemocrazia (“Il nazismo non è un grande pericolo e se Hitler andrà al potere bene, prima Hitler e poi noi”, questo era la politica ufficiale dell’Internazionale Comunista stalinizzata, “ Prima Hitler, poi Thaelmann”, -il segretario del Partito Comunista Tedesco- questo era lo slogan del partito comunista tedesco stalinizzato). Una battaglia quindi anche contro le semplificazioni “radicali”, che tante volte ci troviamo a dover fare anche noi, come Partito Comunista dei lavoratori, ovviamente in un quadro politico e storico molto diverso.
Una battaglia contro la semplificazione, il rifiuto di comprendere che noi dobbiamo guadagnare le masse, non dobbiamo accontentarci di testimoniare un nostro antagonismo, pur radicale, a questa società, ma la vogliamo abbattere per costruire il socialismo. Non siamo ribelli, siamo rivoluzionari, quindi ci poniamo il problema di cambiare la società e quindi il problema di conquistare anche quelli che sono lontani da noi nella nostra classe, nei movimenti di massa. Da ciò la linea del fronte unico, delle parole d’ordine transitorie, del non ultimatismo, della comprensione dei processi politici e del rifiuto delle semplificazioni. Furono delle semplificazioni avventuriste quelle che portarono nel’33 alla sconfitta in Germania.
Dal bilancio di essa nacque (non a caso non su un problema legato unicamente o prevalentemente alla degenerazione in Russia, ma su una sconfitta politica della rivoluzione internazionale, con la vittoria della controrivoluzione in Germania) il salto politico verso la costruzione della IV Internazionale e l’inizio di quella che Trotsky considerò l’opera centrale della sua vita. Tutta la vita di Trotsky nell’ultimo periodo fu un tentativo di raggruppare sulle basi fondamentali e coerenti del marxismo rivoluzionario l’avanguardia rivoluzionaria, da provenienze diverse (dalla estrema sinistra della socialdemocrazia per esempio, per azione dell’entrismo in quegli ambiti). Trotsky affermò, (cito a memoria e quindi in senso generale) : “Lenin fu essenziale per la rivoluzione russa, io ho avuto un ruolo, ma senza di me sarebbe ugualmente avvenuta".
Se Lenin non fosse rientrato dall’esilio la rivoluzione presumibilmente non sarebbe avvenuta, perché l’elemento fondamentale fu che Lenin cambiò l’indirizzo politico del partito bolscevico. Cosa che Lenin potè fare perché aveva costruito insieme ai suoi compagni un partito capace di rispondere positivamente al suo leader, che sulla base dell’esperienza poneva una svolta politica. Però senza questo leader che tornava e cambiava la linea io avrei potuto con un piccolo gruppo di sostenitori proclamare la possibilità di una dittatura del proletariato, ma non ci sarebbe stata la preparazione dell’avanguardia organizzata per questo. Oggi invece io sono essenziale perché oggi la battaglia è quella per la IV Internazionale”.
Io credo che sia stato così, nonostante l’assassinio, la morte, senz’altro largamente prematura, di Trotsky.
Nonostante gli avvenimenti successivi, io credo che questa sia stata un’essenzialità di Trotsky.
La battaglia dei marxisti rivoluzionari sarebbe stata 100 volte, o 1000 volte, più difficile senza quel filo rosso di tradizione, di immagine , di continuità politica che Trotsky ha rappresentato. E questa battaglia Trotsky la sviluppava anche (lui lo sottolineava) a nome delle migliaia di trotskisti che morivano in quegli anni fucilati in Unione Sovietica. In riferimento alla battaglia di quell’Opposizione di Sinistra, manteneva la continuità e la portava nel movimento operaio internazionale, in particolare in Occidente, perché in Russia ormai i legami diretti erano tagliati. Una battaglia, quella di Trotsky , che appunto esemplifica quella delle migliaia di rivoluzionari dimenticati. Russi, ma non solo; come i cinesi che studiavano all’università di Mosca, tutti comunisti ovviamente, che si schierarono in larga maggioranza con Trotsky, di cui nessuno o quasi ricorda i nomi; morirono insieme ai trotskisti russi e a tanti altri.
Tutti vittime di quell’apparato di falsificazione (si vedano i famosi processi di Mosca del 1936-38 con confessioni inverosimili estorte con la tortura) e di massacro organizzato e diretto da quello che è stato il più grande assassino di comunisti della storia, Josef Stalin (e questa, precisiamolo, non è un’opinione ma un oggettivo e incontrovertibile fatto storico). Ed è questo, intorno alla metà degli anni ’30, il periodo della lotta, oltre che contro la dittatura totalitaria in URSS ( analizzata magnificamente nel suo “La rivoluzione tradita”), contro la politica dei cosiddetti “Fronti Popolari”.
Cioè contro la politica dei partiti socialisti e di quelli comunisti stalinizzati, ormai divenuti apparati neoriformisti controrivoluzionari, di alleanza, in nome dell’antifascismo, con la borghesia cosiddetta “progressista”; ovviamente sul programma e nell’interesse di quest’ultima. In realtà questi malnominati “fronti popolari” avevano lo scopo di prevenire le possibilità di una vera rivoluzione proletaria, come si vide con chiarezza in Spagna dove il ruolo di repressore della avanguardia proletaria (trotskysti, comunisti antistalinisti e anarchici conseguenti) fu giocato appunto dallo stalinismo sia locale, che internazionale, con i suoi Togliatti, Vidali, Marty, etc. E naturalmente con la politica rinunciataria dei fronti popolari - come appunto si vide in Spagna, ma sostanzialmente anche in Francia- la reazione non fu vinta, ma anzi trionfò.
Le lezioni politiche di questa lotta contro la collaborazione di classe sono totalmente attuali.
Esse inoltre sottolineano un fatto fondamentale: il trotskismo non è solo antistalinismo. E’il marxismo rivoluzionario della nostra epoca.
Da tempo oramai, da oltre 70 anni appunto, il movimento trotskista è diventato l’unica forza politica reale che si pone il compito concreto di realizzare la rivoluzione socialista internazionale.
Non è una questione di democrazia operaia contro la degenerazione burocratica.
Ovviamente c’è anche questo aspetto, ma esso parte dalla comprensione che la degenerazione nasce da un processo che costituiva l’affossamento della prospettiva della rivoluzione socialista internazionale e quindi della liberazione dell’umanità.
Quando crollò lo stalinismo in URSS e nell’Europa centro-orientale molti espressoro concetti come quello di un intellettuale brillante e vecchio militante, Pierre Broué, che ha scritto una apprezzata biografia di Trotsky, pubblicata anche in Italia.
Brouè disse, a dire il vero cercando successivamente di ritrattare in parte: “Adesso, crollato lo stalinismo, il senso del trotskismo viene meno”. NO, assolutamente no. Solo chi ha frainteso, magari scrivendone brillantemente, il senso della battaglia di Trotsky e della IV Internazionale e i compiti che si davano può confondersi su questo terreno. La fine dello stalinismo non significa minimamente la fine dei compiti del movimento trotskista. Il trotskismo è un movimento che rivendica la continuità rivoluzionaria alla luce dell’esperienza del movimento operaio: da Marx, alla rivoluzione russa, alla lotta contro lo stalinismo, all’analisi del fascismo, al mantenimento della lotta per l’indipendenza di classe rispetto a ogni collaborazione di classe, ai fronti popolari di forme diverse che, oggi come ieri, ci troviamo di fronte; tutto ciò in funzione della realizzazione della rivoluzione socialista internazionale. Per questo la nostra proposta non è una proposta del passato, è assolutamente attuale e in un certo senso lo è a maggior ragione di fronte alla crisi e alla morte dello stalinismo.
Morte o trasformazione capitalistica dei regimi stalinisti (come nella attuale Cina) che deriva dalla natura storicamente restaurazionista dello stalinismo come Trotsky magistralmente analizzò.
Pochi mesi prima di morire, intuendo i rischi che correva e sentendo avanzare l’età e i suoi rischi (i 60 di allora non erano esattamente quelli di oggi) Trotsky scrisse il suo testamento politico e personale in cui affermava tra l’altro: “Per 43 anni della mia vita cosciente sono stato un rivoluzionario; per quarantadue ho lottato sotto le bandiere del marxismo. […..]
Morirò da rivoluzionario proletario, da marxista, da materialista dialettico e quindi da ateo inconciliabile.
La mia fede nell’avvenire comunista del genere umano non è meno ardente, anzi è ancora più salda, che nei giorni della mia giovinezza[…..] La vita è bella.
Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione e violenza e goderla in tutto il suo splendore” Le ultime parole di Trotsky mentre agonizzava nelle ore dopo l’attentato furono di affetto per la sua compagna Natalia Sedova,ed anche questo è bello , ma le ultime parole politiche, furono
“Sono sicuro della vittoria della IV Internazionale, andate avanti”,
un messaggio ai compagni e alle compagne.
La storia ovviamente è stata più complessa.
Proprio l’espansione dello stalinismo fu uno dei fattori, insieme alla ripresa del capitalismo, a fare sì che dopo la II Guerra Mondiale la IV Internazionale non sia stata all’altezza delle aspettative di Trotsky.
In particolare per l’espansione dello stalinismo; perché quando avvenne il processo di degenerazione iniziale del movimento trotskista il boom capitalista non si era ancora consolidato e tantomeno era chiaro al gruppo dirigente della IV Internazionale. Quel che appariva chiaro è che lo stalinismo sembrava trionfare nei processi rivoluzionari. Da qui la teoria del leader di allora, parliamo del 1950, dell’Internazionale, il greco Michel Raptis detto Pablo, - accettata non dalla totalità, ma dalla maggioranza dei dirigenti, tra cui un giovanissimo Livio Maitan -, teoria secondo cui si aprivano “ secoli di stati operai di transizione necessariamente lontani dalle norme della democrazia operaia”, perchè lo stalinismo avrebbe compiuto la rivoluzione socialista nel mondo, nell’ambito dello scontro che allora sembrava dirompente con l’imperialismo. Insomma, se la via del socialismo era quella, bisognava adattarsi, abbandonare il trotskismo “ortodosso”, le “vecchie” concezioni del marxismo rivoluzionario, mantenere un sentimento di lotta per la democrazia operaia, ma in definitiva far parte del processo reale che si vedeva in quei termini.
Come spesso succede, i grandi innovatori furono assai più miopi del leader storico che tradivano.
Nei fatti non tradivano lui come individualità; tradivano il pensiero politico e la battaglia del trotskismo precedente, con una politica di adattamento, alla ricerca del leader che potesse risolvere i problemi per loro; allora era lo stalinismo , la sinistra stalinista con i Tito, Mao, Gomulka, etc.; poi saranno molti altri, molto più modestamente; arrivando fino a Fausto Bertinotti, che i compagni di quella che sarebbe divenuta Sinistra Critica, hanno per anni sostenuto, sperando assurdamente nei risultati di una politica di pressioni su di lui. Trotsky era molto più lungimirante, scrivendo nel 1938, rispetto all’URSS e al ruolo della burocrazia, questa frase ne Il programma di transizione:
“Il pronostico politico ha un carattere alternativo: o la burocrazia, divenendo sempre più l’organo della borghesia mondiale nello stato operaio, distrugge le nuove forme di proprietà e respinge il Paese nel capitalismo o la classe operaia schiaccia la burocrazia e si apre la via verso il socialismo”.
Questa era l’alternativa vera: non burocrazia- con la classe operaia al suo seguito- contro l’imperialismo, come affermavano Pablo e i suoi sostenitori, ma classe operaia contro imperialismo e burocrazia storicamente restaurazionista. Purtroppo sappiamo com’è andata. Ma la giustezza dell’analisi di Trotsky, sulla base della comprensione materialista delle classi, dei settori sociali in lotta e del divenire storico, è stata io lampantemente dimostrata e dà valore alla nostra battaglia, alla nostra comprensione della realtà. Certo la battaglia è più complessa, appunto per questa crisi di dispersione, di degenerazione in parte, della IV Internazionale; cosa che però non deve essere vista mai, da marxisti, come un dramma assoluto. C’è un testo di Trotsky, pochissimo conosciuto perché non è un testo importante, è un testo di discussione della fine degli anni ’30. In esso un critico dubbioso nel movimento operaio gli chiedeva: “Ma che garanzie abbiamo che anche questa Internazionale non degeneri? E’ degenerata la I Internazionale, poi la II, poi la III” e Trotsky risponde ( cito a memoria in senso generale):
“Nessuna. Se degenererà dovremo ricominciare, è la storia che lo decide, perché quello che ci muove, non è un partito o un Internazionale visto come fine, ma la volontà di cambiare questo mondo nell’unico senso possibile, in senso socialista, con la rivoluzione”.
Mi pare che non ci siano elementi , con tutte le differenze da 70 anni a oggi, per dire che questo obiettivo ha da essere cambiato, o modificato. Bisogna costruire pazientemente il processo per la rivoluzione socialista e in questo senso bisogna rifondare la IV Internazionale. Rifondarla perché non esiste più attualmente una IV Internazionale, né piccola né grande, degna di questo nome. Rifondare la IV però e non la V perché il suo processo di degenerazione è stato diverso, meno grave di quelli precedenti; perché settori dispersi di questo movimento possono far parte della sua rifondazione e perché ancora bisogna presentare una IV Internazionale di massa, e quindi completare l’opera che Trotsky e i suoi compagni hanno iniziato, in così difficili condizioni, alla fine degli anni ’30. E’ quello che cerchiamo di fare come Partito Comunista dei Lavoratori, nell’ambito della nostra partecipazione, con partiti e militanti di tanti altri paesi, al Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale.
Quindi così, io credo, noi oggi dobbiamo ricordare Trotsky, nel settantesimo del suo assassinio; continuando ad andare avanti nella prospettiva della rivoluzione socialista internazionale con “il pessimismo della ragione”, quindi comprendendo tutti i nostri limiti; ma anche con “l’ottimismo della volontà. Perché chi avesse affermato solo 15 anni prima del 1917 che era possibile una rivoluzione socialista nell’impero dello zar sarebbe stato considerato dai più, anche all’interno del movimento operaio, come un folle. Eppure la storia, che è stata fatta dall’ottimismo e dalla volontà di tanti rivoluzionari (con alla loro testa, in quell’occasione, Lenin e Trotsky) ha dimostrato che si può cambiare il mondo. Noi dobbiamo continuare la loro lotta tesi a questo scopo e ,in questo senso, fedeli alla bella e grande tradizione e esperienza che ci hanno lasciato come eredità Trotsky e i compagni che con lui hanno lottato in quegli anni lontani.
Il 21 agosto 1940 moriva il grande rivoluzionario, compagno di Lenin nell’ “assalto al cielo”
del 1917 in Russia, fondatore dell’Armata Rossa e della Quarta internazionale; vittima di un sicario del “più grande assassino di comunisti della storia”, Giuseppe Stalin.
Riproduciamo qui di seguito l’intervento che ha svolto il compagno Franco Grisolia all’iniziativa in ricordo di Trotsky svoltasi a Carrara il 6 agosto Settanta anni fa, il 20 agosto del 1940, l’agente stalinista Ramon Mercader, infiltratosi con l’inganno nella casa messicana di Trosky, colpiva a morte il grande rivoluzionario, il compagno di Lenin nella direzione della rivoluzione russa, il fondatore dell’Armata Rossa, il dirigente della Internazionale comunista alle sue origini, il principale teorico e leader della neonata IV Internazionale.
Trotsky sarebbe spirato il giorno dopo.
Pochi mesi prima le truppe tedesche avevano travolto la Francia, l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo, portando anche qui ad un dominio fascista ormai quasi generale in tutta l’Europa continentale; con l’eccezione dell’URSS, dominata da una burocrazia stalinista che aveva realizzato un’alleanza di fatto con la Germania nazista attraverso il patto Hitler-Stalin, che aveva dato il via libera alla guerra.
Questo dopo aver massacrato nelle “purghe” degli ultimi anni ’30 intere generazioni di dirigenti e militanti comunisti, in URSS (ma anche in altri paesi si pensi alla Spagna della guerra civile contro il franchismo), di tutte le nazionalità dello stato sovietico o rifugiati nel “paese del socialismo”.
Era veramente, come si è detto, “la mezzanotte del secolo”. L’assassinio di Trotsky, come si è sempre saputo e come è ormai conosciuto anche nei dettagli, era stato deciso direttamente da Stalin ed organizzato con la supervisione del suo fido compare Beria.
Giocava naturalmente in questa scelta l’odio del dittatore rinnegato contro il suo grande avversario, ma c’era qualcosa di più.
Era la paura del ruolo che Leone Trotsky avrebbe potuto giocare, alla testa della IV Internazionale, sul piano internazionale e, in particolare, in riferimento all’URSS.
Perché infatti, nonostante il massacro dei militanti comunisti (anche quelli che non si erano schierati con Trotsky e con gli altri oppositori negli anni ’20 o nei primi anni ’30) la burocrazia stalinista, e Stalin al suo vertice, temeva la possibilità che,malgrado tutto, nel quadro della nuova situazione mondiale, Trotsky potesse rappresentare il punto di riferimento per una ribellione contro il suo dominio totalitario.
Pochi mesi dopo l’assassinio di Trotsky, Molotov e Ribbentrop, che erano stati i firmatari materiali del Patto di fine agosto ’39 (che permise tra l’altro la suddivisione fraterna tra stalinismo e nazismo della Polonia con incontri, abbracci e scambi tra i due eserciti sulla frontiera determinata dagli accordi), si incontrarono a Berlino per delimitare un’ipotesi di zone d’influenza ulteriori nell’Est Europa.
Non trovarono l’accordo e fu uno degli elementi (non l’unico, perché solo un cieco, come Stalin, poteva non vedere che la spinta del nazismo era in ogni modo, presto o tardi, alla guerra contro l’Unione Sovietica) che determinarono le decisioni temporali dell’attacco nazista, che avvenne nel giugno 1941.
Molotov e Ribbentropp non riuscirono a trovarsi d’accordo su questioni come il petrolio della Romania o cose del genere.
Questo basta a delineare la natura politica e morale della burocrazia stalinista. In riferimento a questo, spesso i difensori (anche quelli “critici”) della storia del movimento operaio quale è stata scritta dalla sua “maggioranza”, ci parlano del “fine che giustifica i mezzi” e affermano che, del resto, questo è un principio del leninismo, del comunismo: se il fine è buono si può fare ogni cosa.
Trotsky aveva risposto preventivamente a queste affermazioni in un libro, che oggi viene criticato come amorale da tanti benpensanti piccolo-borghesi compresi dei revisionisti del trotskismo, e che fu ripubblicata nel nostro paese alcuni anni fa con la prefazione di Marco Ferrando .
Si tratta di La loro morale e la nostra.
Io credo che sia importante citare quanto afferma Trotsky, perché esprime un concetto di metodo che valse per lui e credo debba sempre valere per i rivoluzionari tutti, in termini di morale e in termini di azione politica.
Dice dunque Trotsky ne La loro morale e la nostra
“Il materialismo dialettico non tiene separato il fine dai mezzi, il fine viene dedotto, in tutta naturalezza, dal divenire storico, i mezzi sono organicamente subordinati ai fini. Il fine immediato diventa il mezzo del fine ulteriore[…]"
Ferdinand Lassalle fa dire, nel dramma Franz von Sickinger, a uno dei personaggi:
“Non mostrare solo la meta, mostra altresì il cammino/ giacchè la meta e il cammino sono talmente uniti/ che l’uno cambia con l’altro e si muove con lui/ e che un nuovo cammino rivela un’altra meta”.
Questo concetto, che poi si traduce nella formula della “interdipendenza dialettica del fine e dei mezzi”, è un concetto fondamentale di politica e di etica rivoluzionaria.
Non l’ipocrisia è buona per il nostro fine, ma dal nostro fine devono essere determinate le vie che politicamente noi scegliamo per la nostra battaglia politica.
Chi distingue queste due cose, oppure parla di un fine lontano e dice
“Però oggi quella via dritta non è possibile, bisogna prendere un’altra strada, poi un giorno ci torneremo”, in realtà dimostra non di volere quel fine ma, indicando un’altra via, di essere su un altro terreno.
Diversi si richiamano al comunismo o al socialismo, ma, nei fatti, con il cammino che intraprendono giorno per giorno, dimostrano che il loro fine non è quello che affermato.
Del resto prima del testo di Trotsky, e contemporaneamente a lui, a Lenin e ad altri (uniti prima del 1914 in una battaglia internazionale nella II° Internazionale) lo scriveva Rosa Luxemburg, affermando che, rispetto al gradualismo pacifista dei riformisti della socialdemocrazia, non c’era solo una differenza di metodo, c’era anche una differenza di fine; e che, negando il problema della rivoluzione e della violenza rivoluzionaria di massa, i riformisti negavano non un metodo, sostituendolo con un altro più o meno valido, ma che negavano in realtà, e sempre di più, il suo fine, cioè il socialismo.
Ritornando al momento storico dell’uccisione di Trotsky si videro le conseguenze di questo “fine che giustifica i mezzi” da parte dello stalinismo con l’aggressione hitleriana nel giugno del ’41; con le truppe naziste che arrivarono a meno di 100 km da Mosca; con un esercito impreparato a causa dei massacri del gruppo dirigente, con l’eliminazione del geniale maresciallo Tukacevsky e della grande maggioranza dei comandanti dell’esercito.
Colpevoli in molti, ma non tutti, di aver magari votato con Trotsky nel lontano 1923.
Ciò che costituiva un pericolo, perché potevano pensare che, in definitiva, il loro ruolo avrebbe dovuto essere, a un certo punto, quello di liberare dal dominio totalitario di Stalin e della burocrazia l’Unione Sovietica.
Come livello aneddotico ma significativo: dagli ormai aperti archivi sovietici si vede quanto può la stupidità burocratica.
Nelle prime ore dell’attacco all’Unione Sovietica i generali del comando in capo di Stalin continuavano, su suo ordine, a ordinare alle truppe sovietiche di non reagire perché avrebbe potuto trattarsi di una provocazione dei militari tedeschi contro Hitler per… spingerlo alla guerra contro l’Unione Sovietica.
Questo oggi è chiaro, documentato, e dimostra l’ironia tragica per cui è passato alla storia come grande vincitore del nazismo (sulla base di decine di milioni di morti sacrificati per la difesa dell’Unione Sovietica) il “grande leader” che preparò le condizioni per una quasi vittoria del nazismo; che solo la grande forza del popolo russo, dei lavoratori, dei combattenti, cioè di chi ancora restava legato alla sua patria socialista e alle sue conquiste, permise di bloccare.
Trotsky - a differenza di tutti i burocrati, i carrieristi, i frazionisti ,nel senso vero, di tutte le specie- fu, tutta la sua vita, conseguente con una frase contenuta nella sua autobiografia (del 1929) La mia vita.
Credo che sia molto bella e che dia il senso dell’impegno che dev’essere proprio di tutti i marxisti rivoluzionari.
Essa dice: “Mi sono abituato a non considerare la prospettiva storica dal punto di vista del mio destino personale. Comprendere la sequenza causale degli avvenimenti e trovare il proprio posto in questa sequenza è il primo dovere di un rivoluzionario e contemporaneamente è la massima soddisfazione possibile per un uomo che non limiti i propri compiti alle esigenze quotidiane”.
Questo è il senso della soddisfazione della vita che si sceglie con la militanza rivoluzionaria.
Trotsky espresse nella propria scelta di vita il riferimento a una volontà cosciente di non subire la storia, ma di intervenire in essa,da ateo materialista, realizzando appieno le proprie potenzialità di essere umano.
Credo che questa sia la lezione grande, drammatica, bella, della vita di Trotsky. Ciò a partire dalla sua gioventù rivoluzionaria, che lo portò rapidamente a conoscere il carcere.
Perché ha 19 anni, nel 1898, quando viene scoperto dalla polizia il piccolo gruppo clandestino, prima socialista rivoluzionario“populista” poi marxista, in cui milita.
Quindi appunto il carcere, la Siberia, la fuga dalla Siberia, la grande arena del socialismo internazionale, fin dall’inizio, com’era per tutti i militanti socialisti allora.
Può essere interessante, scevri da ogni nazionalismo sia ben chiaro, ricordare che Trotsky ci dice che l’autore che lo spinse dal “populismo” (nome che aveva in Russia il movimento variegato di socialisti rivoluzionari che volevano “andare verso il popolo”, in particolare i contadini) al marxismo fu il filosofo marxista italiano Antonio Labriola.
Quindi lo studio della dialettica, la acquisizione del materialismo dialettico come elemento centrale della comprensione del mondo, della natura, dell’azione politica.
E ha un certo significato, credo, che l’inizio della vita politica di Trotsky sia un po’ incerto, perché inizia col populismo.
Ciò che succede per molti, in termini odierni, col movimentismo, anche se non è esattamente la stessa cosa; poi c’è la comprensione che la politica rivoluzionaria è altra cosa, non è semplicemente dire no e cercare di partecipare a un movimento, o, parlando di allora, “andare verso il popolo”, o, come per esempio i giovani di Lotta Continua 40 anni fa “andare verso i proletari”; ma è costruire un’analisi scientificamente corretta della realtà e dello scontro sociale e politico, individuando su questa base un programma una strategia ferma ed una tattica flessibile, ma sempre derivante da programma e strategia.
Per Trotsky questo salto di qualità parte dalla comprensione del materialismo dialettico, e non casualmente la sua vita si chiude politicamente con una battaglia sul materialismo dialettico, a partire da un problema concreto: la difesa dell’Unione Sovietica.
In questo senso in tutta la sua vita Trotsky è stato, come costruttore del movimento marxista rivoluzionario, e quindi non come “filosofo”,, un elaboratore e difensore del metodo materialistico dialettico che lo aveva spinto a fare da giovane, a 18 anni, il salto dal populismo al marxismo rivoluzionario.
I passaggi successivi della sua vita videro, nei primi anni del ‘900, la lotta contro l’economicismo, cioè quella parte della socialdemocrazia (nome che, come è noto, avevano allora i comunisti) che pensava giusto concentrarsi sulle pure rivendicazioni operaie, disdegnando le battaglie politiche generali.
Battaglia che svolge accanto a Lenin (che la espresse magistralmente nel suo “Che Fare?”). E poi,nel 1903, - dopo essere stato definito per un periodo, come ricorda lui stesso ne La mia vita, il “martello di Lenin” per la forza che metteva nella battaglia politica contro l’economicismo- Trotsky compie l’errore di non comprendere la chiarezza leninista sulla questione del Partito; da qui lo schierarsi con il menscevismo per breve periodo; poi il suo percorrere dal 1904 al 1917 la vita della socialdemocrazia rivoluzionaria russa come militante indipendente, alla testa di una piccola frazione, cangiante in molti dei suoi componenti.
Un allearsi a volte ai bolscevichi, a volte ai loro avversari tra i marxisti russi, circondato dal grande prestigio per le sue capacità teoriche e giornalistiche e per il suo ruolo centrale nella fallita rivoluzione del 1905, come presidente del soviet di San Pietroburgo. Io credo che ci siano lezioni in questo errore di Trotsky: perchè a volte non si comprende che la perfezione, in politica non esiste. Non è esistita per Lenin, non è esistita per Trotsky, non esiste nemmeno per noi ovviamente, a maggior ragione.
Il problema è saper tirare le lezioni giuste dai propri errori e affrontare la realtà sulla base di quello che ci viene dalla storia, cioè dall’esperienza della storia.
Noi possiamo costruirci su quella che è l’esperienza che altri, più grandi di noi, hanno fatto e in questo senso non ripetere i loro errori, perché traiamo le lezioni della loro esperienza.
E’ certamente Trotsky inizialmente non comprese le ragioni di Lenin rispetto la costruzione del Partito, come partito chiaro nelle sue strutture, in funzione delle sue prospettive generali, che pure Trotsky condivideva pienamente, in rottura politica netta con chi manteneva ambiguità rispetto i rapporti con le forze “progressiste” (anche se non bisogna confondere il menscevismo con ciò con cui noi abbiamo a che fare oggi: c’è un abisso, un abisso di classe, tra il menscevismo originario e la politica che i riformisti, pretesi “comunisti”di oggi portano avanti).
Però, nel contempo, nonostante la sua chiarezza su questo punto, nel conflitto nella socialdemocrazia russa e malgrado superi i menscevichi e la loro concezione della “rivoluzione a tappe” , (concezione secondo la quale la Russia è matura solo per una rivoluzione democratico-borghese, per cui i rivoluzionari debbono appoggiare contro lo Zarismo i liberali) Lenin non comprende fino in fondo le dinamiche potenziali di una rivoluzione in Russia. Ed è di Trotsky - con i suoi errori sul partito, con la sua scelta dell’indipendente che ha un piccolo gruppo di sostenitori e che cerca di federare tutti, dai più moderati ai più radicali all’interno del marxismo russo - la comprensione dei processi possibili, la teoria della “rivoluzione permanente” (cioè senza soluzioni di continuità,”tappe” o “fasi” storiche, nel suo percorso).
Ciò che del resto non è un’invenzione di Trotsky; ma che è propria del dibattito già nel movimento operaio tedesco prima della metà dell’800 e che poi Marx ed Engels indicano chiaramente con l’Indirizzo alla Lega dei Comunisti del 1850. Ma è di Trotsky la comprensione che - per lo sviluppo diseguale ma combinato del capitalismo internazionale da un lato e d’altro canto per le particolarità dello sviluppo del capitalismo in Russia (grande industria con concentrazione della classe operaia pur in un paese largamente contadino) - la rivoluzione poteva non fermarsi a uno stadio democratico-borghese; eventualmente ,come pensava Lenin, con una forma di controllo da parte della classe operaia attraverso la dittatura democratica degli operai e dei contadini. E’ Trosky che indica come essa poteva arrivare fino alla presa del potere da parte della classe operaia, alla realizzazione della dittatura del proletariato e all’apertura sul piano nazionale della prospettiva socialista. Solo apertura sul piano nazionale perché quello che era chiaro a Trotsky è che lo sviluppo del socialismo sarebbe stato possibile solo su un piano internazionale.
Concetto che sarà da lui difeso contro quelli che lo accusavano, quando proponeva la rivoluzione permanente, di andare oltre le potenzialità russe. Gli stessi che, una volta arrivati al potere, avrebbero ritenuto possibile realizzare il “socialismo in un solo paese” (quindi “Lasciateci tranquilli governare il nostro Paese, non parlate di rivoluzione internazionale”). Invece Trotsky, d’accordo pienamente con Lenin, sostenne sempre la palese verità, dimostrata poi, a negativo, dalla storia, che il compimento di un processo rivoluzionario socialista può avvenire solo su scala mondiale. E’ da questa dialettica di posizioni che nasce l’incontro del 1917 tra Lenin e Trotsky.
Lenin che, alla luce della guerra imperialista, rivede e supera le posizioni sulle prospettive della rivoluzione del proprio partito (che era il partito più rivoluzionario in Russia ma che aveva questo limite di comprensione); accetta nei fatti la prospettiva della rivoluzione permanente e si incontra con Trotsky. Il quale, a sua volta, capisce - di fronte al tradimento della socialdemocrazia, alle divisioni dei menscevichi (che non sono tutti socialpatrioti, alcuni sono internazionalisti ma inconseguenti, semipacifisti e via dicendo) che Lenin aveva ragione sul Partito.
Lenin stesso ricordò successivamente che da quando Trotsky aveva capito di avere avuto torto sul Partito non c’era stato miglior bolscevico di lui.
E così Trotsky fu il grande dirigente, con Lenin, della Rivoluzione.
Il principale dopo Lenin, agli occhi di tutti, agli occhi del mondo.
Così si parlava allora: Rosa Luxemburg diceva “Lenin e Trotsky e la loro rivoluzione”. (C’è sempre un limite nell’individualizzazione di grandi fenomeni, perché la rivoluzione è un processo di massa, di milioni di persone, e anche la sua avanguardia è di migliaia o di decine di migliaia di persone; però c’è un ruolo di direzione di questo processo, da qui l’identificazione; e allora si diceva “La rivoluzione di Lenin e Trotsky”).
Gli oppositori lo dicevano e anche Stalin affermava in un articolo: “Il più grande realizzatore della rivoluzione russa dopo Lenin è stato il compagno Trotsky”.
(ovviamente ciò non fu ripetuto nei successivi articoli e nelle successive opere di Stalin sulla rivoluzione, e tale articolo fu rapidamente cancellato).
Perché ,dopo la vittoria e il consolidamento della rivoluzione - grazie anche grande opera di Trotsky come dirigente dell’Armata Rossa nella guerra civile e di costruttore dello stato operaio- era iniziato lo scontro mortale tra i militanti fedeli alla prospettiva rivoluzionaria, con Trotsky alla testa, e la burocrazia.
Non Trotsky contro Stalin, ma l’Opposizione di Sinistra capeggiata da Trotsky contro la burocrazia, che si cristallizzò sulla base del fallimento o insuccesso della rivoluzione internazionale (le sconfitte nei paesi dell’Europa Centro-Occidentale che non estendono la rivoluzione), sullo sviluppo dei privilegi dell’ apparato statale e di partito di un paese arretrato, di un paese impoverito dalla guerra prima e dalla guerra civile dopo; apparato che sempre di più si allontanava dalla prospettiva su cui era nata la rivoluzione e dal marxismo.
E’ importante ricordare che questa battaglia non riguardava solo la questione, che pure è centrale, del dominio burocratico.
Questo fu il punto di partenza: prima con il tentativo di Lenin malato di costruire un blocco con Trotsky contro Stalin e la nascente burocrazia ( nella sua ultima lettera al comitato centrale del partito Lenin, passata alla storia come “Il testamento di Lenin”, scriveva testualmente: “Stalin è troppo brutale e questo difetto diventa intollerabile nella sua funzione di segretario generale.
Perciò io propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico”); tentativo frustrato dal collasso finale della sua salute.
Poi alla fine del ’23 e all’inizio del ’24, con la grande battaglia di quel 10-15% del partito bolscevico che nell’ultimo dibattito aperto e libero (dibattiti aperti ce ne furono ancora per alcuni anni ma non furono certamente liberi) nel Partito, quello per la Conferenza del gennaio ’24, si schierò con le posizioni dell’Opposizione di Sinistra.
Ma questa battaglia contro il dominio burocratico era intersecata col dibattito sulle questioni internazionali: con la critica all’Internazionale Comunista per il suo ruolo inconseguente, frutto in questo caso non di volontà, ma d’incapacità politica.
Così rispetto al processo rivoluzionario che stava sviluppandosi in Germania nel’23 dopo la perdita dell’occasione del’19 (imputabile alla socialdemocrazia che massacrò Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht per difendere il dominio borghese).
E il fallimento della rivoluzione nel 1923 fu dovuto in gran parte non all’incapacità del Partito Comunista Tedesco ma dell’Internazionale che stava dietro a questo partito.
Così rispetto alla rivoluzione cinese del ‘25-27, con la lotta contro la capitolazione alla borghesia nazionale del Partito Comunista Cinese; politica neomenscevica imposta ai dirigenti cinesi: infatti i massimi dirigenti del PCC erano contrari tale linea. Io ho avuto l’onore, di conoscere nella mia gioventù quello che era stato il compagno più importante ,dopo il Segretario, nell’Esecutivo del Partito Comunista Cinese negli anni ’20,- in esilio in Europa, perché, dopo esser stato per anni in prigione sotto il regime del Guomindang, ci sarebbe certamente finito anche durante il regime maoista: il dirigente della IV Internazionale Peng Shu-tse.
Egli e insieme a lui quello che era il Segretario e il fondatore del movimento comunista cinese Chen Duxiu (anche lui passato al trotskysmo nel 1929 e successivamente dirigente della IV Internazionale) furono obbligati a mantenere un blocco con la borghesia da Stalin e dall’Internazionale Comunista e quindi costretti a una disfatta. Una battaglia, quella dell’opposizione di sinistra che è continuata, per citare solo i punti essenziali, contro le teorie e le pratiche dello stalinismo successive a queste sconfitte. Contro l’avventurismo burocratico dello stalinismo. Infatti nella storia dello stalinismo c’è anche questa deviazione; espressa in primo luogo quando si individuava, in particolare nella Germania dei primi anni ’30, il nemico principale nella socialdemocrazia (“Il nazismo non è un grande pericolo e se Hitler andrà al potere bene, prima Hitler e poi noi”, questo era la politica ufficiale dell’Internazionale Comunista stalinizzata, “ Prima Hitler, poi Thaelmann”, -il segretario del Partito Comunista Tedesco- questo era lo slogan del partito comunista tedesco stalinizzato). Una battaglia quindi anche contro le semplificazioni “radicali”, che tante volte ci troviamo a dover fare anche noi, come Partito Comunista dei lavoratori, ovviamente in un quadro politico e storico molto diverso.
Una battaglia contro la semplificazione, il rifiuto di comprendere che noi dobbiamo guadagnare le masse, non dobbiamo accontentarci di testimoniare un nostro antagonismo, pur radicale, a questa società, ma la vogliamo abbattere per costruire il socialismo. Non siamo ribelli, siamo rivoluzionari, quindi ci poniamo il problema di cambiare la società e quindi il problema di conquistare anche quelli che sono lontani da noi nella nostra classe, nei movimenti di massa. Da ciò la linea del fronte unico, delle parole d’ordine transitorie, del non ultimatismo, della comprensione dei processi politici e del rifiuto delle semplificazioni. Furono delle semplificazioni avventuriste quelle che portarono nel’33 alla sconfitta in Germania.
Dal bilancio di essa nacque (non a caso non su un problema legato unicamente o prevalentemente alla degenerazione in Russia, ma su una sconfitta politica della rivoluzione internazionale, con la vittoria della controrivoluzione in Germania) il salto politico verso la costruzione della IV Internazionale e l’inizio di quella che Trotsky considerò l’opera centrale della sua vita. Tutta la vita di Trotsky nell’ultimo periodo fu un tentativo di raggruppare sulle basi fondamentali e coerenti del marxismo rivoluzionario l’avanguardia rivoluzionaria, da provenienze diverse (dalla estrema sinistra della socialdemocrazia per esempio, per azione dell’entrismo in quegli ambiti). Trotsky affermò, (cito a memoria e quindi in senso generale) : “Lenin fu essenziale per la rivoluzione russa, io ho avuto un ruolo, ma senza di me sarebbe ugualmente avvenuta".
Se Lenin non fosse rientrato dall’esilio la rivoluzione presumibilmente non sarebbe avvenuta, perché l’elemento fondamentale fu che Lenin cambiò l’indirizzo politico del partito bolscevico. Cosa che Lenin potè fare perché aveva costruito insieme ai suoi compagni un partito capace di rispondere positivamente al suo leader, che sulla base dell’esperienza poneva una svolta politica. Però senza questo leader che tornava e cambiava la linea io avrei potuto con un piccolo gruppo di sostenitori proclamare la possibilità di una dittatura del proletariato, ma non ci sarebbe stata la preparazione dell’avanguardia organizzata per questo. Oggi invece io sono essenziale perché oggi la battaglia è quella per la IV Internazionale”.
Io credo che sia stato così, nonostante l’assassinio, la morte, senz’altro largamente prematura, di Trotsky.
Nonostante gli avvenimenti successivi, io credo che questa sia stata un’essenzialità di Trotsky.
La battaglia dei marxisti rivoluzionari sarebbe stata 100 volte, o 1000 volte, più difficile senza quel filo rosso di tradizione, di immagine , di continuità politica che Trotsky ha rappresentato. E questa battaglia Trotsky la sviluppava anche (lui lo sottolineava) a nome delle migliaia di trotskisti che morivano in quegli anni fucilati in Unione Sovietica. In riferimento alla battaglia di quell’Opposizione di Sinistra, manteneva la continuità e la portava nel movimento operaio internazionale, in particolare in Occidente, perché in Russia ormai i legami diretti erano tagliati. Una battaglia, quella di Trotsky , che appunto esemplifica quella delle migliaia di rivoluzionari dimenticati. Russi, ma non solo; come i cinesi che studiavano all’università di Mosca, tutti comunisti ovviamente, che si schierarono in larga maggioranza con Trotsky, di cui nessuno o quasi ricorda i nomi; morirono insieme ai trotskisti russi e a tanti altri.
Tutti vittime di quell’apparato di falsificazione (si vedano i famosi processi di Mosca del 1936-38 con confessioni inverosimili estorte con la tortura) e di massacro organizzato e diretto da quello che è stato il più grande assassino di comunisti della storia, Josef Stalin (e questa, precisiamolo, non è un’opinione ma un oggettivo e incontrovertibile fatto storico). Ed è questo, intorno alla metà degli anni ’30, il periodo della lotta, oltre che contro la dittatura totalitaria in URSS ( analizzata magnificamente nel suo “La rivoluzione tradita”), contro la politica dei cosiddetti “Fronti Popolari”.
Cioè contro la politica dei partiti socialisti e di quelli comunisti stalinizzati, ormai divenuti apparati neoriformisti controrivoluzionari, di alleanza, in nome dell’antifascismo, con la borghesia cosiddetta “progressista”; ovviamente sul programma e nell’interesse di quest’ultima. In realtà questi malnominati “fronti popolari” avevano lo scopo di prevenire le possibilità di una vera rivoluzione proletaria, come si vide con chiarezza in Spagna dove il ruolo di repressore della avanguardia proletaria (trotskysti, comunisti antistalinisti e anarchici conseguenti) fu giocato appunto dallo stalinismo sia locale, che internazionale, con i suoi Togliatti, Vidali, Marty, etc. E naturalmente con la politica rinunciataria dei fronti popolari - come appunto si vide in Spagna, ma sostanzialmente anche in Francia- la reazione non fu vinta, ma anzi trionfò.
Le lezioni politiche di questa lotta contro la collaborazione di classe sono totalmente attuali.
Esse inoltre sottolineano un fatto fondamentale: il trotskismo non è solo antistalinismo. E’il marxismo rivoluzionario della nostra epoca.
Da tempo oramai, da oltre 70 anni appunto, il movimento trotskista è diventato l’unica forza politica reale che si pone il compito concreto di realizzare la rivoluzione socialista internazionale.
Non è una questione di democrazia operaia contro la degenerazione burocratica.
Ovviamente c’è anche questo aspetto, ma esso parte dalla comprensione che la degenerazione nasce da un processo che costituiva l’affossamento della prospettiva della rivoluzione socialista internazionale e quindi della liberazione dell’umanità.
Quando crollò lo stalinismo in URSS e nell’Europa centro-orientale molti espressoro concetti come quello di un intellettuale brillante e vecchio militante, Pierre Broué, che ha scritto una apprezzata biografia di Trotsky, pubblicata anche in Italia.
Brouè disse, a dire il vero cercando successivamente di ritrattare in parte: “Adesso, crollato lo stalinismo, il senso del trotskismo viene meno”. NO, assolutamente no. Solo chi ha frainteso, magari scrivendone brillantemente, il senso della battaglia di Trotsky e della IV Internazionale e i compiti che si davano può confondersi su questo terreno. La fine dello stalinismo non significa minimamente la fine dei compiti del movimento trotskista. Il trotskismo è un movimento che rivendica la continuità rivoluzionaria alla luce dell’esperienza del movimento operaio: da Marx, alla rivoluzione russa, alla lotta contro lo stalinismo, all’analisi del fascismo, al mantenimento della lotta per l’indipendenza di classe rispetto a ogni collaborazione di classe, ai fronti popolari di forme diverse che, oggi come ieri, ci troviamo di fronte; tutto ciò in funzione della realizzazione della rivoluzione socialista internazionale. Per questo la nostra proposta non è una proposta del passato, è assolutamente attuale e in un certo senso lo è a maggior ragione di fronte alla crisi e alla morte dello stalinismo.
Morte o trasformazione capitalistica dei regimi stalinisti (come nella attuale Cina) che deriva dalla natura storicamente restaurazionista dello stalinismo come Trotsky magistralmente analizzò.
Pochi mesi prima di morire, intuendo i rischi che correva e sentendo avanzare l’età e i suoi rischi (i 60 di allora non erano esattamente quelli di oggi) Trotsky scrisse il suo testamento politico e personale in cui affermava tra l’altro: “Per 43 anni della mia vita cosciente sono stato un rivoluzionario; per quarantadue ho lottato sotto le bandiere del marxismo. […..]
Morirò da rivoluzionario proletario, da marxista, da materialista dialettico e quindi da ateo inconciliabile.
La mia fede nell’avvenire comunista del genere umano non è meno ardente, anzi è ancora più salda, che nei giorni della mia giovinezza[…..] La vita è bella.
Possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione e violenza e goderla in tutto il suo splendore” Le ultime parole di Trotsky mentre agonizzava nelle ore dopo l’attentato furono di affetto per la sua compagna Natalia Sedova,ed anche questo è bello , ma le ultime parole politiche, furono
“Sono sicuro della vittoria della IV Internazionale, andate avanti”,
un messaggio ai compagni e alle compagne.
La storia ovviamente è stata più complessa.
Proprio l’espansione dello stalinismo fu uno dei fattori, insieme alla ripresa del capitalismo, a fare sì che dopo la II Guerra Mondiale la IV Internazionale non sia stata all’altezza delle aspettative di Trotsky.
In particolare per l’espansione dello stalinismo; perché quando avvenne il processo di degenerazione iniziale del movimento trotskista il boom capitalista non si era ancora consolidato e tantomeno era chiaro al gruppo dirigente della IV Internazionale. Quel che appariva chiaro è che lo stalinismo sembrava trionfare nei processi rivoluzionari. Da qui la teoria del leader di allora, parliamo del 1950, dell’Internazionale, il greco Michel Raptis detto Pablo, - accettata non dalla totalità, ma dalla maggioranza dei dirigenti, tra cui un giovanissimo Livio Maitan -, teoria secondo cui si aprivano “ secoli di stati operai di transizione necessariamente lontani dalle norme della democrazia operaia”, perchè lo stalinismo avrebbe compiuto la rivoluzione socialista nel mondo, nell’ambito dello scontro che allora sembrava dirompente con l’imperialismo. Insomma, se la via del socialismo era quella, bisognava adattarsi, abbandonare il trotskismo “ortodosso”, le “vecchie” concezioni del marxismo rivoluzionario, mantenere un sentimento di lotta per la democrazia operaia, ma in definitiva far parte del processo reale che si vedeva in quei termini.
Come spesso succede, i grandi innovatori furono assai più miopi del leader storico che tradivano.
Nei fatti non tradivano lui come individualità; tradivano il pensiero politico e la battaglia del trotskismo precedente, con una politica di adattamento, alla ricerca del leader che potesse risolvere i problemi per loro; allora era lo stalinismo , la sinistra stalinista con i Tito, Mao, Gomulka, etc.; poi saranno molti altri, molto più modestamente; arrivando fino a Fausto Bertinotti, che i compagni di quella che sarebbe divenuta Sinistra Critica, hanno per anni sostenuto, sperando assurdamente nei risultati di una politica di pressioni su di lui. Trotsky era molto più lungimirante, scrivendo nel 1938, rispetto all’URSS e al ruolo della burocrazia, questa frase ne Il programma di transizione:
“Il pronostico politico ha un carattere alternativo: o la burocrazia, divenendo sempre più l’organo della borghesia mondiale nello stato operaio, distrugge le nuove forme di proprietà e respinge il Paese nel capitalismo o la classe operaia schiaccia la burocrazia e si apre la via verso il socialismo”.
Questa era l’alternativa vera: non burocrazia- con la classe operaia al suo seguito- contro l’imperialismo, come affermavano Pablo e i suoi sostenitori, ma classe operaia contro imperialismo e burocrazia storicamente restaurazionista. Purtroppo sappiamo com’è andata. Ma la giustezza dell’analisi di Trotsky, sulla base della comprensione materialista delle classi, dei settori sociali in lotta e del divenire storico, è stata io lampantemente dimostrata e dà valore alla nostra battaglia, alla nostra comprensione della realtà. Certo la battaglia è più complessa, appunto per questa crisi di dispersione, di degenerazione in parte, della IV Internazionale; cosa che però non deve essere vista mai, da marxisti, come un dramma assoluto. C’è un testo di Trotsky, pochissimo conosciuto perché non è un testo importante, è un testo di discussione della fine degli anni ’30. In esso un critico dubbioso nel movimento operaio gli chiedeva: “Ma che garanzie abbiamo che anche questa Internazionale non degeneri? E’ degenerata la I Internazionale, poi la II, poi la III” e Trotsky risponde ( cito a memoria in senso generale):
“Nessuna. Se degenererà dovremo ricominciare, è la storia che lo decide, perché quello che ci muove, non è un partito o un Internazionale visto come fine, ma la volontà di cambiare questo mondo nell’unico senso possibile, in senso socialista, con la rivoluzione”.
Mi pare che non ci siano elementi , con tutte le differenze da 70 anni a oggi, per dire che questo obiettivo ha da essere cambiato, o modificato. Bisogna costruire pazientemente il processo per la rivoluzione socialista e in questo senso bisogna rifondare la IV Internazionale. Rifondarla perché non esiste più attualmente una IV Internazionale, né piccola né grande, degna di questo nome. Rifondare la IV però e non la V perché il suo processo di degenerazione è stato diverso, meno grave di quelli precedenti; perché settori dispersi di questo movimento possono far parte della sua rifondazione e perché ancora bisogna presentare una IV Internazionale di massa, e quindi completare l’opera che Trotsky e i suoi compagni hanno iniziato, in così difficili condizioni, alla fine degli anni ’30. E’ quello che cerchiamo di fare come Partito Comunista dei Lavoratori, nell’ambito della nostra partecipazione, con partiti e militanti di tanti altri paesi, al Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale.
Quindi così, io credo, noi oggi dobbiamo ricordare Trotsky, nel settantesimo del suo assassinio; continuando ad andare avanti nella prospettiva della rivoluzione socialista internazionale con “il pessimismo della ragione”, quindi comprendendo tutti i nostri limiti; ma anche con “l’ottimismo della volontà. Perché chi avesse affermato solo 15 anni prima del 1917 che era possibile una rivoluzione socialista nell’impero dello zar sarebbe stato considerato dai più, anche all’interno del movimento operaio, come un folle. Eppure la storia, che è stata fatta dall’ottimismo e dalla volontà di tanti rivoluzionari (con alla loro testa, in quell’occasione, Lenin e Trotsky) ha dimostrato che si può cambiare il mondo. Noi dobbiamo continuare la loro lotta tesi a questo scopo e ,in questo senso, fedeli alla bella e grande tradizione e esperienza che ci hanno lasciato come eredità Trotsky e i compagni che con lui hanno lottato in quegli anni lontani.
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