Premessa del 1989
La VII sessione dell’Esecutivo Allargato
dell’Internazionale comunista si aprì il 22 novembre 1926.
Si trattava di riunioni che dovevano preparare i
congressi internazionali e quindi svolgere funzione di collegamento e
coordinamento internazionale nell’intervallo di tempo da un congresso
all’altro. Però, nella misura in cui la situazione mondiale si stabilizzava e
le prospettive rivoluzionarie in Europa andavano sempre più allontanandosi, di
congressi se ne faceva sempre meno, tanto è vero che alla data del 1926,
novembre, si trattava del settimo Plenum, mentre i congressi erano fermi al
quinto, conclusosi nel giugno 1924.
Al VI Esecutivo Allargato del febbraio 1926 non era
seguito il VI congresso; e non lo lamentiamo come fatto formale, d’ossequio di
forme democratiche, bensì del riflesso nell’Internazionale di ciò che ormai era
definito in Russia: la vittoria dello stalinismo, esso stesso il riflesso della
controrivoluzione europea e mondiale. Da allora in poi i congressi
internazionali non serviranno che a ratificare le decisioni prese dallo Stato
russo e non saranno finalizzati alla propaganda e all’azione rivoluzionaria
mondiale, ma al sostegno della politica estera russa.
Fu nel corso del VII Esecutivo Allargato che la
Sinistra russa, finalmente unificata durante il 1926, si decise di dare
battaglia contro la politica della destra del Partito e finalmente nella sede
giusta, cioè nell’organo dirigente del Partito mondiale. La Sinistra, italiana
già al V congresso (giugno 1924), aveva domandato, nonostante il divieto
espresso dal Centro dell’Internazionale e la non adesione della stessa Sinistra
russa, di sottoporre al congresso internazionale la soluzione del problema
russo. Non si trattava certamente di richiedere il rispetto della volontà della
maggioranza democratica, ma che il Partito funzionasse come un vero e proprio
Partito Internazionale.
Nel periodo 1924/1926 la Sinistra italiana, fino a che
la sua voce non fu messa a tacere dagli zelanti applicatori del nuovo credo di
Mosca, il socialismo in un solo paese, più che dalla reazione fascista,
espresse sempre nelle sue manifestazioni questa posizione fondamentale:
dobbiamo salvaguardare i risultati che il movimento comunista ha conseguito nel
periodo dell’Ottobre, nella guerra civile e della fondazione
dell’Internazionale. Ecco perché anche nelle vicende interne al P.C.d’I non
porrà mai questioni nazionali ma sosterrà sempre un punto di vista internazionale
giungendo, all’Esecutivo del febbraio 1926, perfino ad auspicare, se non la
formazione di una frazione, almeno una resistenza si sinistra al nuovo
opportunismo.
Niente di simile al comportamento di altre sinistre,
come quella tedesca, pronte a seguire sempre le giravolte del centro di Mosca
pur di averne l’appoggio nella loro lotta per la direzione dei Partiti. Se si
voleva salvaguardare il nerbo del Partito non era certo con metodi degni della
peggior politica della diplomazia borghese. La stessa Sinistra russa, pur non
tralignando mai dalle genuine posizioni rivoluzionarie, mantenne fino al 1926
un’ottica nazionale: era convinta di poter risolvere le questioni russe nel
partito russo senza rischiare di "rompere" quello che evidentemente
riteneva un partito "di serie B": l’Internazionale. E non fu
certamente per caso che la Sinistra russa ritrovò la sua stessa unità ed il più
coerente ed organico collegamento con tutte le posizioni del comunismo
rivoluzionario quando fece ciò che la Sinistra italiana aveva sempre chiesto, e
cioè dare battaglia nell’Internazionale. Purtroppo non si poté realizzare il
benché minimo collegamento, perché la corrente centrista in Italia aveva ormai
portato a termine la sua nefasta opera di "epurazione" della Sinistra.
Con ciò non vogliamo sostenere che se la Sinistra
italiana fosse stata ascoltata fin dall’inizio della degenerazione, che
cominciò con il debordamento dalle sane regole tattiche, lo stalinismo non
sarebbe passato. Lo stalinismo non fu che la forma russa della controrivoluzione,
che fu fenomeno mondiale ed oggettivo. Solo la vittoria della Rivoluzione
europea poteva ostacolarlo, ma questa, alla data del 1926, aveva ormai fallito
non solo in Italia ma anche nella cruciale Germania.
Perché la difesa delle corrette posizioni
rivoluzionarie doveva nuovamente essere fatta controcorrente. In Russia il
Partito era profondamente e strutturalmente modificato anche grazie alle
famigerate "leve leniniste", ed era ormai diventato l’apparato
addetto al convogliamento del consenso popolare alle forme del potere di uno
Stato che stava rapidamente trasformandosi da Stato della dittatura proletaria
a Stato della dittatura borghese. Continuare a difendere il comunismo
rivoluzionario era possibile solo a repentaglio della propria vita, come
difatti avvenne per moltissimi militanti noti e meno noti.
Eppure, più che il rischio della vita, i nostri grandi
compagni e maestri, artefici insieme a Lenin dell’Ottobre e della fondazione
dell’Internazionale, dovettero sentire nel vivo delle loro carni l’amarezza e
il terrore della morte del Partito molto più lacerante di quella dei loro
corpi, quando dovettero constatare che i loro magnifichi ed appassionati
interventi erano diretti non più a compagni che avrebbero messo a frutto per il
bene collettivo ed impersonale del Partito le loro migliori doti e capacità di
inquadrare tutte le questioni dell’azione rivoluzionaria, ma ad una
"platea" ormai di regime che a tutto pensava fuorché ad assimilare le
lezioni da trarre dagli avvenimenti, pur momentaneamente sfavorevoli, ma nella
convinzione di doversi preparare per quelli favorevoli che certamente sarebbero
ritornati.
Zinoviev, che parlò per primo, ebbe la forza di
analizzare teoricamente, rifacendosi a Marx, Engels e Lenin, la questione del
socialismo in un solo paese, sviscerandone tutti gli aspetti e dimostrando che
si trattava di una "teoria" che rompeva con tutta la tradizione. Ma
nel migliore dei casi suscitò nella platea commenti del tipo: la teoria è un
conto, ma la pratica e un altro.
Il giorno dopo Trotzki dovette chiedere perfino il
permesso al Presidente dell’assemblea di poter parlare senza limitazioni di
tempo. Gli fu concessa solo un’ora che impiegò in gran parte per sfatare la
montatura della esistenza di un trotzkismo, alimentata da chi non esitava a far
leva sull’ignobile propaganda che Trotzki voleva approfittare della morte di
Lenin per sostituire il trotzkismo al leninismo.
Si ebbe infine, due giorni dopo, l’appassionato fermo
e deciso intervento di Kamenev, tutto centrato sulla dimostrazione che
l’ottimismo di coloro che avevano abbracciato la nuova teoria del socialismo in
un solo paese non era che l’altra faccia del loro pessimismo nei confronti
della Rivoluzione Internazionale. A dispetto delle orchestrate e stupide
interruzioni della platea giunse a termine del suo discorso tra tumulti e
grida, rinfacciando ai "costruttori" che stavano sostituendo la
prospettiva rivoluzionaria internazionale di Lenin con una prospettiva
nazionale riformista.
Questa limpida battaglia in difesa dei principi
fondamentali del marxismo sta sulla linea incorrotta del partito storico, per
questo il Partito la rivendica come l’ha sempre rivendicata
incondizionatamente. Tuttavia, da tutte le tormentate vicende di quel periodo
storico cruciale, abbiamo anche tratto l’assoluta convinzione e certezza che
solo nelle posizioni coerentemente e sistematicamente sostenute dalla Sinistra
italiana è possibile trovare il giusto metodo del funzionamento del Partito.
Ciò ci dà il diritto di affermare che il futuro partito, guida della
Rivoluzione finalmente vittoriosa internazionalmente, potrà essere incardinato
solo nei nostri teoremi e ci permette nel contempo di ribadire quale deve
essere il corretto funzionamento del Partito di oggi, che non è più Terza
Internazionale ma Partito Unico Mondiale.
Rimandando per mancanza di spazio al prossimo numero
di questa rivista la continuazione dello studio sulla Sinistra in Russia,
pubblichiamo intanto in Archivio qui il discorso di Zinoviev al quale
seguiranno quelli di Trotzki e di Kamenev.
Gli incisi fra parentesi, frutto di non recente
meticoloso lavoro di partito, li lasciamo non per sfoggio di tecnicismo ma
perché utili riferimenti per studi futuri.
Ricordiamo solo ai lettori, riguardo al penultimo
capitoletto del discorso, che il grande dirigente dell’Internazionale non poté
del resto sviluppare in quanto gli si stava togliendo la parola, che fin da
allora la Sinistra italiana non condivideva la pratica di formare blocchi
all’interno dei partiti comunisti membri della Terza Internazionale, al fine
del loro controllo politico, fra diverse loro frazioni o gruppi organizzati. Lo
ritenevamo strumento, utilmente impiegato anche da Lenin, appunto in casi
estremi, come alla vigilia dell’insurrezione, ma propri di una fase non completamente
matura dell’organo politico rivoluzionario.
Settima
Sessione dell’Esecutivo Allargato dell’Internazionale Comunista
Dicembre 1926. Discussione sulla questione russa
Discorso di
Zinoviev
Compagni! Oggi qui è stata resa nota la decisione del
Comitato Centrale del PC dell’Unione Sovietica, che lascia a me di decidere se
intervenire qui all’Esecutivo Allargato o meno. Dopo maturo ripensamento mi sono
deciso di intervenire.
Esiste veramente il pericolo che il mio intervento qui
possa dare l’impulso ad una ulteriore lotta frazionistica? Credo che questo
pericolo non sia del tutto escluso. Nel mio intervento eviterò, però, tutto ciò
che potrebbe portare a tali risultati. Non voglio nessuna lotta frazionistica,
non la condurrò (Thälmann: "Però Lei l’ha condotta!").
Il compagno Thälmann ha dichiarato in nome della
presidenza dell’Esecutivo, nella seduta del 4 dicembre 1926, secondo lo
stenogramma, che «il compagno Zinoviev e il compagno Trotzki, come membri
dell’Esecutivo, hanno il diritto e la possibilità di presentarsi qui in ogni
momento ed in ogni ora e, se vogliono, di prendere anche la parola».
Un altro membro della presidenza, il compagno Ercoli,
all’obbiezione del compagno Riese che il mio intervento forse potrebbe essere
inteso come continuazione della lotta frazionistica, ha dichiarato secondo lo
stenogramma, quanto segue: «Io credo che l’argomentazione del compagno Riese
non sia plausibile. Com’è noto, anche dopo la loro dichiarazione del 16
ottobre, i compagni dell’opposizione russa hanno sostenuto il loro punto di
vista alla 15ª conferenza del partito, e a nessuno è venuto in mente di
dichiarare che il loro intervento fosse una rottura degli impegni del 16
ottobre. Al contrario, mai si è pensato che in questo più alto organo del
partito russo, la conferenza dei partiti, essi non prendessero la parola. Il
problema si presenta a noi esattamente così. Anche dopo la dichiarazione del 16
ottobre essi hanno il diritto di venire qui a difendere il loro punto di
vista».
Questo è chiaro e inequivocabile. Questo è stato
comunicato anche nella "Pravda". Se dopo tutto questo io volessi
tacere, l’Internazionale Comunista dovrebbe intenderlo come se io stesso non
desiderassi intervenire davanti all’Internazionale Comunista.
Il 5° Congresso mondiale dell’Internazionale
Comunista, in un caso simile (benché avvenuto dopo un congresso di partito e
non dopo una conferenza di partito del PC dell’Unione Sovietica) ha
direttamente condannato un tale silenzio. Nella risoluzione del 5° Congresso
mondiale si legge: «Nonostante che l’Internazionale Comunista avesse esortato i
rappresentanti dell’Opposizione nel PCR ad esporre e motivare il loro punto di
vista davanti al congresso, e nonostante che la delegazione del PCR avesse dato
il suo consenso, con un pretesto formale essi hanno rinunciato ad intervenire».
Riferendomi a tutti questi fatti, devo quindi
esprimermi davanti all’Esecutivo Allargato. Come vedete, compagni, mi limito
solo all’esposizione delle mie concezioni di principio. Io dichiaro
esplicitamente: da parte mia non viene fatto alcun appello al Comintern contro
le decisioni del mio partito. Io mi sottometto a queste decisioni. Devo, però,
alcune spiegazioni al Comintern, ai cui organi dirigenti ho partecipato
attivamente sin dal primo giorno della sua esistenza. Il mio partito non mi ha
proibito questo.
Dato che la presidenza ha fissato in 1 ora il tempo
per il mio intervento, devo modificare il piano originale del mio discorso.
Prima di tutto sorge la domanda: Marx ed Engels si
sono espressi su questo tema? Rispondo: Si, si sono espressi.
La questione principale è la questione della teoria
del socialismo in un solo paese. In attesa della rivoluzione operaia in
Francia, Marx pose la questione di quale sarebbe la situazione internazionale
nella rivoluzione operaia in Francia il giorno dopo la vittoria.
Marx dice che il compito della classe operaia «non
viene deciso in Francia, ma in Francia viene annunciato. Da nessuna parte esso
è risolvibile nei limiti di confini nazionali».
1. La concezione di Marx era che anche un solo paese può cominciare, 2. Che questo paese non deve essere necessariamente il paese più industrializzato, e 3. Che la rivoluzione socialista può anche essere "annunciata" in un solo paese, ma non può essere "risolta" in un singolo paese.
In altre parole: la rivoluzione socialista può anche
conseguire le prime vittorie in un solo paese ed iniziare a costruire il
socialismo, ma essa non può vincere definitivamente in un solo paese. «Da
nessuna parte essa è risolvibile nei limiti dei confini nazionali». Questa è
appunto l’impostazione della questione che, come vedremo più avanti, in seguito,
in una nuova tappa storica, Lenin ha dato in forma più elaborata.
In una lettera ad Engels [8 dicembre 1858] Marx
scrisse: «Sul continente è imminente una rivoluzione ed assumerà anche subito
un carattere socialista. Non verrà essa necessariamente schiacciata, in questo
piccolo angolo, dato che su un terreno molto più grande lo sviluppo della
società borghese è ancora in ascesa?». Quindi: Marx considera perfino tutto il
continente europeo, cioè senza Inghilterra, come un "piccolo angolo"
e teme che una rivoluzione sociale possa essere schiacciata dal capitalismo di
quei territori dove il capitalismo si sviluppa su una linea ascendente.
Da questo Marx non ha affatto tratto la
"conclusione" che sul continente o anche in un singolo paese il
proletariato non possa conquistare il potere. Da questo Marx naturalmente non
ha tratto la "conclusione" che il proletariato dopo la conquista del
potere in un paese non possa avviarsi alla costruzione del socialismo in quel
paese. Marx sapeva, però allo stesso tempo che la rivoluzione sociale perfino
di tutto il continente in certe condizioni è minacciata dal pericolo di essere
schiacciata, qualora «lo sviluppo della società borghese in un territorio
incomparabilmente più grande avvenisse su una linea ascendente».
I capi socialdemocratici valutano la situazione
attuale del capitale mondiale appunto come uno sviluppo su una linea
ascendente. Questo è strettamente legato alla loro valutazione ottimistica
sulla stabilizzazione del capitalismo. Appunto per questo sono così disposti ad
emettere la sentenza di morte per l’Unione Sovietica. Secondo loro l’Unione
Sovietica si trova davanti all’alternativa: soccombere o degenerare.
Noi bolscevichi stiamo sul terreno della valutazione
di Lenin dell’attuale capitalismo come capitalismo morente, dell’attuale
periodo come vigilia della rivoluzione mondiale. Questo è in relazione con la
nostra concezione della stabilizzazione come di una stabilizzazione parziale,
oscillante, che non dura a lungo. Questo ci porta alla fede irremovibile nella
rivoluzione mondiale e nella vittoria definitiva dell’Unione Sovietica.
Nella Critica al Programma di Gotha [1875] Marx si è
espresso nello stesso senso. Engels si è espresso su questa questione in piena
concordanza con Marx. Nei "Principi del Comunismo" [la prima bozza
del Manifesto dei Comunisti] egli risponde alla domanda: «Potrà questa
rivoluzione da sola aver luogo in un solo paese?». «No. Già solo per il fatto
di aver creato il mercato mondiale, la grande industria ha posto in un tale
collegamento fra di loro tutti i popoli della terra e in particolare quelli
civilizzati, che ogni singolo popolo è dipendente da ciò che succede presso un
altro».
Da tutta l’esposizione di Engels risulta chiaramente
che per lui non si tratta della questione se un paese possa iniziare la
rivoluzione sociale. In questo punto Engels indubbiamente era solidale con
Marx.
Engels ha elencato dodici dei provvedimenti più
importanti che il proletariato vittorioso deve prendere prima di tutto.
«Infine, quando tutto il capitale, tutta la produzione e tutto lo scambio è
concentrato nelle mani della nazione, la proprietà privata si è abolita da sé,
il denaro è diventato superfluo e la produzione è talmente incrementata e gli
uomini sono talmente cambiati che possono sparire anche le ultime forme di
rapporti della vecchia società».
Credo che da queste parole d’Engels risulti
chiaramente quanto è scorretto dire che nell’Unione Sovietica – sotto la NEP –
noi abbiamo realizzato questo programma di Engels già per nove decimi. La NEP non
è ancora socialismo. Lenin diceva che la Russia della NEP deve ancora essere
trasformata in Russia socialista. Nell’anno 1926 questo compito purtroppo non è
ancora stato realizzato neanche lontanamente per nove decimi. Proprio dopo
queste parole Engels fa seguire la domanda: «Può questa rivoluzione aver luogo
da sola in un qualsiasi paese solo?». E la risposta: «No», ecc.
Questo non deve essere dimenticato.
Da tutto questo è evidente che Engels, quando parlava
di una rivoluzione socialista simultanea in Inghilterra, America, Francia e
Germania, non intendeva affatto che la conquista del potere da parte del
proletariato avverrà assolutamente nello stesso momento in questi quattro
paesi. Engels non era affatto dell’opinione che uno singolo di questi paesi non
possa "cominciare". Solo dai signori "capi" della II
Internazionale la questione viene posta così piatta, i quali con la parola
"internazionalismo" cercavano di coprire il loro tradimento, di
giustificare la loro inattività, il loro passaggio dalla parte della
"loro" patria borghese; Engels invece voleva dire che la vittoria
dell’ordine socialista sul capitalismo avverrà solo quando il socialismo si
sarà consolidato nei quattro paesi – che allora erano i quattro paesi guida –
cosa che, vista in una prospettiva storica, avverrà nel medesimo periodo.
Nel 1885 Engels scrisse: «Solo una rivoluzione in
tutta l’Europa, può essere vittoriosa». Quindi nel 1885 Engels considerava
questa questione nello stesso modo come nel 1847.
Questo punto di vista è stato difeso da Marx ed Engels
nel Manifesto dei Comunisti.
Secondo me è del tutto sbagliata l’affermazione che i
pareri sopra riportati di Marx ed Engels sul carattere internazionale della
rivoluzione socialista siano sorpassati dato che Marx ed Engels non hanno
vissuto il periodo dell’imperialismo.
Lenin scrisse una volta: «Né Marx né Engels hanno
vissuto l’epoca imperialistica del capitalismo mondiale, la quale è iniziata
solo negli anni 1898-1900. Però una caratteristica dell’Inghilterra, a partire
dalla metà del 19° secolo, consisteva nel fatto che vi erano presenti almeno
DUE caratteri essenziali dell’imperialismo: 1) immense colonie e 2) profitti di
monopolio. Sotto ambedue gli aspetti, l’Inghilterra rappresentava allora
un’eccezione fra i paesi capitalistici ed Engels e Marx, che analizzavano
quest’eccezione, indicavano chiaramente e decisamente il nesso fra questo
fenomeno e la temporanea vittoria dell’opportunismo nel movimento operaio
inglese».
La "legge della disuguaglianza", dalla quale
ora vengono tratte tante conclusioni sbagliate, Lenin non l’ha caratterizzata
solo come legge dell’imperialismo, ma come legge del capitalismo in generale:
«La disuguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del
capitalismo», scrisse Lenin [Opere XIII, 133]. Questa legge era naturalmente
ben nota a Marx ed Engels (interruzione: E chi lo nega?). È assolutamente
sbagliato affermare che la legge dello sviluppo diseguale del capitalismo non è
nota ai fondatori del comunismo scientifico.
La legge dello sviluppo diseguale – anzi, con ancora
più precisione: dello sviluppo contraddittorio, antagonistico – nasce
inevitabilmente dall’anarchia della produzione, dal sistema della concorrenza.
In Marx si trovano una serie di formulazioni dirette sullo sviluppo diseguale
del capitale.
Nelle "Teorie sul plusvalore", nel capitolo
"L’accumulazione del capitale e le crisi", analizzando la questione
della sovrapproduzione Marx prende come esempio la "produzione inglese ed
italiana" la "offerta inglese e la domanda italiana". E Marx
dice: «Dato però che solo in certe sfere, in determinate condizioni, la
produzione capitalistica può sciogliere le redini, una produzione capitalistica
sarebbe addirittura impossibile se si dovesse sviluppare contemporaneamente
e uniformemente in tutte le sfere» [Teorie sul Plusvalore, II, 2].
Nell’epoca dell’imperialismo, tutte le premesse
oggettive per la socializzazione della produzione si sono realizzate in alcuni
paesi progrediti, i quali, su questo terreno, si sono eguagliati; questi paesi
progrediti giocano un ruolo decisivo nell’economia mondiale per cui, dopo il
consolidamento del potere del proletariato in essi, saranno certamente e
incondizionatamente in grado di portare al socialismo i rimanenti paesi, cioè
di raggiungere la vittoria definitiva del socialismo in tutto il mondo.
Giustamente Lenin ha smascherato la "teoria"
di Kautsky dell’"ultra-imperialismo" come controrivoluzionaria, come
inganno verso i lavoratori.
E allo stesso tempo Lenin ha "preso in
parola" Hilferding, il quale nel suo "Capitale Finanziario"
dimostrava che sotto il capitalismo monopolistico la vittoria della rivoluzione
mondiale dal punto di vista economico è diventata molto più facile, che dopo
l’abbattimento della borghesia è sufficiente espropriare un piccolo numero
delle banche più forti per iniziare il passaggio al socialismo.
Proprio nel lavoro fondamentale di Lenin
"L’imperialismo fase suprema del capitalismo", leggiamo: «Benché
negli ultimi decenni sia avvenuto, sotto l’influenza della grande industria,
dello scambio e del capitale finanziario, un forte livellamento in tutto il
mondo, e si siano pareggiate nei vari paesi le condizioni d’economia e di vita,
tuttavia persistono non poche differenze. Tra i sei paesi summenzionati
troviamo dei giovani paesi capitalisti in rapidissimo progresso, come
l’America, la Germania e il Giappone; altri il cui capitalismo è antico, e che
negli ultimi tempi si sono sviluppati assai più lentamente dei primi, come la
Francia e l’Inghilterra, e infine un paese, la Russia, il più arretrato nei
riguardi economici, dove il più recente capitalismo imperialista è, per così
dire, avviluppato da una fitta rete di rapporti precapitalistici».
E contemporaneamente Lenin scriveva: «Tre o cinque
grandi banche, di uno qualunque tra i paesi più evoluti, attuarono
l’"unione personale" del capitale industriale e bancario, e
concentrarono nelle loro mani la disponibilità di miliardi e miliardi che
costituiscono la massima parte di capitali e delle entrate in denaro in tutto
il paese. La più cospicua manifestazione di tale monopolio è l’oligarchia
finanziaria che attrae, senza eccezioni, nella sua fitta rete di relazioni di
dipendenza tutte le istituzioni economiche e politiche della moderna società
borghese» [Op. XXII, 298].
Delle giuste conclusioni si possono trarre dalla
"legge del capitalismo" solo se non si dimentica neanche per un
attimo questo secondo lato del processo, e cioè che imperialismo significa
capitalismo monopolistico, che epoca imperialistica non significa solo concentrazione
ma anche centralizzazione, che l’epoca del capitale finanziario è l’epoca
dell’oligarchia finanziaria, l’epoca della concentrazione dei capitali e dei
redditi di denaro nelle mani di pochi.
Le condizioni del capitalismo monopolistico,
dell’imperialismo, facilitano al proletariato di un paese la possibilità di far
breccia verso il socialismo, la possibilità di battersi fino al potere e di
iniziare la rivoluzione socialista anche in un solo paese.
L’imperialismo ha comportato che adesso un numero maggiore
di paesi è diventato economicamente maturo per il socialismo di quanti non lo
fossero all’epoca di Marx ed Engels. Proprio per questo l’imperialismo
rappresenta in generale la vigilia della rivoluzione socialista mondiale.
Il proletariato di un singolo paese non solo può, ma
deve prendere il potere, perché noi abbiamo la "convinzione
scientifica" che la vittoria può essere assicurata su scala
internazionale, che le premesse oggettive per il socialismo in generale sono
mature, che su scala mondiale l’industria pesante e lo sviluppo della tecnica
sono già sufficienti per assumersi la conduzione dell’economia agricola, che
per il proletariato non è più troppo presto per arrivare al potere.
Adesso si pone la domanda: Marx ed Engels allora sono
effettivamente "sorpassati" in queste questioni?
Il marxismo naturalmente non è un dogma, bensì una
guida per l’azione. Ma nel caso delle tesi sopra riportate di Marx ed Engels
non si tratta di parole fortuite, ma della concezione fondamentale del
marxismo. Abbiamo qui il nocciolo rivoluzionario del marxismo.
È noto che Bernstein ed altri revisionisti e
"seguaci", per esempio di Charles Andler, iniziarono il loro
"lavoro" cercando di "dimostrare" che il Manifesto dei
Comunisti sarebbe sorpassato. I marxisti ortodossi, soprattutto Lenin, contro
di questo hanno condotto la lotta nel modo più deciso. Questo dobbiamo fare
adesso anche noi.
Va da sé che ogni passo reale che favorisce veramente
il mantenimento delle conquiste della rivoluzione proletaria vale più di
dozzine di tesi e programmi sull’utilità della rivoluzione mondiale "in
generale". A questo riguardo il proletariato internazionale deve imparare
nella massima misura da Lenin, primo capo della rivoluzione proletaria
vittoriosa. Lenin sostiene pienamente le concezioni fondamentali di Marx ed
Engels.
Dopo la presa del potere attraverso i bolscevichi,
Lenin è continuamente ritornato sulla questione del socialismo in un singolo
paese. Vogliamo riportare qui solo le sue dichiarazioni più importanti: «Una
vittoria completa, definitiva a livello internazionale nella sola Russia è
impossibile, essa sarà possibile solo, quando il proletariato vincerà in tutti
i paesi, almeno nei paesi più progrediti o in alcuni dei paesi più progrediti»
[Op. XVI, 61]. «L’ho già espresso ripetutamente: in confronto ai paesi
progrediti, per i russi era più facile iniziare la grande rivoluzione
proletaria, ma sarà difficile per loro continuarla, condurla fino alla vittoria
finale, nel senso della società socialista completa». «Quando mai qualcuno dei
bolscevichi ha negato che la rivoluzione può vincere definitivamente solo
quando comprenderà tutti o almeno alcuni dei paesi progrediti più importanti?»
[Op. XVI, 195]. «La rivoluzione sociale in un tale paese può portare alla
vittoria definitiva a solo due condizioni: primo, alla condizione che venga
appoggiata in tempo dalla rivoluzione sociale in uno o più paesi progrediti. La
seconda condizione è l’accordo del proletariato che realizza la sua dittatura,
cioè che tiene nelle sue mani il potere statale, con la maggioranza della
popolazione contadina» [Op. XVIII, I, 137].
Per la vittoria Lenin quindi riteneva necessario non
una, bensì due condizioni, cioè non solo il collegamento con il contadiname, ma
anche la rivoluzione internazionale.
Il noto saggio "Sulle cooperative" termina
con le seguenti parole: «Sarei pronto a dichiarare che per noi il fulcro
centrale si sposta sul lavoro culturale, se non ci fossero i rapporti
internazionali, se non avessimo il dovere di condurre la lotta su scala
internazionale per la nostra posizione» [Op. XVIII, II, 144]. «Voi tutti sapete
quale potenza internazionale rappresenta il capitale, come sono legate fra loro
le più grandi fabbriche capitalistiche, imprese, case commerciali in tutto il
mondo. Ne risulta ovviamente con tutta chiarezza che il capitale non può essere
vinto definitivamente in un singolo paese» [Op. XX, II, 453]. «Abbiamo sempre
dichiarato con determinatezza che questa vittoria non può essere una vittoria
stabile se non viene appoggiata dalla rivoluzione proletaria in occidente; che
una giusta valutazione della nostra rivoluzione è possibile solo dal punto di
vista internazionale» [Op. XVII, I, 321 e XVIII, 189]. «Non abbiamo portato a
termine nemmeno le fondamenta per una economia socialista. Queste ce le possono
ancora togliere le forze a noi nemiche del capitalismo morente. Bisogna
riconoscerlo chiaramente e ammetterlo apertamente, perché niente è più
pericoloso delle illusioni (e attacchi di vertigini su alte montagne). E in
questo riconoscere l’amara verità non c’è niente di "terribile",
niente che dia motivo giustificato anche solo alla più piccola disperazione,
perché noi abbiamo sempre difesa quella verità elementare del marxismo, abbiamo
sempre ripetuto che per la vittoria del socialismo sono necessari gli sforzi
congiunti degli operai di alcuni paesi progrediti». Questo Lenin lo ha scritto
nel marzo del 1922 [Op. XX, II, 487].
Potrei riportare ancora dozzine di tali citazioni da
Lenin.
Che cosa è il socialismo? «Il socialismo è
l’abolizione delle classi. Per abolire le classi bisogna per primo rovesciare i
proprietari fondiari ed i capitalisti. Noi abbiamo eseguito questa parte del
compito, ma questo era solo una parte, e nemmeno la parte più difficile. Per
abolire le classi, per primo bisogna eliminare la differenza fra operai e
contadini e fare di tutti degli operai» [Op. XVI, 351, e XVI, II, 377].
Circa i tempi per la realizzazione dell’ordine
socialista in Russia Lenin dice quanto segue: «La via dell’organizzazione è una
via lunga, e il compito della costruzione socialista richiede un lavoro lungo,
pertinace, ostinato, e reali cognizioni che noi non possediamo in misura
sufficiente. Anche la prossima generazione che sarà più progredita di noi,
difficilmente potrà compiere il pieno passaggio al socialismo» [Op. XV, 240].
«Il comunismo è uno stadio alto dello sviluppo del socialismo, dove gli uomini
lavorano per il bene comune nella coscienza della necessità del lavoro. Sappiamo
che adesso non siamo in grado di introdurre l’ordine socialista, auguriamo che
quest’ordine venga instaurato ai tempi dei nostri figli, forse anche ai tempi
dei nostri nipoti» [Op. XVI, 398].
In altre parti quando tratta i vari stadi dello
sviluppo e del consolidamento del socialismo, Lenin indica anche tempi più
brevi. Estremamente importante è la seguente dichiarazione di Lenin: «Fino a
che la nostra repubblica sovietica rimane una isolata marca di confine di tutto
il mondo capitalistico, sarebbe una fantasticheria del tutto ridicola e
un’utopia, pensare alla nostra piena indipendenza economica e alla
sparizione di questo o quel pericolo» [Op. XVII, 408].
Il compagno Stalin ha citato questo passo nel suo
discorso alla 15ª Conferenza del Partito, lasciando via le parole da me
sottolineate. Ma proprio in esse sta tutto il nocciolo della questione, e
queste parole di Lenin dicono chiaramente che non si tratta solo
dell’intervento armato ma anche dell’accerchiamento economico, e cioè che
abbiamo da temere che con l’aiuto delle leggi del mercato mondiale ci ruberanno
la nostra "piena indipendenza economica".
A questo sistema ben congegnato delle concezioni di
Marx, Engels e Lenin, caratterizzate dalle numerose citazioni sopra riportate
da questi classici, di solito viene contrapposto un piccolo frammento da un
piccolo articolo di Lenin, scritto il 25 agosto 1915. Guardiamo questo
frammento. Nel suddetto saggio, dal titolo "Sulla parola d’ordine degli
Stati Uniti d’Europa", Lenin scrive: «L’ineguaglianza dello sviluppo
economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è
possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo
paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo
paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione
socialista, si porrebbe contro il resto del mondo capitalistico, attirando a sé
le classi oppresse degli altri paesi, infiammandole ad insorgere contro i
capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata
contro le classi sfruttatrici e i loro Stati. La forma politica della società
nella quale il proletariato vince abbattendo la borghesia sarà la repubblica
democratica che centralizzerà sempre più la forza del proletariato di una
nazione o di più nazioni nella lotta contro gli Stati non ancora passati al
socialismo. Impossibile è la soppressione delle classi senza la dittatura della
classe oppressa, il proletariato. Impossibile è la libera unione delle nazioni
nel socialismo senza una lotta ostinata, più o meno lunga, fra le repubbliche
socialiste e gli Stati arretrati» [Op. XXI, 314].
Da questo frammento si estraggono solo le parole:
"è possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi e anche in
un solo paese" e se ne trae la conclusione che la teoria di Lenin è la
teoria del socialismo in un paese.
Esaminiamo il passo citato. È del tutto fuori dubbio
che le parole "trionfo del socialismo" sono qui intese nel senso
della conquista del potere politico da parte del proletariato. Lenin in questo
frammento non parla nemmeno della repubblica dei consigli, ma della repubblica
democratica.
Ma qui si obbietta che Lenin dice appunto: "Dopo
aver organizzato nel proprio paese la produzione socialista" ecc.! Non è quindi
chiaro che egli parla qui non solo della conquista del potere da parte del
proletariato, me espressamente anche della produzione socialista? No, questo
non è chiaro affatto. Chiara è un’altra cosa: "Dopo aver espropriato i
capitalisti e organizzato nel proprio paese la produzione socialista"
significa qui: dopo aver preso il potere dai capitalisti e dopo essere giunti
al punto che le fabbriche e le officine lavorano sotto la direzione del
proletariato socialista, cioè quando si sono gettate le basi per la
organizzazione della produzione socialista. Non appena si è conquistato il
potere politico, si deve espropriare i capitalisti e cominciare
l’organizzazione della società socialista, allo stesso tempo ci si deve
preparare alla guerra contro gli Stati capitalistici e cercare di attirare a sé
le classi oppresse degli altri paesi – questo è in realtà il pensiero di Lenin.
Sarà mai possibile attribuire a Lenin il
"pensiero" che egli abbia inteso di espropriare dapprima i
capitalisti, poi, per alcuni decenni, di organizzare la produzione socialista,
e solo dopo, di scendere in campo con la forza delle armi contro le classi
sfruttatrici ed i loro Stati e di attirare a sé le classi oppresse degli altri
paesi? Questo sarebbe puro nonsenso, questo sarebbe equivalente alla credenza
stupidamente pacifista e filistea che i capitalisti e i loro Stati sarebbero
disposti ad aspettare un decennio, fino a che il proletariato che ha preso il
potere in un paese non abbia organizzato e potenziato nel suo paese la produzione
socialista, e solo dopo passi alla guerra, contro la borghesia. Oppure non
rimane altro che attribuire a Lenin ancora un altro "pensiero", che
abbia cioè ritenuto possibile "organizzare la produzione socialista"
secondo la ricetta di un furbacchione nel corso di alcune settimane o mesi. Non
c’è altra alternativa per i nostri avversari. Questa e una
"interpretazione" sbagliata del pensiero di Lenin.
Per comprendere meglio come il compagno Lenin nel 1915
ha posto la questione della rivoluzione in Russia, è necessario rifarci ai più
importanti documenti programmatici che Lenin ha scritto poco prima e poco dopo
l’articolo "Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa". Così,
per esempio, scrisse Lenin nel noto manifesto del nostro C.C. all’inizio della
guerra imperialistica nel 1914: «In Russia, che, data la grande arretratezza di
questo paese, non ha ancora portato a termine la sua rivoluzione borghese, i
compiti dei bolscevichi devono, come prima, consistere nelle tre condizioni
fondamentali di una trasformazione democratica conseguente: la repubblica
democratica, la confisca delle terre dei grandi proprietari e la giornata
lavorativa di otto ore. Ma in tutti i paesi più progrediti, la guerra rende
attuale la parola d’ordine della rivoluzione socialista» ["La guerra e la
socialdemocrazia russa" [Op. XXI, 24].
Questo è stato scritto nell’ottobre 1914. Nell’agosto
del 1915 è stato scritto l’articolo "Sulla parola d’ordine degli Stati
Uniti d’Europa". E nell’ottobre del 1915 Lenin scrisse nelle note tesi del
nostro organo centrale di allora: «6) Il compito del proletariato russo è di
condurre a termine la rivoluzione democratica borghese in Russia allo scopo
di suscitare la rivoluzione socialista in Europa» [Op. XXIII, 369].
Nel marzo del 1917, dopo la vittoria della rivoluzione
di febbraio nel 1917 in Russia, Lenin scrisse che «queste tesi sono state
confermate in modo eccellente e alla lettera dalla rivoluzione».
Quando Lenin dopo la rivoluzione di febbraio lasciò la
Svizzera, si rivolse agli operai svizzeri con una lettera che evidentemente era
diretta a tutta l’Internazionale. In questa lettera Lenin scrisse: «Con le sue
sole forze, il proletariato russo non può condurre vittoriosamente a termine
la rivoluzione socialista, ma può dare alla rivoluzione russa un’ampiezza che
crei per essa le migliori condizioni, e, in una certa misura, la inizi.
Può rendere più facile le condizioni per l’intervento del suo principale,
più fedele collaboratore, il proletariato socialista, europeo e americano,
nelle battaglie decisive» [Op. XXIII, 369].
Questo non significa affatto che Lenin pensasse anche
solo per un attimo di limitare la rivoluzione russa nel quadro di una
rivoluzione democratica borghese (interruzione: Come Lei sta facendo!). Già nel
mio libro "Il leninismo" ho ricordato ciò: Lenin disse: «Dalla
rivoluzione democratica cominceremo subito e direttamente, nella misura della
nostra forza, della forza del proletariato cosciente ed organizzato, a passare
alla rivoluzione socialista». [Op. VI, 449].
C’è da chiedersi perché proprio Lenin stesso neanche
una sola volta, né nel 1916 né nel 1917, né dal 1917-1923 ha interpretato il
suo articolo del 1915 ["Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti"]
così come viene interpretato adesso? C’è da chiedersi come mai il compagno
Stalin stesso fino al 1924 [vedi il suo libro "Lenin e il leninismo"]
non aveva notato quest’articolo e aveva interpretato le opinioni di Lenin, sul
carattere internazionale della rivoluzione, nello stesso modo come tutti noi?
C’è da chiedersi come mai nel progetto del Comintern,
scritto nel 1922 da Bucharin, non vi è alcuna parola sulla "teoria del
socialismo in un solo paese" e neanche sul fatto che Marx ed Engels non
conoscessero la legge sulla disuguaglianza. Non c’è alcun dubbio che il programma
del Comintern, adesso, non potrebbe venir scritto dai seguaci del punto di
vista di Stalin che sotto l’angolo visuale della teoria del socialismo in un
paese. Proprio questa teoria costituirebbe il punto centrale di tutto il
programma. E nel 1923 – vivo Lenin – nel progetto di programma non ne troviamo
una parola, una sillaba, un accenno! C’è da chiedersi questo: questo è un caso?
C’è da chiedersi infine come mai solo nel 1926 si propone al Comintern per la
prima volta la nuova concezione sulla vittoria del socialismo in un paese? Come
mai, vivo Lenin, nessuno ha fatto questa proposta al Comintern? Come mai la
teoria del socialismo in un solo paese è sorta solo dopo la morte di Lenin?
Noi abbiamo qui interpretato le vere concezioni di
Lenin. C’era in esso del pessimismo? No! In esse non c’era e non c’è nessun
pessimismo, né tanto meno un non-credere-nel-socialismo. Pessimismo e
incredulità verrebbero solo se qualcuno di noi pensasse che l’attuale
"stabilizzazione" capitalistica dovesse durare una serie di decenni,
che la nostra epoca non fosse già più l’epoca della rivoluzione mondiale, che
la vittoria della rivoluzione proletaria mondiale fosse diventata problematica.
Ma questo sarebbe appunto una totale revisione delle concezioni di Lenin,
soprattutto della sua teoria dell’imperialismo. Noi comunque non ci siamo resi
colpevoli di questo.
Mancanza di una prospettiva, passività, verrebbero
fuori se noi dubitassimo che si può e si deve lavorare ora alla costruzione del
socialismo nel nostro paese, nonostante l’accerchiamento capitalistico, senza
stare con le mani in mano, con tutta l’energia, con tutto l’entusiasmo. Ma di
questo non c’è neanche da parlare. Noi lavoriamo alla costruzione del
socialismo e lo costruiremo con l’aiuto della rivoluzione proletaria negli
altri paesi (interruzione: Ma se la rivoluzione ritarda?).
Su questo mi sono espresso in modo approfondito nel
mio libro "Il leninismo". Proprio sotto questo punto di vista noi
lottiamo nel nostro partito per l’accelerazione della velocità d’industrializzazione
del nostro paese.
In singoli comunisti dell’estero abbiamo notato i
seguenti stati d’animo: «da noi la rivoluzione proletaria non viene ancora –
quindi almeno essi, i russi, costruiscano presso di sé il socialismo, anche
senza il nostro aiuto». Questi sono veramente stati d’animo della passività e
del pessimismo. Proprio con simili pensieri saranno d’accordo anche alcuni
socialdemocratici. Nel caso di singoli comunisti russi questo è in realtà
un’espressione di pessimismo nei confronti della rivoluzione proletaria
mondiale e fa sorgere la tendenza incosciente di far passare la NEP per
socialismo.
Proprio in questo consiste anche il pericolo della
revisione delle concezioni di Lenin sul carattere internazionale della
rivoluzione proletaria.
Pertanto la nostra proposta è molto semplice. Noi
proponiamo:
1) Di non dichiarare sorpassate le concezioni di Marx ed Engels su questa questione; 2) Di mantenere la concezione di Lenin su questa questione che era comune a noi tutti fino al 1924. Noi non proponiamo nient’altro.
Perché i compagni possano rendersi conto più
facilmente su come si sono modificate le concezioni del compagno Stalin,
mettiamo a confronto il suo vecchio e il suo nuovo punto di vista sulla
questione della vittoria del socialismo in un solo paese: «L’abbattimento della
borghesia e la presa del potere da parte del proletariato in un paese non
significa ancora la sicurezza della vittoria completa del socialismo. Il suo
compito più importante – l’organizzazione della produzione socialista – rimane
ancora irrisolto. Si può risolvere questo compito, conquistare la vittoria
definitiva del socialismo in un paese senza gli sforzi in comune dei proletari
d’alcuni paesi altamente sviluppati? No, questo è impossibile. Per abbattere la
borghesia bastano gli sforzi di un paese. Questo ce lo mostra la storia della
nostra rivoluzione. Però per la vittoria definitiva del socialismo, per la
organizzazione della produzione socialista sono insufficienti gli sforzi di un
paese e in particolare di un paese agrario come la Russia. A questo sono
necessari gli sforzi dei proletari d’alcuni paesi altamente sviluppati»
[Stalin: "Lenin e il leninismo" pag. 48-49]. «Abbattere il potere
della borghesia ed instaurare il potere del proletariato in un singolo paese,
non vuol dire ancora assicurare la piena vittoria del socialismo. Dopo che il
proletariato vittorioso di quel paese ha consolidato il suo potere e legato a
sé il contadiname esso può e deve costruire la società socialista. Significa
ora questo che con ciò il proletariato avrà raggiunto la vittoria completa,
definitiva, del socialismo, cioè significa questo che il proletariato può da
solo, con le forze di un singolo paese, consolidare definitivamente il
socialismo e garantire in assoluto il paese contro l’intervento e quindi anche
contro la restaurazione? No, non lo significa. Per questo è necessaria la
vittoria della rivoluzione almeno in alcuni paesi» [Stalin: "Problemi del
leninismo"].
I punti da noi sottolineati mostrano l’evoluzione
delle concezioni del compagno Stalin. L’attuale impostazione sulla
"vittoria del socialismo in un singolo paese" è sorta solo alla fine
del 1924. Comunque, al 14° Congresso del partito i rappresentanti della
maggioranza non hanno posto la questione in modo netto. Il 14° Congresso del
partito non ha preso alcuna decisione in merito.
Qualche volta si dichiara: anche se la teoria del
socialismo in un singolo paese contraddice alla teoria di Marx e Lenin, adesso
essa è però politicamente utile perché dà una prospettiva al proletariato
russo. Una tale impostazione è estremamente pericolosa. Questo è il peggior
tipo d’opportunismo. Dal punto di vista del socialismo scientifico una cosa
teoricamente sbagliata non può essere politicamente giusta.
Una prospettiva per la costruzione socialista è
assolutamente necessaria. Ma perché questa prospettiva dovrebbe essere
nazionale e non internazionale? Qui sta il nocciolo della questione. Se la
nostra classe operaia riconosce che la questione della rivoluzione mondiale è
per essa una questione di vita o di morte, è una cosa ben diversa dal venir
invece educata nella convinzione di costruire il socialismo indipendentemente
dall’andamento della rivoluzione mondiale.
Quindi, la nostra prospettiva è la prospettiva della
rivoluzione mondiale. Il potere dei soviet non perirà e porterà a termine
l’opera del socialismo, primo perché l’alleanza fra la classe operaia e i
contadini nell’Unione Sovietica può essere assicurata e, secondo, perché le
rivoluzioni negli altri paesi verranno inevitabilmente e, anche se con ritardi,
verranno comunque ancora in tempo.
Come vedete non sono pessimista. Nel mio libro
"Il leninismo" nel 1925 ne ho parlato in modo particolareggiato. «Noi
eravamo ottimisti al 12° Congresso di partito del PCR [1923], nel 1925 c’è
ancora più motivo d’esserlo».
Naturalmente non "nego" i grandi successi
che il potere dei soviet ha raggiunto, anzi ne sono fiero come tutti i
bolscevichi. Non siamo stati gli ultimi fra coloro che si sono affaticati per
questi successi. E speriamo, nonostante le divergenze, di lavorare ancora con
energia insieme a tutto il partito, all’elevamento dell’economia socialista e
della cultura socialista nell’Unione Sovietica.
Come uno degli argomenti "più decisivi"
contro la nostra posizione nella questione del socialismo in un singolo paese,
viene portato in campo l’argomento che anche su scala mondiale i rapporti fra
proletariato e contadiname sono pressappoco gli stessi come in Russia, cioè che
il contadiname rappresenta la stragrande maggioranza.
Questa argomentazione trascura come minimo le seguenti
quattro circostanze:
1) Sono già sufficienti, su scala mondiale,
l’industria pesante e lo sviluppo della tecnica, per assumersi la guida del
contadiname. Lenin disse: «Ciononostante abbiamo di diritto di dire che su
scala mondiale una tale industria esiste. Sulla terra ci sono paesi con
un’industria talmente progredita che può, in una sola volta, rifornire
centinaia di contadini arretrati. È questo che mettiamo a base dei nostri
calcoli» [Op. XVIII, 2, 399].
2) Per vincere non è necessario in assoluto avere
dappertutto la maggioranza. È sufficiente averla nei punti decisivi nel momento
decisivo. Ricordiamo il noto lavoro sui risultati delle elezioni per l’Assemblea
Costituente [1918], nel quale Lenin ha spiegato con eccellente chiarezza come i
bolscevichi avevano ottenuto la vittoria, perché nel momento decisivo avevano
la maggioranza nei punti decisivi a Pietroburgo, a Mosca, nelle armate
principali e nella flotta e presso i contadini poveri, nonostante che i
socialrivoluzionari, come dimostrarono le elezioni, avessero in Russia ancora
una considerevole maggioranza.
3) Quando si parla di maggioranza dei contadini in
tutto il mondo, si pensa anche alla popolazione contadina delle colonie e
semicolonie, in generale dei paesi dipendenti. Vi fanno parte le centinaia di
milioni di contadini in Cina, in India, in Egitto ecc. Va da sé, che se si
tiene conto delle condizioni di queste centinaia di milioni di contadini
schiacciati dal giogo dell’imperialismo, è impossibile mettere semplicemente
alla pari il ruolo spettante a loro nell’epoca della rivoluzione proletaria,
con le condizioni e il ruolo dei contadini europei o americani. È proprio
questo che vedeva Lenin, quando parlava della fusione dei grandi moti
nazional–rivoluzionari con la rivoluzione proletaria. D’altra parte la
liberazione delle colonie attraverso le rivoluzioni proletarie nei paesi
dominanti creerà una situazione completamente nuova. La liberazione dei
principali paesi coloniali ha proprio come presupposto la vittoria delle
rivoluzioni socialiste in ancora due, tre degli Stati imperialistici più forti.
4) Nell’Unione Sovietica, dopo la conquista del potere
da parte del proletariato il rapporto fra proletariato e contadini è del tutto
particolare. In tutto il resto del mondo vediamo adesso ancora tre classi: il
proletariato, il contadiname e la borghesia, la quale piega la schiena sia
degli operai sia dei contadini ed ha, con la via dell’inganno, guadagnato a sé
una parte degli operai e dei contadini. Noi [l’Unione Sovietica] adesso siamo
accerchiati da tutte le parti da Stati borghesi, cioè da Stati nei quali è la
borghesia a determinare la politica, nei quali essa tiene in mano l’armata e la
flotta, le fabbriche e le officine.
Questo non è affatto lo stesso di quello che sarà
domani, cioè quando in tutto il mondo la borghesia sarà stata abbattuta e
rimarranno solo due classi: il proletariato e i contadini. Se domani, diciamo,
si unisse a noi la rivoluzione proletaria tedesca, e dopodomani quella inglese,
cambierebbe immediatamente tutta la situazione. Allora la faremmo finita con il
dominio della borghesia in due paesi decisivi per l’Europa. Il reale rapporto
fra proletariato e contadini in quei paesi diventerebbe di colpo un altro,
nonostante che il rapporto statistico rimanga quello vecchio. E anche su scala
mondiale avverrebbe immediatamente un cambiamento decisivo nel rapporto fra
proletariato e contadini. Benché in tutto il mondo i contadini continuino ad
essere statisticamente la maggioranza, e benché in tutto il resto del mondo la
borghesia continui a piegare la schiena sia degli operai sia dei contadini, la
situazione cambierà radicalmente.
È per questo che Lenin ha detto, che la vittoria della
rivoluzione socialista è assicurata quasi a partire dal momento in cui essa
vince almeno in alcuni dei paesi più importanti.
«Quanto più forte è in un paese la socialdemocrazia
ufficiale, tanto peggio vanno le cose per la causa del proletariato. Questo lo
si può ritenere adesso un assioma pienamente dimostrato. A condizioni uguali
per il resto, è così senza dubbio». Questo l’ho scritto nell’articolo "La
socialdemocrazia come strumento della reazione" immediatamente dopo il
primo Congresso del Comintern ["L’Internazionale Comunista", 1919,
pag. 181].
Al 5° Congresso del Comintern abbiamo caratterizzato
lo strato superiore della socialdemocrazia ufficiale come "terzo
partito" della borghesia, come "ala sinistra della borghesia",
come "ala del fascismo". In sostanza manteniamo anche adesso questa
valutazione. Ciò spiega anche il fatto che gli organi di stampa
socialdemocratici, compresi quelli dei menscevichi russi, che cercano
naturalmente di sfruttare per i loro scopi le nostre divergenze, continuano a
scagliarsi contro di noi con il massimo di rabbia e d’odio, nello stesso modo
come i più importanti organi di stampa della borghesia mondiale e degli
emigrati bianchi.
Si dice che Levi e altri socialdemocratici
simpatizzino per me. Vorrei far notare il seguente fatto: al recente congresso
della socialdemocrazia austriaca a Linz, in nome dell’organizzazione
socialdemocratica di un quartiere di Vienna è intervenuta Kate Leichter, la
quale proponeva una modifica al progetto di programma elaborato da Otto Bauer.
La modifica chiedeva: lotta per la fusione dei partiti operai su scala
internazionale. Nella motivazione questa socialdemocratica diceva: «Crediamo
anche che vi contribuisca molto lo sviluppo manifestatosi in questi ultimi
tempi in Russia. Comunque si vogliano anche giudicare i metodi dello
stalinismo, una cosa è certa: attualmente in Russia ha vinto la tendenza la
quale – se prosegue in modo conseguente – porta ad un sempre maggior avvicinamento
alla socialdemocrazia».
In questo spirito quasi tutta la socialdemocrazia
giudica le nostre divergenze. E tutta la stampa mondiale borghese e gli uomini
politici di tutta l’Europa e America vanno ancora oltre.
L’atteggiamento generale dell’Internazionale Comunista
verso gli errori ultrasinistri e destri a mio parere deve essere determinato
dalle seguenti direttive di Lenin.
Nella "Malattia infantile" Lenin scrive:
«Lottando contro quali nemici in seno al movimento operaio è sorto, si è
rafforzato e temprato il bolscevismo?» La risposta di Lenin: «Anzitutto è
principalmente lottando contro l’opportunismo, che nel 1914 si è definitivamente
trasformato in socialsciovinismo ed è passato definitivamente dalla parte della
borghesia contro il proletariato. È stato questo, naturalmente, il principale
nemico del bolscevismo in seno al movimento proletario. Esso è tuttora il
nemico principale sul piano internazionale».
Nel rapporto al Secondo Congresso dell’Internazionale
Lenin diceva «L’opportunismo è il nostro nemico principale. Questo è il nostro
nemico principale, e su di esso dobbiamo riportare la vittoria. Dovremmo
condurre il presente congresso con la salda decisione di condurre sino in fondo
questa lotta in tutti i partiti. Ecco il compito principale. Rispetto ad esso,
la correzione degli errori della corrente "di sinistra" in seno al
comunismo sarà molto facile» [Op. XXI, 220].
Se si guarda la prassi nelle sezioni più importanti
del Comintern negli ultimi mesi, viene in luce che nei confronti dei
"sinistri" non è stata adottata la politica della guarigione ma la
politica del segare-via: nei confronti dei destri invece è stata adottata una
politica troppo morbida.
Il periodo di relativa stabilizzazione del capitalismo
sarà inevitabilmente un periodo della crescita dell’opportunismo in alcuni
partiti comunisti, un periodo del rafforzamento di gruppi e "capi"
destri. Se noi dimentichiamo questo, e se ci butteremo con tutta durezza sugli
ultrasinistri, questo recherà un serio danno al Comintern.
Sia fra i destri sia fra gli ultrasinistri ci sono
elementi che rompono veramente col Comintern. Non c’è neanche bisogno di dire
che colui che non fa agitazione per l’Unione Sovietica non è un comunista.
Colui che negli operai socialdemocratici che con le delegazioni vengono
nell’Unione Sovietica infonde qualsiasi tipo di sfiducia verso l’Unione
Sovietica, compie un delitto nei confronti della rivoluzione proletaria. Gente
simile è nemica del comunismo. Contro di essi bisogna combattere come contro i
peggiori nemici. Chi ha preso quella via, non è già più un "destro" o
un "ultrasinistro" ma è semplicemente passato dall’altra parte della
barricata.
Le correnti di destra indubbiamente giocano un ruolo
grave, per esempio nel partito comunista della Cecoslovacchia. Sull’organo
centrale del partito "improvvisamente" viene pubblicato un articolo
che solidarizza con Otto Bauer sulle questioni della dittatura del proletariato
ed altre. Articoli con deviazione socialdemocratica – la questione
dell’elezione del Presidente – non sono una cosa rara. E benché nel primo caso
il C.C. abbia corretto l’autore, tutto questo non avviene a caso. In Norvegia,
c’è una corrente per la liquidazione del partito; in Olanda in occasione
dell’insurrezione a Giava il partito comunista d’Olanda ha proposto insieme ai
socialdemocratici di inviare una commissione mista per esaminare la questione;
in Polonia (la tattica ai tempi del rovesciamento di Pilsudaki); in Inghilterra
nel corso degli ultimi avvenimenti è venuto fuori che in un gruppo del partito
esiste una deviazione di destra piuttosto ostinata, soprattutto in Inghilterra
questo pericolo di destra può diventare estremamente dannoso. Anche in Germania
il pericolo di destra è un fatto innegabile.
Spero che nessuno qui dirà che io sia in qualche modo
col pensiero o politicamente vicino alle correnti o ai gruppi summenzionati
veramente di destra o ai loro capi. Tutti questi gruppi sono feroci avversari
dell’opposizione nel PCUS.
Per quanto riguarda Souvarine l’unica cosa vera, è che
il compagno Humbert-Droz prima della sua partenza per il 5° Congresso del PC in
Francia, s’intrattenne con me sull’ulteriore atteggiamento nei confronti di
Souvarine. Io espressi il parere che, se Souvarine avesse fatto cessare il suo
organo di frazione, come richiesto dal 6° Plenum Allargato, sarebbe stato forse
bene che il partito gli avesse dato la possibilità di andare un anno in Cina o
in America e poi, se egli si fosse comportato in modo disciplinato, potesse
porre la questione della sua riammissione, proprio perché escluso per un anno.
Non ho assolutamente niente in comune con le concezioni specifiche di Souvarine,
e non ero e non sono in collegamento con lui (interruzione: Perché allora lo
vuole riammettere nel partito?).
Naturalmente si tratta qui solo di pericoli, di
tendenze e non di fatti compiuti.
Si può impostare la questione sui pericoli della
degenerazione così come la pone il sig. Korsch o come la poneva il sig. Martov
negli anni 1920 e 1921, cioè con l’intenzione di screditare e diffamare
l’Unione Sovietica. Invece si può e si deve impostarla come lo ha fatto Lenin:
"Che cosa è la Nuova Politica Economia dei bolscevichi – rivoluzione o
tattica?"
Lenin ha posto questa domanda in occasione di
un’avanzata del Possessor [sic., tedesco] nella primavera del 1922.
Ne hanno scritto anche altri bolscevichi, soprattutto
anche il compagno Bucharin, nel libro "L’attacco", nel quale parlava
dei pericoli della trasformazione in un’appendice dell’oligarchia Nep, ecc.
Questi pericoli quindi non sono inventati. Non si deve esagerarli. Non si deve
però neanche ignorarli.
In che consistono questi pericoli?
1) Nell’accerchiamento capitalistico internazionale, nella temporanea e relativa stabilizzazione del capitalismo. Sarebbe ridicolo negare che una tale situazione produce inevitabilmente "stati d’animo da stabilizzazione", sopravvalutazioni delle forze del capitalismo internazionale. 2) Nei lati negativi della Nep. La Nep è necessaria. Nell’Unione Sovietica non possiamo pervenire al socialismo in altro modo che attraverso la NEP. Ma sarebbe ridicolo negare che il parziale rifiorire del capitalismo, permesso da noi stessi, non abbia i suoi pericoli. Lenin lo ha ricordato continuamente. 3) Nell’ambito piccolo borghese. La classe operaia è al potere in un paese dove l’enorme maggioranza della popolazione è costituita da contadini. Quali pericoli comporti l’ambiente piccolo borghese è stato ricordato da Lenin incessantemente. 4) Nella posizione di monopolio del nostro partito. La dittatura del proletariato non è possibile senza la dittatura del partito comunista. Il nostro attuale avversario, il compagno Bucharin, al 3° Congresso dell’Internazionale disse su questa questione ora controversa: «Come marxisti ortodossi siamo tutti convinti che la dittatura di una classe è possibile solo come dittatura dell’avanguardia di questa classe, cioè la dittatura della classe operaia può essere realizzata solo attraverso la dittatura del partito comunista. Da lungo tempo abbiamo respinto la teoria insensata della contrapposizione di dittatura della classe e dittatura del partito». La dittatura del proletariato non può accettare l’esistenza d’altri partiti. La posizione di monopolio del nostro partito è assolutamente necessaria. Ma è impossibile non vedere che la posizione di monopolio del nostro partito ha anche i suoi lati negativi. Lo abbiamo fatto presente in una serie di risoluzioni dei nostri congressi di partito, per esempio al II Congresso, vivo Lenin e con sua piena approvazione. Particolarmente il II Congresso ha fatto presente che la posizione di monopolio del nostro partito ha come effetto che notevoli gruppi di funzionari politici che in altre circostanze sarebbero con i menscevichi e con i socialdemocratici, si avvicinano adesso inevitabilmente al nostro partito, lo accerchiano o semplicemente vi entrano e quindi vi portano dentro stati d’animo e concezioni non bolsceviche.
5) Nell’apparato statale. È superfluo parlare del
fatto che è impossibile trasformarlo in breve tempo in uno spirito veramente
proletario. Dobbiamo rimanere coscienti che non solo il partito influisce
sull’apparato statale ma anche l’apparato statale sul partito. Deriva perciò un
significato maggiormente negativo del burocratismo dell’apparato statale.
6) Nei fiancheggiatori. Gli "specialisti",
le categorie superiori degli impiegati e dell’intelligenza sono necessari per
la nostra causa. Ma non si può mettere in dubbio che attraverso questi gruppi
di lavoratori penetri un’influenza non proletaria nel nostro apparato statale,
in quello dell’economia, e a volte anche nel nostro apparato di partito.
È necessario vedere tutti questi pericoli, non per
capitolare davanti ad essi o per esagerarli, ma per combattere contro di essi
con delle misure corrispondenti, come ha insegnato Lenin.
Nel periodo in cui nella città cresce il capitale
privato e nelle campagne il kulak, il partito deve seguire con particolare
accuratezza questi pericoli, che stanno nei rapporti, per condurre contro di
essi la lotta con tutti i mezzi possibili. Con una politica giusta il partito
vi riuscirà pienamente. Poiché le forze che si oppongono a queste tendenze e
pericoli sono molto grandi. La rivoluzione proletaria ha risvegliato delle
forze gigantesche. Nella nostra rivoluzione, nel nostro partito sono insite
delle forze gigantesche.
Adesso sulla questione dei due partiti vengo accusato
di comportarmi con una certa tolleranza verso l’idea dei due partiti nel nostro
paese. Questo è falso. Questo non può essere dimostrato in nessun modo. Io per
primo mi sono opposto alla revisione della formula della dittatura del partito.
È evidente che colui che è per la dittatura del PCUS, non può avere un
comportamento tollerante verso l’idea di due partiti.
Al 12° Congresso del PCUS, in riferimento al mio
rapporto, venne accettata una risoluzione nella quale veniva riportata una
delle tesi fondamentali del leninismo, e cioè la tesi che la dittatura del
proletariato può essere realizzata soltanto attraverso la dittatura del Partito
Comunista. Un anno più tardi, contro questa formula del 12° Congresso del
partito si è opposto il compagno Stalin affermando che Lenin abbia parlato
della "dittatura del proletariato" e non della dittatura del Partito
Comunista.
Il passo in questione, nella risoluzione del 12°
Congresso del partito, è il seguente: «La dittatura della classe operaia non
può essere assicurata diversamente che attraverso la forma della dittatura
della sua avanguardia, cioè del Partito Comunista». La risposta di Stalin è
stata: «Mi ricordo che in una delle risoluzioni del nostro Congresso di
partito, mi sembra perfino nella risoluzione del 12° Congresso, sia stata
ammessa una tale espressione, naturalmente per sbaglio. Allora non ha ragione
Lenin che parlava della dittatura del proletariato e non della dittatura del
partito» [Stalin, "I risultati del 13° Congresso del PCR", 1924].
Questa naturalmente non è un’impostazione leninista
della questione. Lenin diceva: Abbiamo la dittatura del proletariato e proprio
per questo la dittatura del Partito Comunista. Tutto il nucleo del nostro
Comitato Centrale era unanimemente del parere che in questa questione il
compagno Stalin aveva commesso un grande errore di principio.
In base a questa dichiarazione scorretta del compagno
Stalin scrissi un articolo ["Sulla questione della dittatura del
proletariato e della dittatura del partito"] che apparve sulla Pravda come
articolo della redazione [n.190, 1924]. Prima aveva avuto luogo un consiglio di
25 membri del C.C. – leninisti – che con schiacciante maggioranza condannavano
l’errore di principio del compagno Stalin ed approvavano il mio articolo. Anche
il compagno Trotzki nei suoi lavori si è più volte espresso nel senso che la
dittatura del proletariato è concepibile realmente solo nella forma della
dittatura della sua avanguardia, cioè del partito. Naturalmente anche adesso il
mio punto di vista è pienamente quello che la dittatura vittoriosa del
proletariato è possibile solo sotto la dittatura del Partito Comunista. Fosse
anche solamente per questo, io lotterò con tutti i mezzi a mia disposizione
contro anche la minima tendenza dei due partiti, contro i minimi tentativi di
indebolire la dittatura del Partito bolscevico.
Non ritiriamo neanche una sola parola di quanto
abbiamo scritto nel corso di una serie d’anni sulla dannosità e sui pericoli
della politica frazionistica soprattutto per un partito comunista che è al
potere. Se lo sviluppo generale della lotta all’interno del PCUS ha portato al
punto che la difesa delle nostre concezioni di principio ha assunto il
carattere della lotta frazionistica, nella nostra dichiarazione del 16 ottobre
1926 abbiamo riconosciuto apertamente il nostro errore e invitato tutti i
nostri seguaci a rinunciare alla politica frazionistica.
Vogliamo però ricordare la deliberazione del 13°
Congresso del PCUS: «Solo una vita ideologica continua, pulsante, può mantenere
il partito così come si è formato prima e durante la rivoluzione, con continuo
studio critico del suo passato, correzione dei suoi errori e discussione
collettiva delle questioni più importanti». «Per la realizzazione di questo è
necessario che gli organi dirigenti del Partito ascoltino la voce della grande
massa del Partito, che non prendano ogni critica come manifestazione di spirito
frazionistico e, così, non spingano dei compagni di partito coscienziosi e
disciplinati sulla via dell’isolamento e del frazionismo».
Noi manterremo in ogni modo gli impegni che ci siamo
assunti nella dichiarazione del 16 ottobre. Lo dichiariamo anche davanti al Forum
del Comintern. L’unità del PCUS e di tutto il Comintern deve essere assicurata
ad ogni prezzo.
Lenin ha ritenuto ammissibili i blocchi. Nel 1920, al
10° congresso del nostro Partito Lenin diceva: «Un blocco è, appunto, un blocco!
Non c’è bisogno di temerlo, ma bisogna salutarlo e realizzarlo più solidamente
e più ampiamente nelle istanze centrali del Partito stesso» [Op. XVII, 90].
Lenin non ha forse formato un blocco con il compagno
Trotzki contro altri compagni del C.C., alla vigilia dell’insurrezione
dell’Ottobre 1917, in base alle questioni della costruzione dell’Armata Rossa,
dell’organizzazione dell’economia, della questione nazionale, del monopolio del
commercio estero?
Anche l’Esecutivo del Comintern ha approvato e organizzato
blocchi di due gruppi all’interno dei Partiti Comunisti di vari paesi, per
esempio in Germania, Francia, nella Cecoslovacchia, in Italia e America.
Anche da parte di rappresentanti dell’attuale
maggioranza, è stato tentato per un certo periodo dopo il 14° Congresso del
Partito, di creare un blocco con Trotzki.
Le divergenze del passato hanno il loro grande
significato. Ma il blocco deve essere giudicato in base a quelle idee teoriche
e compiti politici che gli sono stati posti come base e che sono stati spiegati
francamente in alcuni documenti. Da questo punto di vista lasciamo
tranquillamente al futuro l’esame di queste idee e parole d’ordine che noi
difendiamo, per le vie e con i mezzi ammessi dal nostro Partito.
Quanto differenziava il trotzkismo storico fino al
1917 dal leninismo non era certo in nessun modo il possesso del blocco, ed
incontrerà evidentemente sempre la nostra più rigida resistenza. In
particolare, siamo nel modo più deciso contro la teoria della rivoluzione
permanente, abbiamo lottato abbastanza contro questa teoria sbagliata. Il
compagno Trotzki stesso ha dichiarato: «Partiamo dal presupposto, come la
prassi ha dimostrato in modo inconfutabile, che in tutte le questioni in
qualche modo di principio, nelle quali qualcuno deviava da Lenin, Lenin aveva
assolutamente ragione». Nella questione dei rapporti fra proletariato e
contadini stiamo pienamente sul terreno della dottrina teorica e tattica
formulata da Lenin in base all’esperienza delle rivoluzioni degli anni 1905 e
1917 nonché anche in base all’esperienza della costruzione socialista.
Se adesso volessimo guardare retrospettivamente le
vecchie divergenze, risulterebbero qui probabilmente seri dissensi su queste o
quelle questioni fondamentali del passato. Però è fondamentalmente sbagliato
credere che qualsiasi questione legata alla valutazione delle forze motrici
della rivoluzione, possa essere ricondotta al vecchio contrasto sulla teoria
della rivoluzione permanente ecc.
Le forze motrici della rivoluzione sottostanno in ogni
nuova tappa alla valutazione marxista concreta in base a tutta l’esperienza
precedente.
Come prima, naturalmente anche adesso io sto sul
terreno del leninismo.
Non ho toccato neanche lontanamente tutte le accuse
avanzate contro di me. Per ragioni comprensibili. Ho tirato fuori alcune delle
questioni di principio più importanti. Non ho detto niente sui nostri dissensi
su: 1) la velocità dell’industrializzazione dell’Unione Sovietica; 2) la
necessità di maggiori limitazioni e di un maggiore gravame per il capitale
privato; 3) idem per i kulak; 4) la necessità del mantenimento e del graduale
aumento del salario reale degli operai; 5) la necessità della realizzazione dei
principi della democrazia interna del Partito; 6) la necessità di una lotta più
seria contro il burocratismo; 7) la necessità di una resistenza più decisa
contro l’ampliamento dei diritti elettivi e patrimoniale dello strato superiore
del villaggio, nonché delle scadenze dei fitti agricoli, e la esenzione per i
contadini poveri del 40% dei gravami fiscali, da noi proposta; 8) la politica
dei prezzi (non ho mai proposto e non propongo di condurre una politica di
aumento dei prezzi); 9) la NEP e il capitalismo di Stato; 10) la composizione sociale
del nostro partito.
Quanto detto dimostra a sufficienza che non mi sono
reso colpevole di alcuna deviazione "socialdemocratica".
Poiché mi sono separato dalla maggioranza del C.C. del
PCUS, poiché sono rimasto nella minoranza, non posso più partecipare alla
direzione del Comintern. Questo per me era già chiaro al 14° Congresso del
Partito, e in tale congresso già lo dissi nel mio discorso. Già al primo Plenum
del C.C. del PCUS dopo il 14° Congresso del Partito ho chiesto per iscritto di
destituirmi dal posto di presidente dell’Internazionale Comunista.
Lasciando ora, in seguito alla situazione creatasi, il
lavoro immediato nel Comintern, grido con voi:
Viva il Comintern!
Viva l’unità del Comintern e dei Partiti Comunisti! Viva l’Unione Sovietica! Viva il leninismo! Viva la rivoluzione mondiale! |
sabato 26 novembre 2011
DISCORSO ZINOVIEV 1926
Portogallo: a 50 anni dalla rivoluzione dei garofani
Riportiamo un articolo pubblicato dalla UIT perché ci sembra un contributo utile per la comprensione storica degli avvenimenti in questione ...
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Peng nasce nel 1896 nella contea di Longhui, nel distretto di Baoqing, nella provincia di Hunan nella Cina meridionale. Nel 1919 Peng Shuz...
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